2/2023

L’articolo presenta e rappresenta l’ordine giuridico del digitale, inquadrandolo nella dimensione costituzionale. Quindi, principalmente ma non esclusivamente, i nuovi diritti di libertà che si sono venuti a formare con l’avvento della tecnologia, soprattutto delle piattaforme digitali. Si dubita dell’efficacia di un intervento regolatorio del sistema digitale, come sta facendo la UE con i suoi regolamenti lunghi, complessi, la cui finalità non sembra essere quella promozionale ma sanzionatoria. Nell’articolo vengono evidenziate le luci più che le ombre di un ordine giuridico digitale, sebbene vi siano alcuni problemi riferiti al mercato del digitale, dove le poche grandi aziende esercitano una posizione dominante che limitano il fenomeno concorrenziale. Ulteriori riflessioni sono dedicate al tema della democrazia nell’internet e alle disfunzioni derivanti dalla disinformazione.


The legal order of the digital sphere
This article addresses the legal order of the digital sphere, focusing on the constitutional dimension. In particular, the new freedoms that have come into being with the advent of technology, especially digital platforms. There are doubts about the effectiveness of regulatory intervention, such as that attempted by the EU whose purpose seems to focus on sanctions for violations rather than on promoting freedoms. The article emphasizes the positives rather than the negatives of a digital legal order, while recognizing the problems with the digital market where the large companies exercise a dominant and anti-competitive position. The article also addresses the issue of democracy on the Internet and the challenge of misinformation.

Sommario. 1. Ordine (e disordine) nel diritto digitale.- 2. Costituzionalismo e tecnologia.- 3. I nuovi diritti costituzionali nell’era di Internet. Il diritto di accesso.- 4. Segue: il diritto alla libertà di espressione.- 5. Segue: il diritto alla privacy.- 6. Segue: il diritto all’oblio.- 7. Il diritto nell’intelligenza artificiale.- 8. Democrazia e società digitale.- 9. Fake news e disinformazione.- 10. Conclusioni.

1. Ordine (e disordine) nel diritto digitale

Il titolo di questo scritto prende, volutamente, spunto da una formulazione, «l’ordine giuridico del mercato»[1], presentata diversi anni fa, la cui teorizzazione ha suscitato consensi e perplessità: si affermava, tra l’altro, il luogo del mercato come statuto di norme, la cui decisione finale regolatoria spetta alla politica e quindi alla scelta legislativa, piuttosto che ai tribunali o alle dottrine giuridiche. Quella formula intendo qui trasferirla a uno tra i più rilevanti settori del mercato odierno, che è quello digitale. Dove però lo statuto di norme, inteso come strutturata regolazione e codificazione, appare quale metodo meno indicato per provare a dare un ordine giuridico: se non altro, quantomeno, a causa della tendenziale obsolescenza delle stesse norme, tenuto conto della rapidità con la quale si evolve e progredisce il digitale nella sua produzione industriale. Certo, ci dovrà pur essere un ordine giuridico che regola il sistema del digitale ma, a mio avviso, dovrebbe organizzarsi sulla base di norme di principio anziché di dettaglio, su norme a prevalenza promozionali anziché sanzionatorie. Come invece sembra essersi avviata l’Unione europea, attraverso una continua produzione di regolamenti, con i quali ha iniziato a normare il mercato e i servizi delle piattaforme digitali e financo a contenere l’espansione dell’intelligenza artificiale. Nell’illusione di volere “plasmare il futuro digitale dell’Europa”, per dirla con uno slogan coniato dalla stessa UE, mentre invece rischia di determinare un disordine giuridico del mercato digitale, generato da un eccesso farraginoso di norme, che complicano il quadro regolatorio e rendono assai difficile l’applicazione delle stesse, sia da parte del cittadino-consumatore-utente delle piattaforme digitali, sia da parte delle aziende che operano nel settore della tecnologia industriale. Una prova di ciò è già verificabile nei regolamenti che sono stati varati dalla UE, che si distribuiscono per numerosi articoli e paragrafi[2]: si prenda, a esempio, il Regolamento sull’intelligenza artificiale[3] (d’ora in poi: IA), che si spalma su 89 “considerando”, 85 articoli (di cui, almeno uno, il 4, di 44 paragrafi) e 9 allegati[4]. Non è facile districarsi nella boscaglia normativa nemmeno per l’intelligenza umana, anche quella di un giurista avvezzo alla interpretazione delle norme. Invece: un regolamento su una materia davvero strategica per la UE e non solo (posto che la IA si andrà a usare e applicare, da cittadini e imprese europee, in giro per il mondo, quindi oltre la perimetrazione normativa eurounitaria) dovrebbe, a mio avviso, essere sorretto da una disciplina normativa “sostenibile”, con l’intento di riuscire a bilanciare interessi e concezioni diversificate, ponendosi quale primario obiettivo quello di non inibire la ricerca e lo sviluppo della IA, tenuto conto della sua importanza per la crescita economica e per l’implementazione della ricerca scientifica, a cominciare da quella medica, dove l’impatto della IA si sta rivelando determinante per la diagnosi e la terapia di una serie di patologie. La normativa europea dovrebbe essere altresì flessibile e adattabile ai cambiamenti; con l’obiettivo di creare e formare un diritto della IA “stable but not still”.

In tal modo, si potrà giungere a una sorta di ordine giuridico del digitale: ordine da intendersi non come comando piuttosto come precetto, che dispone di compiere (o di non compiere) un certo tipo di azioni. Pertanto, il problema va impostato e risolto sul terreno pratico dell’esperienza giuridica; si deve cioè esaminare, se si tratta o no di un fatto, che si verifica nel mondo delle azioni degli uomini in società, dove è dato constatare l’esistenza del diritto, quello costituzionale in particolare.

2. Costituzionalismo e tecnologia

Del problema relativo all’ipertrofia normativa europea tratterò (anche) in questo scritto, dopo avere prima presentato e rappresentato la questione dell’ordine giuridico del digitale, sia pure costituzionalmente orientato[5]. Inizialmente, però, vorrei provare a mettere un punto fermo, oggettivo, sul sistema digitale e le sue applicazioni, tramite le piattaforme, nella società globale di oggi. Per fare ciò, è opportuno dare i numeri, per così dire, al fine di rendersi ben conto del problema, e quindi di ciò che siamo e di ciò che non vogliamo. Ebbene, con riferimento ai (più diffusi) social network, i numeri sono questi: iniziamo con Facebook, che ha 2,80 miliardi di utenti attivi mensili, 1,8 miliardi di utenti attivi giornalieri; il 59% degli utenti di internet, 58,5 minuti al giorno vengono trascorsi a “navigare” sul social; poi, Whatsapp, che ha 2 miliardi di utenti attivi mensili, ogni giorno vengono inviati più di 100 miliardi di messaggi, l’utente medio trascorre 38 minuti al giorno a mandare e leggere messaggi; infine, Twitter, che ha 353 milioni di utenti attivi al mese con un accesso quotidiano da parte di 187 milioni di persone, che trascorrono 158,2 minuti al mese usando la piattaforma per “cinguettare”[6]. È questa, piaccia oppure no, la società digitale, nella quale le nuove generazioni sono già perfettamente integrate. Si può davvero pensare di tornare indietro o pretendere di mettere un bavaglio a tutto ciò? Piuttosto bisogna lavorare per il futuro, ormai davvero prossimo, anche attraverso forme regolative del sistema digitale, che siano – insisto, ma lo dirò meglio appresso – elaborate attraverso principi e con norme promozionali anziché complesse, eccessivamente analitiche e sanzionatorie. Inoltre, con riferimento più nello specifico al diritto nella società digitale, si pensi anche a quanti atti e fatti giuridici si compiono attraverso i social, e più in generale nelle piattaforme digitali, in maniera davvero planetaria, senza confini e senza frontiere, potendo, per esempio, acquistare un appartamento a Miami, stando seduto in poltrona, davanti a un personal computer connesso a un wi-fi, nella propria abitazione nella piccola isola siciliana di Filicudi. E così pure quanti diritti costituzionali, ovvero dal “tono costituzionale”, si possono esercitare attraverso la rete internet: dal diritto di manifestazione del pensiero al diritto di associazione e riunione, e altri ancora[7].

Non torno qui su temi che mi sono cari, penso, fra gli altri, al diritto di accesso a internet, e sui quali pertanto rimando a quanto già scritto altrove[8]. Qui mi proverò ad ampliare l’orizzonte giuridico dell’internet, cercando di scrutare il paesaggio giuridico che si sta venendo a delineare nelle piattaforme digitali, soprattutto con l’avvento della IA[9]. Quale disciplina che studia se e in che modo si riproducono i processi mentali più complessi mediante l’uso di un computer, attraverso due percorsi complementari: da un lato l’IA cerca di avvicinare il funzionamento dei computer alle capacità della intelligenza umana, dall’altro usa le simulazioni informatiche per fare ipotesi sui meccanismi utilizzati dalla mente umana. Da qui, la definizione, già utilizzata, del computer come «simia hominis»[10].

La sfida che nel Ventunesimo secolo attende il costituzionalismo è, prevalentemente, quella riferita alla tecnologia, ovvero come dare forza e protezione ai diritti di libertà dell’individuo in un contesto sociale profondamente mutato dall’innovazione tecnologica e i suoi derivati in punto di diritto[11]. Si è parlato altresì di un «nuovo costituzionalismo, che porta in primo piano la materialità delle situazioni e dei bisogni, che individua nuove forme dei legami tra le persone e le proietta su una scala diversa da quelle che finora abbiamo conosciuto»[12]. Sebbene costituzionalismo non sia sinonimo di costituzione, perché quest’ultime possono essere, come ce ne sono, antitetiche ai principi del costituzionalismo, bisogna comunque porsi un problema, che lo si può riassumere con la seguente domanda: da un punto di vista del diritto costituzionale, le tecnologie determinano nuove forme di diritti di libertà oppure possono essere incardinate e quindi riconosciute nell’alveo delle tradizionali libertà costituzionali? Ovvero, è necessario ri-scrivere nuove norme costituzionali per definire le libertà che si sono venute a determinare a seguito dell’avvento della tecnologia, oppure si possono interpretare le vigenti norme costituzionali ricavandone da esse le nuove figure giuridiche dei nuovi diritti di libertà?

Non credo che sia da ritenersi ancora del tutto superato l’esercizio ermeneutico di volere applicare le libertà costituzionali statali ai fenomeni della tecnologia informatica[13], anche al fine di evitare il rischio di finire in una sorta di constitution-free zone. Quindi, mantiene ancora oggi una sua validità rileggere la libertà di informazione, come diritto a essere informati oltreché a informare, la libertà di comunicazione, la libertà di associazione, la libertà di riunione, la libertà di iniziativa economica privata, e le libertà politiche, alla luce degli sviluppi della tecnologia, al fine così di individuare le forme di tutela delle nuove situazioni giuridiche soggettive. Vi è stata, altresì, l’epifania di una nuova forma di libertà, che è stata concettualizzata in dottrina, fin dagli anni Ottanta, e che si è venuta a determinare con l’avvento della società tecnologica. Si tratta della dottrina della c.d. “libertà informatica”, che soprattutto con internet è diventata una pretesa di libertà in senso attivo, non libertà da ma libertà di, che è quella di valersi degli strumenti informatici per fornire e ottenere informazioni di ogni genere[14]. Ci troviamo di fronte, indubbiamente, a una nuova forma di libertà, che è quella di comunicare con chi si vuole, diffondendo le proprie opinioni, i propri pensieri e i propri materiali, e la libertà di ricevere. Libertà di comunicare, quindi, come libertà di trasmettere e di ricevere. Non è più soltanto l’esercizio della libera manifestazione del pensiero dell’individuo, ma piuttosto la facoltà di questi di costituire un rapporto, di trasmettere e richiedere informazioni, di poter disporre senza limitazioni del nuovo potere di conoscenza conferito dalla telematica. Si viene così a dare piena attuazione all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu, che così ha chiaramente precisato il diritto di libertà di manifestazione del pensiero: «cercare, ricevere, diffondere con qualunque mezzo di espressione, senza considerazione di frontiere, le informazioni e le idee». Formulazione perfetta, anche e soprattutto nell’era di Internet.

Allora, la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero consiste oggi in quello che prevede e prescrive l’articolo 19 prima citato, anche quando l’informazione che viaggia on line su internet può agitare i governi nazionali, disturbare le relazioni diplomatiche fra Stati e, specialmente, svelare gli arcana imperii. Potrà non piacere, e soprattutto si potrà ridimensionare la portata e l’effetto e negarne la validità giuridica, ma resta il fatto che anche attraverso questa opera di «cercare, ricevere, diffondere» si viene a mettere al centro il diritto di sapere e la libertà di informare, che rappresenta altresì un nuovo modo di essere della separazione dei poteri, in una rinnovata concezione del costituzionalismo[15]. Una volta erano i governanti che controllavano i cittadini attraverso il controllo dell’informazione; ora è diventato più difficile controllare quello che il cittadino “legge-vede-sente”, “cerca-riceve-diffonde”. Internet, allora, sta generando, come è stato scritto, «una coscienza costituzionalistica globale, animata dai media internazionali e dai social networks quali strutture critiche di una sfera pubblica sovranazionale, con effetti di “apertura” su contesti sociali bloccati e persino di catalizzazioni di rivoluzioni culturali e politiche»[16].

Quali sono i (nuovi) diritti da prendere sul serio nel costituzionalismo della società tecnologica? Qui di seguito mi provo a fare un’elencazione con sintetiche riflessioni, in punto di attuazione e tutela. Non si vuole così fare l’apologia del costituzionalismo tecnologico ma piuttosto ripensare e rielaborare le categorie del costituzionalismo, per mettere “vino nuovo in otri nuovi”. Declinare il costituzionalismo alla luce dei cambiamenti prodotti dell’erompere della tecnologia nelle nostre vite e nelle nostre comunità, in quella che è stata definita «la nuova civiltà digitale»[17].

3. I nuovi diritti costituzionali nell’era di Internet. Il diritto di accesso

Le traiettorie del costituzionalismo tecnologico sono già emerse, diversi anni fa, in un paio di pronunce giurisprudenziali: in particolare, della Corte Suprema Usa prima e del Conseil Constitutionnel francese poi[18], che hanno riconosciuto e affermato il diritto di accesso a internet, da declinare quale libertà di espressione. È significativo che proprio nei due Paesi dove è sorto il costituzionalismo, seppure inizialmente muovendosi su due opposti sentieri, si registra un nuovo metodo interpretativo di ri-leggere e applicare due antiche norme – il I Emendamento della Costituzione Usa (1787) e l’articolo 11 della Dichiarazione del 1789 – pensate, scritte e approvate più di due secoli fa per affermare e tutelare la libertà di informazione: quella di ieri, di oggi e di domani, è davvero il caso di dire. Infatti, da queste norme, da quei chiari e limpidi orizzonti del costituzionalismo, che si aprivano alla modernità, oggi si cerca e si trova il nucleo fondante costituzionale per riconoscere e garantire le nuove forme espressive di comunicazione elettronica, con particolare riguardo a internet. Si sta formando, grazie a un’accorta opera d’interpretazione costituzionale, un diritto costituzionale di accesso a internet: perché nel contesto di una diffusione generalizzata di internet, la libertà di comunicazione e di espressione presuppone necessariamente la libertà di accedere a tali servizi di comunicazione on line. Ed è compito degli Stati rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto l’esercizio di questo servizio universale a tutti i cittadini, che invece deve essere garantito attraverso investimenti statali, politiche sociali ed educative, scelte di spesa pubblica. Quindi, il diritto di accesso a internet, da intendersi come libertà informatica, è da considerarsi una pretesa soggettiva a prestazioni pubbliche[19]. Infatti: sempre di più l’accesso alla rete internet, e lo svolgimento su di essa di attività, costituisce il modo con il quale il soggetto si relaziona con i pubblici poteri, e quindi esercita i suoi diritti di cittadinanza. Anche perché, «lo sviluppo di Internet e la crescita dell’esigenza della trasparenza [amministrativa] rappresentano, nelle società occidentali, due fenomeni concomitanti»[20].

Il diritto di accesso è strumentale all’esercizio di altri diritti e libertà costituzionali: non solo la libertà di manifestazione del pensiero, ma anche il diritto al pieno sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, o piuttosto la libertà di impresa. Oggi, nella società dell’informazione o, se si preferisce, nell’era dell’accesso[21], non avere la possibilità di accedere a internet significa vedersi precluso l’esercizio della più parte dei diritti di cittadinanza, soprattutto nei rapporti con la pubblica amministrazione. Il diritto di accesso si declina sotto due diversi ma collegati profili: a) diritto di accesso al contenuto, e quindi come strumento necessario per la realizzazione della libertà di manifestazione del pensiero. Se questa libertà diciamo on line è esercitabile se e in quanto si accede alla Rete, l’accesso non è solo strumento indispensabile ma diventa momento indefettibile dell’esercizio della libertà, senza il quale essa verrebbe snaturata, cancellata; b) il secondo profilo, invece, si riferisce al diritto di accesso a Internet quale diritto sociale, o meglio una pretesa soggettiva a prestazioni pubbliche, al pari dell’istruzione, della sanità e della previdenza[22]. Ancora: il diritto di accesso, come è stato sostenuto, «si presenta ormai come sintesi tra una situazione strumentale e l’indicazione di una serie tendenzialmente aperta di poteri che la persona può esercitare in rete»[23]. Quindi, non tanto e non solo come diritto a essere tecnicamente connessi alla rete internet piuttosto come diverso modo d’essere della persona nel mondo e come effetto di una nuova e diversa distribuzione del potere sociale.

4. Segue: il diritto alla libertà di espressione

Come è cambiato il senso e il significato della libertà di manifestazione del pensiero nell’era di internet? In maniera assai significativa, anche perché ha consentito il recupero della nozione di manifestazione del pensiero come libertà individuale, cioè senza “filtri”, ovvero senza mediazioni di sorta, davvero un open network. Infatti: basta creare un sito internet, ovvero entrare in un sito: senza vincoli amministrativi e con una diffusione planetaria, accessibile a tutti (a condizione di avere un computer o un tablet e una connessione), immediato nella esecuzione, in grado di racchiudere in sé audio, scritto e video, con uno spazio illimitato di memoria e con il pieno e vario utilizzo di strumenti automatici di reperimento di quel che si cerca. Quindi, con internet, chiunque può rendere pubbliche idee e opinioni attraverso la creazione e la gestione di un proprio server, ovvero attraverso l’apertura di un proprio sito web. In tal modo, ognuno può essere stampatore, direttore e editore di sé stesso, diffondendo notizie in rete senza appartenere ad alcun ordine professionale. Tutto un agire individuale, insomma; un uso concreto ed effettivo da parte di milioni di persone. Quindi, per dirla con la giurisprudenza statunitense: «[internet], la forma di comunicazione di massa più partecipativa che sia stata finora realizzata». Anche perché – grazie a internet – oggi tutti possono essere al tempo stesso comunicatori e diffusori. E questo lo sarà sempre più a partire dalla prossima generazione, che sta crescendosi e formandosi alimentata da Facebook, Twitter, You Tube, web communities, sms, skype, blogs e continue evoluzioni. Questo determinerà una concezione assolutamente nuova e diversa dell’identità, che si articolerà in forma mutevole a seconda dei luoghi, dei contesti, degli interlocutori e delle scelte identitarie che si compiono. L’identità digitale, quindi, si articola sulla base di un flusso continuo di informazioni, che vanno nelle più diverse direzioni e che sono affidate a una molteplicità di soggetti, che costruisce, modifica e fa circolare immagini di identità altrui, o addirittura genera una seconda vita sulla rete, una Second Life virtuale[24]. Insomma, una situazione di sicuro progresso in termini di libertà individuale ma anche di iniziativa economica privata. È stato argutamente detto, che «solo chi è rimasto alla preistoria del diritto e si aggira ancora armato di clava cercando di inventare la ruota, non si rende conto del passaggio epocale che si è verificato nelle società evolute in questi anni: la possibilità di accedere sempre, dovunque a tutta la conoscenza racchiusa in testi digitali; la possibilità di comunicare sempre dovunque e a costi minimi con tutti; la possibilità di diffondere sempre e dovunque a tutto il mondo il proprio pensiero. E solo i cavernicoli non si accorgono del circuito inarrestabile fra accesso alle fonti di conoscenza, creazione di forme di scambio di esperienze, diffusione di nuove idee, e creazione di nuova conoscenza»[25]. Certo, non è mera apologia della libertà di espressione in internet; si è ben consapevoli anche degli effetti distorsivi che può produrre l’informazione tramite i social media, i quali «possono anche essere uno strumento a favore della democrazia, ma il fatto che siano nelle mani di un numero troppo ristretto di soggetti fa sì che questi, per la loro posizione siano portati a dominare “how public opinion is organized and governed”»[26]. Questo problema evoca il tema della posizione dominante e dipendenza economica delle aziende dell’internet, c.d. “baroni del digitale” e definiti con l’acronimo (GAFAM: Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft), e riconduce al tema del diritto costituzionale della concorrenza[27] e alla sua corretta applicazione nel mercato delle piattaforme digitali. Di sicuro interesse è, tra l’altro, il caso di Google e la sua capacità di raccogliere e utilizzare i dati dei suoi utenti per il tramite dei numerosi servizi che essa stessa, quale piattaforma digitale, mette a disposizione: dalla posta elettronica alle mappe online, dal suo motore di ricerca sul web alla gestione dei pagamenti online e molto altro ancora. Sviluppando ed esercitando, in tal modo, quella che è stata definita una «sovranità.com»[28].

5. Segue: il diritto alla privacy

Un altro diritto da prendere sul serio, nel costituzionalismo della società tecnologica, è quello della privacy. Un diritto che nasce come una nuova esigenza di libertà personale, laddove si invocava «il diritto di godere della vita, ovvero il diritto di starsene soli (right to be let alone)»[29]: un diritto individuale di libertà da esercitare e tutelare specialmente nei confronti delle intrusioni, allora, della stampa nel riportare in pubblico fatti o elementi strettamente personali, la cui conoscenza avrebbe comportato disdoro e imbarazzo nella persona interessata. Non si chiedeva però di esaltare la difesa della solitudine fisica, ma piuttosto di ricondurre la privacy alla tutela dei valori di autonomia e dignità dell’individuo, che comprendono anche la protezione della sua cerchia familiare e persino di quella societaria, in cui egli ha scelto di collocarsi.

La concezione della privacy si è evoluta nel tempo, non più e non tanto come “diritto a essere lasciati soli”, e quindi una forma passiva di tutela, ma piuttosto anche come “diritto a disporre dei propri dati”, assumendo pertanto una forma attiva di partecipazione informativa[30]. Infatti, e soprattutto con l’avvento dei computer prima e di internet dopo, la problematica riguarda non tanto il controllo delle informazioni individuali in difesa di un diritto del soggetto alla riservatezza, quanto piuttosto il metodo adottato per la raccolta dei dati, ossia la possibilità di raccogliere le informazioni in una “banca dati” elettronica. Da qui, la nuova esigenza di tutelare la riservatezza dei dati personali, ovvero di impedire che notizie riguardanti la sfera intima della persona possano essere divulgate e conosciute da terzi, con il rischio che questo possa procurare forme di discriminazione. Si pensi ai dati sanitari o sessuali, e quindi alla possibilità che la conoscenza di questi possa consentire un trattamento discriminatorio nei confronti di chi è affetto da una certa malattia oppure le cui scelte sessuali sono diversificate. Certo, bisogna rivedere il concetto e la concezione stessa di privacy, che va tutelata davvero e solo quando serve. Alcuni nostri dati sono per loro natura pubblici, anche perché siamo noi stessi che li immettiamo sulla rete, e allora occorre concentrare il controllo e la tutela solo su quelli veramente rilevanti, cioè sensibilissimi.

Il diritto alla privacy oggi ha una sua particolare conformazione e codificazione a livello europeo (Regolamento (UE) 2016/679: General Data Protection Regulation), proprio con riferimento alle esigenze di tutela che possono prodursi attraverso la rete internet. Mi provo a fare degli esempi su provider o motori di ricerca a tutti noti: Amazon monitora le nostre preferenze d’acquisto; Google registra le nostre abitudini in rete; Facebook conosce le nostre relazioni sociali e ciò che like; gli operatori di telefonia mobile sanno non solo con chi parliamo, ma anche chi si trova nelle vicinanze. Lasciamo impronte elettroniche ovunque: da queste, infatti, si può risalire per sapere cosa abbiamo acquistato, in quale località siamo stati, dove e cosa abbiamo mangiato e così via.

Sul diritto alla privacy, quindi, c’è un prima e un dopo. Il confine è segnato dall’avvento di internet, databile a partire dal secolo Ventunesimo[31]. Perché un conto sono i dati personali raccolti e custoditi in apposite banche dati, di cui però c’è, almeno formalmente, un responsabile della gestione delle stesse, sebbene il problema sia quello del flusso dei dati da una banca all’altra, un conto è internet e la sua capacità di diffondere, subito e in tutto il mondo, dati che si riferiscono a una singola persona ovvero a imprese pubbliche e private. È chiaro che internet consente un flusso sterminato di dati il cui controllo appare difficile regolare. La questione oggi è resa più complessa con i c.d. big data[32]: si tratta dell’accumulo enorme di dati, tale da inondare il mondo di informazioni come mai prima d’ora, con una continua e irrefrenabile crescita. Il cambiamento di dimensione ha prodotto un cambiamento di stato. Il cambiamento quantitativo ha prodotto un cambiamento qualitativo. Pertanto, si tratta delle cose che si possono fare solo su larga scala, per estrapolare nuove indicazioni o creare nuove forme di valore, con modalità che vengono a modificare i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e governi, e altro ancora. Si viene a materializzare un percorso digitale che le grandi (e poche) aziende di internet, possono analizzare per capire le preferenze degli utenti ed elaborare un’identità digitale da utilizzare a scopi commerciali o politici.

È nota la vicenda che ha coinvolto Facebook per avere ceduto a una società di ricerche, Cambridge Analytica, i dati dei suoi utenti per consentire un trattamento finalizzato a individuare categorie di elettori. Questo dipenderebbe dai like che mettiamo sui social, come per esempio Facebook o Twitter. Perché ogni like che lasciamo sui social sarebbe un tassello in una sorta di auto-schedatura volontaria di massa, che finirebbe con offrire opportunità e poteri a chi vuole orientare le opinioni. Studi condotti da psicologi, peraltro, sostengono che bastano sessantotto like di un utente Facebook per individuare il colore della sua pelle (con precisione pari al 95%), l’orientamento sessuale (88%) e quello politico (85%). Quindi, le opinioni politiche sono conosciute da Facebook; quindi, il voto potrebbe non essere più segreto, libero e personale. È chiaro che questo aspetto va a colpire un diritto costituzionale quale quello del diritto di voto. E va altresì a colpire la riservatezza del cittadino laddove si individua la sua scelta politica, che è un dato sensibile che dovrebbe essere tutelato al massimo livello[33]. È una nuova forma di potere, quello dei provider di assecondare i gusti di ciascuno sulla base di ciò che sanno di noi.

Ancora, e sempre in tema di diritto alla privacy e internet. Si pensi ai recenti scandali internazionali, che sono stati sollevati con riferimento alla capacità di uno Stato di gestire i dati personali di migliaia di persone influenti, che appartengono e rappresentano le istituzioni europee. Ovvero l’indisponibilità personale dei dati che viaggiano sul cloud computing, laddove tutto il nostro patrimonio informativo finisce per essere sottratto alla nostra indisponibilità e per risiedere in server posti al di fuori del nostro controllo diretto, e quindi potenzialmente esposti a violare la nostra privacy. Il problema, peraltro, riguarda non solo dati personali, ma soprattutto grandi banche dati di operatori telefonici, imprese, istituti di credito e di risparmio, che hanno un indubbio valore strategico.

6. Segue: il diritto all’oblio

Il costituzionalismo nella società tecnologica deve altresì confrontarsi con un’altra situazione giuridica che si manifesta in internet: quella del diritto all’oblio (right to be forgotten). Da intendersi quale reviviscenza del vecchio diritto a essere lasciati soli (right to be alone), ovvero come «pretesa a riappropriarsi della propria storia personale»[34], e quindi una sorta di diritto all’autodeterminazione informativa, altrimenti come mezzo per ricostruire la dimensione sociale dell’individuo, evitando che la vita passata possa costituire un ostacolo per la vita presente[35]. Per salvaguardare il diritto del soggetto al riconoscimento e godimento della propria attuale identità personale o morale, attraverso il diritto di vietare un travisamento dell’immagine sociale di un soggetto, ovvero della propria personalità individuale, per evitare che si venga a diffondere “false light in the public eye”. Quindi, un diritto a governare la propria memoria.

Diritto all’oblio e diritto alla privacy possono ben rappresentare due facce di una stessa medaglia, che affondano nella dignità della persona la loro rilevanza costituzionale. Il diritto all’oblio, generato dalla giurisprudenza e consolidato dalla legislazione, ha dovuto fare i conti con internet, la “rete delle reti”, dove tutto ciò che è stato inserito nel web rimane come una memoria illimitata e senza tempo, ovvero un deposito di dati di dimensioni globali.

Certo, la notizia apparsa sul web non dura, al pari delle notizie sulla carta stampata, come la rosa del poeta Pierre de Ronsard, l’espace d’un matin, ma piuttosto assume forma durevole e incancellabile; chiunque la può leggere e rileggere, ovunque si trova nel mondo, e può utilizzarla come fonte di informazione. Ma la notizia non è un dato astratto alla mercé di tutti, perché riguarda la persona e la sua immagine in un dato momento storico; i dati personali, vale la pena ricordarlo, costituiscono una parte della espressione della personalità dell’individuo. Come ancora di recente, ha sostenuto la Corte di giustizia UE nella decisione c.d. Google Spain (2014) e poi ha ribadito e confermato nella sentenza sul caso Safe Harbour, o altrimenti c.d. Schrems (2015) [36]. Certo, si tratta di pronunce giurisdizionali che non si limitano solo ad affermare il diritto all’oblio ma anche, fra le altre questioni, il diritto alla privacy da applicare secondo il diritto europeo, anche nei confronti del mercato transnazionale dei dati, specie con gli Usa. Va senz’altro ricordata, inoltre, la pronuncia della Corte di Giustizia UE (causa C-507/17), sempre in materia di diritto all’oblio e nota come Google vs. CNIL (Commission nationale de l’informatique et des libertés), dove si può riscontrare una sorta di passo indietro nella tutela del diritto all’oblio e un passo in avanti per il motore di ricerca Google. Viene, infatti, a essere delimitato territorialmente il diritto all’oblio, circoscrivendo l’obbligo di deindicizzazione alle sole versioni del motore di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri dell’Unione europea, senza che la deindicizzazione avvenga in tutte le versioni del motore di ricerca a livello globale[37]. Ultima, per adesso, è la sentenza sempre della CGUE (causa C-18/18) riguardante Facebook, relativa alla pubblicazione su una pagina personale di foto e commenti ritenuti lesivi del diritto della personalità, che merita di essere qui quantomeno segnalata, anche perché presenta significativi rilievi in punto di riservatezza e diritto all’oblio[38].

Un cenno, infine, alla codificazione del diritto all’oblio nel Regolamento (UE) 2016/679 (General Data Protection Regulation: GDPR). All’art. 17 è prevista la possibilità di richiedere la cancellazione dei dati esercitando così il diritto all’oblio: nei casi in cui i dati personali non siano più necessari rispetto alla finalità per cui erano stati originariamente trattati, ovvero nel caso in cui siano stati trattati illecitamente, oppure quando l’interessato abbia revocato il consenso o si sia opposto al loro trattamento. Vi è anche l’ipotesi in cui la cancellazione costituisca un obbligo giuridico che proviene dal diritto UE ovvero degli Stati membri. Sono previsti casi in cui il titolare del trattamento può opporre rifiuto alla cancellazione, come nel caso del rispetto all’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione[39]. Certo, la regolamentazione europea è una significativa affermazione del diritto all’oblio, che da creazione giurisprudenziale transita alla codificazione normativa: quasi una sorta di passaggio dal common law al civil law.

Una breve riflessione conclusiva sul diritto all’oblio, al di là delle oscillanti decisioni giurisprudenziali e della normazione ancora da “rodare” in punto di effettività. Deve essere consentito alla persona, a tutela della sua identità, di esercitare il proprio diritto di libertà informatica, che consiste nel potere disporre dei propri dati, ovvero delle notizie che lo riguardano, e quindi chiedere per ottenere sia il diritto all’oblio su ciò che non è più parte della sua identità personale, sia il diritto alla contestualizzazione del dato, e quindi della notizia, perché una verità non aggiornata non è una verità. Allora, è tra i principi fondamentali che va cercato il punto archimedico del diritto all’oblio e i suoi derivati: in particolare, nella formula costituzionale non negoziabile della dignità dell’uomo, codificata e resa intangibile nelle costituzioni di democrazia liberale (nella Legge Fondamentale tedesca all’art. 1). È il principio fondamentale della dignità, infatti, che costituisce il fondamento costituzionale di tutti i diritti strettamente connessi allo sviluppo della persona: le particolari declinazioni della personalità umana, seppure siano autonomamente giustiziabili, sono riconducibili alla più generale espressione di dignità umana. Non vi può essere tutela dell’identità personale senza tutela della dignità, che si traduce nel diritto del singolo a vedere, comunque, rispettata la propria reputazione, il proprio buon nome, a non essere discriminato a causa dei propri orientamenti e dei propri stili di vita. È nella privacy-dignity che acquista rilievo il rispetto dell’identità di ogni persona, che non può e non deve essere trattata come se fosse un oggetto. La tutela della dignità dell’uomo passa (anche) attraverso il diritto all’oblio, ovvero il diritto a cancellare, ovvero a contestualizzare, i dati personali per vietare, come già detto, un travisamento dell’immagine sociale di un soggetto, per evitare che la vita passata possa costituire un ostacolo per la vita presente e possa ledere la propria dignità umana[40].

7. Il diritto nell’intelligenza artificiale

Le nuove frontiere del diritto e dei diritti oggi sono rappresentate dalle potenzialità della intelligenza artificiale (IA), ovvero dalla enorme capacità di raccogliere, sistematizzare ed elaborare dati per produrre algoritmi in grado di trovare soluzioni “intelligenti” per risolvere problemi, oppure per assumere decisioni autonomamente e imparzialmente[41]. Dati che riguardano persone, ma anche beni, servizi, merci, capacità produttive, che possono essere scambiati, creando così un vero e proprio mercato dei dati[42]. E possono essere soprattutto elaborati, in tal modo finiscono con il creare situazioni ambientali, apprendere elementi conoscitivi e risolvere soluzioni a problemi, in maniera velocissima, che le capacità intellettive umane non riuscirebbero a fare altrettanto.

La IA impatta su tutte le scienze del sapere umano declinandole artificialmente. Anche il diritto, che dovrà sempre più rimodularsi nei suoi paradigmi, tenendo conto dell’uso degli algoritmi per concorrere a migliorare le pronunce giurisdizionali ovvero per elaborare neutrali atti amministrativi, per citare solo alcuni esempi[43]. Certo, il diritto già da tempo è entrato nella società tecnologica – ovvero cibernetica, come veniva chiamata e come ora viene opportunamente riproposta[44] – con tutti i suoi temi e problemi derivanti dall’applicazione delle tecniche giuridiche, sostanziali e processuali, nel vasto mondo della tecnologia e suoi derivati, in particolare la rete Internet. Pertanto, si potrebbe riformulare l’antico brocardo latino con ubi societas technologica, ibi ius. Emergono, infatti, dalla coscienza sociale, e a seguito dello sviluppo tecnologico, dei “nuovi diritti”, i quali, sebbene non godano di un loro esplicito riconoscimento normativo, hanno un forte e chiaro “tono costituzionale”, che li collocano, implicitamente, all’interno della costituzione, riservando all’interprete il compito di estrapolarli da essa, anche attraverso quella che ho chiamato una “interpretazione tecnologicamente orientata”[45]. Purtuttavia bisogna essere consapevoli dei rischi di presunti vizi di incostituzionalità delle leggi, che prevedono e prescrivono l’uso della IA, eventualmente riferibili alla c.d. “discriminazione algoritmica”. La quale determinerebbe un algoritmo strutturalmente incostituzionale, uno scenario cioè paragonabile alla fallacia naturalistica di Hume, con riferimento al giusnaturalismo: l’errore di derivare dall’essere (della realtà sociale, spesso ingiusta o distorta) il dover essere[46]. Come è stato scritto, «la vera frontiera è la sua sindacabilità. Dunque, all’algoritmo deve essere possibile fare accesso, deve essere conoscibile, deve essere sindacabile per controllare sulla base di quali dati, di quali informazioni, di quale presentazione del problema è stato avviato il suo funzionamento»[47]. Da qui, allora, l’esigenza di elaborare una dottrina della “precauzione costituzionale”, ispirata alle situazioni ambientali e così delineata: «la condizione di incertezza a riguardo dei possibili effetti negativi dell’impiego della tecnologia (inclusa l’intelligenza artificiale) non può essere utilizzata come una ragione legittima per non regolare e limitare tale sviluppo»[48]. Pertanto, la protezione dei beni costituzionali deve essere anticipata rispetto alla produzione stessa delle applicazioni tecnologiche. Il parametro per giudicare i fenomeni della IA è la costituzione, e più in generale il costituzionalismo, specie nella parte in cui prevede e tutela la pari dignità della persona umana (art. 3 Cost. it., art. 1 Carta dei diritti UE)[49].

Tutto vero, tutto giusto. Si avverte però l’impressione, che la preoccupazione dei rischi di una possibile incostituzionalità dell’algoritmo siano derivati dal volere leggere i problemi con gli occhiali del giurista domestico. La questione non è nazionale ma mondiale, anche perché la IA è già operativa in diversi Paesi dove è radicato il costituzionalismo e dove la dignità umana gode di sicura tutela. Quindi, il problema laddove emergesse verrebbe risolto attraverso le consolidate procedure di garanzie costituzionali diffuse negli stati di democrazia liberale, che funzionano da anticorpi per qualunque violazione costituzionale, soprattutto di leggi liberticide figuriamoci di leggi che non esplicitano la conoscibilità e quindi il corretto funzionamento degli algoritmi. E comunque, anche a volere osservare la questione nella dimensione nazionale, si possono ricordare le note pronunce del Consiglio di Stato (sent. n. 2270 del 2019 e nn. 8472, 8473, 8474 del 2019), che hanno giustamente messo in rilievo come l’algoritmo è una regola costruita dall’uomo per disciplinare le operazioni di calcolo effettuate dal software, che sarà comunque soggetto a valutazione da parte del giudice per verificarne la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti[50].

Si è già iniziato a parlare di “algocrazia”, ovvero di “dittatura dell’algoritmo”[51]. Posso comprendere il tono accattivante e provocatorio di queste definizioni ma mi sembrano esagerate, ovvero poco rispondenti alla realtà. E comunque, l’algoritmo, se lo si teme, lo si può circoscrivere nel suo uso, purchè non lo si comprima e lo si sterilizzi. Peraltro, lo si può normare anche con leggi statali, come è stato fatto, per esempio, in Francia e, a livello statale, negli Usa[52]. E come si accinge a fare la UE, seppure in un contesto normativo che suscita però dubbi e perplessità applicative, come dirò più avanti. Sulla questione, vale qui ricordare l’art. 22, par. 1, del GDPR, che recita: «L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona» (salvo prevedere delle deroghe: per la stipula di un contratto o sul consenso esplicito dell’interessato). Mi sembra che si tratti di una norma che funga da freno a possibili invasioni e predominanze dell’algoritmo sulle scelte che deve compiere l’umo.

Dell’algoritmo, e più in generale della IA, bisogna cercare di avvalersi dei benefici, minimizzando i rischi e le criticità che indubbiamente ci sono: non bisogna però dimenticare che i sistemi di IA saranno il volano dello sviluppo mondiale di questo secolo, economico e scientifico. Allora, come è stato scritto in maniera condivisibile: «la AI revolution ha bisogno di essere accompagnata e “corretta” da un pensiero costituzionale, deve produrre una risposta in termini di concettualizzazione dei diritti e principi, allo stesso modo di come la rivoluzione industriale ha prodotto la evoluzione welfarista degli Stati liberali nel XIX secolo e il costituzionalismo sociale del XX secolo»[53]. Voglio aggiungere una cosa, che mi limito solo ad accennare: il favor per la IA e le sue benefiche applicazioni a vantaggio dell’umanità, esprime, oggi, una rinnovata concezione del liberalismo, dove, cioè, si pone come prioritaria la libertà per il progresso e verso nuove forme di sviluppo dell’individuo e del benessere delle società. La posizione di chi auspica e pretende forme regolative della IA, in forma pervasiva e dettagliata, è, oggi, riconducibile a nuove forme di statalismo, che si manifestano nella volontà di fondare e stabilire una nuova sovranità degli stati sulle piattaforme digitali.

8. Democrazia e società digitale

Il complesso e complicato rapporto fra internet, ovvero ciò che si manifesta attraverso la Rete e in particolare i c.d. social, e la democrazia, ovvero il modo e il metodo con il quale si organizza la società contemporanea, è ormai il tema che suscita larga attenzione e riflessione da parte degli studiosi delle scienze sociali. Divisi tra coloro che sostengono come e perché internet può rafforzare la democrazia e gli oppositori, che vedono in internet una minaccia per la tenuta democratica degli Stati[54]. Altrimenti, c’è stato chi, addirittura, ha imputato a internet la responsabilità di avere destabilizzato il sistema rappresentativo e avere favorito l’avvento del populismo (digitale)[55]. Piaccia oppure no, siamo in presenza di una nuova forma di democrazia, che ha già ricevuto diverse denominazioni: democrazia “elettronica” (ma questo termine definisce lo strumento e non l’agente); “virtuale” (ma in tal modo l’indicazione politica ne risulta indebolita); “continua” (per il suo carattere di referendum perenne); ovvero ancora “nuova democrazia di massa” (con riferimento all’antica democrazia diretta)[56] . La questione di fondo può essere così formulata: l’impatto politico delle tecnologie informatiche su quei fragili sistemi complessi che sono le democrazie contemporanee favorirebbe la costruzione di una agorà o di un totalitarismo elettronici? La dialettica dei giudizi sulla nuova forma di democrazia è però fondata su un presupposto comune di discussione: il superamento, o piuttosto l’aggiornamento dell’attuale democrazia di tipo rappresentativo-parlamentare[57].

Personalmente, ritengo che con Internet possa cogliersi un’opportunità per migliorare le forme della democrazia, specialmente in termini di partecipazione politica[58]. Certo, non credo però che questo approccio debba passare attraverso modi di esaltazione acritici e pertanto ignorare alcuni dubbi applicativi di Internet su alcune procedure di funzionamento della democrazia. Sul punto, si può ricorrere a corsi e ricorsi storici. Ieri era il video potere, che rischiava di minare le fondamenta della democrazia, secondo un’opinione che all’epoca si era diffusa, oggi le stesse critiche e riserve vengono rivolte al c.d. internet power. Credo, infatti, che anche il timore di una possibile “dittatura del web” sia eccessiva, e che si riduca, come nel caso della televisione, in una paura poco fondata. E che semmai la politica, o più in generale le forme applicative delle procedure democratiche, potrebbe invece uscirne rafforzata, rinvigorita, rilanciata.

La rivoluzione tecnologica ha operato incisivamente sull’organizzazione politica della società occidentale, e ancora di più lo farà negli anni a venire. Ha creato le condizioni perché si venisse a formare una nuova democrazia di massa, come è stata chiaramente definita[59], distinta e distante dai regimi di massa della prima metà del Novecento, in cui l’individuo singolo rimaneva in una soggezione psicologica recettiva e passiva con un totale obnubilamento delle libertà personali. Quelle stesse libertà che invece si esaltano e valorizzano nella nuova democrazia di massa. Che «non è tuttavia una destinazione fatale e irreversibile della società odierna. Essa è soltanto una direttiva di marcia dell’umanità, segnata dall’impronta della civiltà tecnologica che le imprime il procedimento. […] In essa si realizza con apparente paradosso una nuova forma di libertà individuale, un accrescimento della socialità umana che si è allargata sull’ampio orizzonte del nuovo circuito delle informazioni, un potenziamento, dunque, dell’energia intellettuale e operativa del singolo vivente nella comunità»[60].

Per il tramite della tecnologia mutano sempre più gli assetti istituzionali conosciuti e come il processo democratico venga a essere profondamente influenzato dal modo in cui circolano le informazioni, laddove cioè la disponibilità di queste da parte di tutti i cittadini appare come un prerequisito di quel processo. È questo il punto, credo: la libera circolazione delle informazioni può produrre la formazione di una coscienza civile e politica più avvertita con un richiamo non più episodico agli interessi e alla capacità di giudizio del singolo cittadino, il quale sarebbe piuttosto reso partecipe di un circuito comunitario di informazione e di responsabilità. La democrazia, e la sua forma, si prospetta in una forma diversa da quella che era nei secoli precedenti: mutano i significati di rappresentanza e di sovranità, avanza una nuova democrazia di massa, che rompe le cerchie chiuse delle élites al potere, obbligando per così dire i rappresentanti della volontà popolare a scendere sulla piazza telematica e a confrontarsi direttamente con i rappresentanti, nelle nuove forme assunte dalla tecnopolitica[61]. Per avviare così un processo di “orizzontalizzazione della politica”, e quindi non una mera subordinazione a decisioni imposte dall’alto, per così dire, ma piuttosto un modo per concorrere – orizzontalmente, per l’appunto – alle scelte nell’interesse della nazione e del bene comune (common good), quale principio della libertà.

Oggi, sebbene con qualche incertezza, stiamo assistendo alle trasformazioni della c.d. democrazia elettorale – quella fondata sul meccanismo del voto – in seguito allo sviluppo tecnologico delle società contemporanee. Per adesso, le trasformazioni riguardano essenzialmente le tecniche di votazione, ovvero sul come si vota. La scheda elettorale cartacea sulla quale si appone, con matita copiativa, la propria scelta politica è prossima a essere messa da parte. È già in fase di utilizzazione in diverse parti del mondo[62], il cosiddetto voto elettronico, che prevede l’effettuazione del voto per il tramite dei computers. Anziché porre un segno con la matita sulla scheda elettorale, si potrà pigiare il tasto di una tastiera del computer, nel cui video verrebbe riprodotta la scheda elettorale elettronica, ed esprimere così il proprio voto e la propria preferenza politica. Questa tecnica di votazione – che si presenta semplice da realizzarsi nel caso del voto per i referendum, dovendo scegliere solo tra un “sì” o un “no” – consentirebbe di avere i risultati elettorali in brevissimo tempo una volta chiuse le votazioni, e di evitare defatiganti calcoli e scrutini, peraltro, sempre soggetti al rischio di brogli elettorali. La votazione online potrebbe altresì essere utilizzata, con semplificazione e razionalizzazione, per le primarie con le quali si selezionano i candidati alle cariche elettive. Anziché sparpagliati banchetti in giro per il territorio per la raccolta di voti, con rischi sempre più diffusi di brogli e pasticci di computo finale, basterebbe un’organizzazione sul web, dove chiamare a raccolta online coloro i quali volessero esprimere la loro preferenza per le candidature.

Ma gli scenari futuri della democrazia elettorale non si arrestano al voto elettronico. Infatti, si potrebbe inoltre prevedere il voto attraverso il proprio home computer, oppure addirittura attraverso il televisore con l’ausilio del telecomando. Certo, questa tecnica di votazione “casalinga” se da un lato potrebbe ridurre l’astensionismo (oltre alle spese elettorali), dall’altro lato però imporrebbe la fissazione di tutta una serie di garanzie (anche di carattere tecnico) per la salvaguardia della libertà di voto. Che anche – e forse soprattutto – nell’epoca della politica “tecnologizzata” e “globalizzata” rimane sempre un valore costituzionale da custodire gelosamente[63]. Ma di fronte al futuro dobbiamo mostrarci ottimisti e concorrere a un rinnovato progresso della civiltà. Allora, ben venga la nuova democrazia tecnologica del XXI secolo, che si fonda sulla libera iniziativa individuale, sulla responsabilità del cittadino come persona, sulla sua facoltà di scelta e di decisione. Il voto individuale viene a essere protetto e potenziato nella sua collocazione telematica, che elimina le manipolazioni, gli errori e i brogli dei sistemi cartacei, che consente una possibilità di scelta con il voto disgiunto, o alternativo, o di riserva, che può essere controllato e calcolato con l’ausilio del computer. È una democrazia non delegante ma partecipativa, che manifesta una nuova forma di libertà segnata dalla partecipazione del cittadino alla vita della collettività in forma di partecipazione al potere politico. Nasce così una «libera repubblica dell’informazione automatizzata [che] equivale, per la sua funzionalità di comunicazione e quindi anche di suggerimenti, di rivelazioni, di accordi e di deleghe, a una nuova forma democratica di società: essa instaura le condizioni tecniche per l’attuazione pratica di un regime politico della democrazia di massa»[64].

Certo, non nego che vi è un problema che attiene alla c.d. democrazia economica[65]. Sin tratta della concentrazione di mercato da parte di alcune grandi aziende che operano su Internet: Google, Facebook e Amazon. La prima, Google, domina il proprio settore con una quota di mercato dell’88% nel search advertising (pubblicità su motori di ricerca); la seconda, Facebook (e le sue controllate: Instagram, WhatsApp e Messenger) possiede il 77% del traffico dei social network su dispositivi mobili e, infine, la terza, Amazon, ha una quota del 74% nel mercato dell’e-book. In termini economici classici, tutte e tre sono dei monopoli. Quindi, c’è un serio problema di privazione della libera concorrenza, che limita l’essenza della democrazia liberale, attraverso lo “abuso di posizione dominante” e la “dipendenza economica”. Non è però solo un problema di antitrust, che peraltro ha già fatto sentire, sia pure flebilmente, la sua voce attraverso l’Autorità garante europea e la Commissione europea, come nei casi Microsoft e Google, ponendo il dubbio che alcune pratiche commerciali (di Google, in particolare) siano da ritenersi in violazione dell’articolo 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e dell’articolo 54 dell’accordo SEE[66].

Non è solo un problema di antitrust, dicevo. Dall’angolazione democratica, infatti, si possono temere rischi di un potentato economico così forte da condizionare non solo e non tanto il mercato economico ma piuttosto anche il mercato delle idee. Che potrebbe essere condizionato dalle scelte imposte dalle grandi aziende di internet, che sarebbero mirate anche al raggiungimento di un sistema più favorevole ai propri interessi economici. È auspicabile, quindi, una maggiore concorrenza nel comparto dell’internet, consentendo ad altri soggetti di entrare nel mercato senza rischiare di essere compressi dalle grandi imprese, che operano come se fossero in regime monopolista. Come scriveva Louis D. Brandeis, prima ancora di essere nominato da Woodrow Wilson giudice della Corte Suprema: «in una società democratica, l’esistenza di grandi centri di potere privati è pericolosa per la vitalità di un popolo libero»[67].

Ampliare, allargare, espandere l’offerta di e su internet, per intensificare il pluralismo delle informazioni, delle opinioni, delle idee. Anche così si potrà consolidare internet quale strumento al servizio della democrazia e delle libertà.

9. Fake news e disinformazione

Un cenno finale occorre farlo con riferimento al tema delle fake news, che sono come la calunnia nell’aria rossiniana: «un venticello […] prende forza a poco a poco, vola già di loco in loco». Si tratta, quindi, delle notizie false e tendenziose, che circolano sulla rete Internet e che potrebbero ingannare il consumatore, oppure informare scorrettamente e mendacemente il cittadino[68]. Sono stati invocati addirittura rischi per la democrazia e si è auspicato di sottoporre Internet a regole di garanzia sulla qualità delle notizie, magari certificate da un’Autorità indipendente. Le notizie false ci sono sempre state (e sempre ci saranno) in tutti i settori della comunicazione, pubblica e privata, sulla stampa e sulla rete. In quest’ultima, poi, tenuto conto che si viene ad ampliare la libertà di espressione, che permette maggiore trasparenza e quindi consente un maggiore disvelamento della verità contro ogni censura.

Questione differente è quella della disinformazione, che non è la solo la notizia falsa ma più in generale un fenomeno degenerativo e disgregativo, che attenta alla libertà di informazione quale pilastro su cui si fonda il costituzionalismo. Certo, la disinformazione viaggia anche sulla televisione e sulla stampa ma assume forme più capziose e insidiose sulla rete, vuoi perché non c’è nessun tipo di controllo, se non quello dello dell’utente che dovrebbe sapere distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, vuoi perché diventa “virale”, potendo distribuirsi, in tempi rapidissimi, in numerosi siti internet in giro per il mondo, al punto da assumere una presunta ufficialità. In maniera un po’ esagerata, c’è stato chi ha scritto che «di fronte alla rivoluzione digitale Schmitt dovrebbe riscrivere ancora una volta il suo principio della sovranità: sovrano è colui che dispone delle informazioni in rete»[69]. Si è financo ragionato su come provare a contrastare la disinformazione online e sono già state avanzate proposte legislative, specialmente nella UE. Attraverso una regolazione che sappia bilanciare l’algocrazia con l’algoretica, che «sviluppano un reticolo di norme di natura precipuamente orizzontale, che impongono doveri di diligenza in capo ai Big Tech posti a garanzia dei diritti fondamentali»[70]. Di tutt’altro modo e metodo l’impostazione statunitense che, vigente ancora la sez. 230 del Communication Decency Act del 1996, svincola le piattaforme digitali da qualunque responsabilità sui contenuti pubblicati dagli utenti[71]. Una soluzione dal sapore liberale, per così dire.

Certo, sulla rete, nonostante tutto, c’è concorrenza e pluralismo, in punto di offerta di informazioni[72]: occorre però ampliare, allargare, espandere l’offerta di e su internet, per intensificare il pluralismo delle informazioni, delle opinioni, delle idee. Anche così si potrà consolidare internet quale strumento al servizio della democrazia e delle libertà. Sul tema, soccorrono le parole del giudice Oliver W. Holmes, nella famosa dissenting opinion sul caso Abrams vs. United States (1919): «il bene supremo è meglio raggiunto attraverso il libero commercio delle idee, che la prova migliore della verità è la capacità del pensiero di farsi accettare nella competizione del mercato e che la verità è l’unica base sulla quale i nostri desideri possono essere sicuramente realizzati»[73].

10. Conclusioni

Si può concludere, sia pure provvisoriamente, come si è iniziato. L’ordine giuridico del digitale, quale statuto di norme, da intendersi come strutturata regolazione e codificazione, appare quale il metodo meno indicato per provare a dare un ordine giuridico al complesso mondo delle piattaforme digitali. Ecco perché non è da condividere la scelta della UE, peraltro opposta a quella adottata negli USA, di regolare gli sregolati con un profluvio di norme di dettaglio, alcune delle quali di difficile attuazione e pertanto rimandate alla concreta applicazione da parte dei singoli Stati. Come se fossero direttive più che regolamenti. Diversi anni fa, avevo scritto e teorizzato di «internet come ordinamento giuridico»[74]: dove c’è un ordine e un disordine; dove l’individuo è sovrano nell’esercizio di situazioni giuridiche e delle libertà costituzionali; dove ogni azione si inserisce in un insieme di regole, ogni regola trova attuazione nel comportamento.

L’elaborazione di una teoria di internet, ovvero il cyberspace, come ordinamento giuridico autonomo, proviene dalla dottrina costituzionalistica statunitense e muove dall’assunto che «cyberspace is a distinct place for purposes of legal analysis by recognizing a legally significant border between cyberspace and the real world». Ancora, il cyberspace diventa «an important forum for the development of new connections between individuals and mechanism of self-governance»[75]. Un diritto spontaneo, quindi. Un diritto pari a quello della lex mercatoria, con la quale si regolavano i rapporti commerciali nel medioevo. Una lex informatica, dunque; che può avvalersi di una co-regulation, in cui le leggi statali si verrebbero a integrare con una politica di self-regulation da parte degli utenti di internet[76]. Una sorta di applicazione del principio di sussidiarietà, in cui la co-regulation dello Stato può venire in sussidio alla self-regulation

degli utenti, quando questi la evocano ovvero quando la necessitano. La self-regulation agisce proprio in funzione di un ordinamento nel disordine della rete, dove ogni utente è in condizione di potere regolare le proprie situazioni a seconda delle esigenze e delle peculiarità. Forse il mio può apparire come un approccio illusorio, fin troppo ottimistico. Esprimere un favor per le piattaforme digitali, e tutele sue declinazioni compresa la IA e le sue benefiche applicazioni a vantaggio dell’umanità, vuol dire, oggi, promuovere una rinnovata concezione del liberalismo, dove, cioè, si pone come prioritaria la libertà per il progresso e verso nuove forme di sviluppo dell’individuo e del benessere delle società. La posizione di chi auspica e pretende insistenti forme regolative delle piattaforme digitali, in forma pervasiva e dettagliata, a me appare come riconducibile a nuove forme di statalismo, che si manifestano nella volontà di fondare e stabilire una nuova sovranità degli stati sul digitale. Forse queste mie considerazioni mi costringono a sedermi dalla parte del dissenso, ma tutti gli altri posti risultano occupati.

  1. N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari, 1998, che ha dato luogo a un dibattito; AA.VV., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari, 1999.
  2. Da ultimo: Regolamento (UE) 2022/1925 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 settembre 2022 relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale e che modifica le direttive (UE) 2019/1937 e (UE) 2020/1828 (Regolamento sul Digital Market Act ); Regolamento (UE) 2022/2065 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativo a un mercato unico dei servizi digitali e che modifica la direttiva 2000/31/CE (Regolamento sul Digital Service Act). Su cui, specialmente sul primo, cfr. V. Falce (a cura di), “Competition law enforcement in digital markets”. Digital Markets and Competition Law. Interdisciplinary project for European Judges, Giappichelli, Torino 2021.
  3. Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’Intelligenza Artificiale (legge sull’Intelligenza Artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione (Regolamento sull’Intelligenza Artificiale).
  4. Su cui, v. il C. Camardi (a cura di), La via europea per l’intelligenza artificiale, Atti del Convegno del Progetto Dottorale di Alta Formazione in Scienze Giuridiche – Ca’ Foscari Venezia, 25-26 novembre 2021, vol. 1, Wolters & Kluwers, Milano, 2022; da ultimo, le suggestive osservazioni di D.U. Galetta, Human-stupidy-in-the-loop? Riflessioni (di un giurista) sulle potenzialità e i rischi dell’Intelligenza Artificiale, in Federalismi.it, 5, 2023.
  5. Ho anticipato la discussione su questi temi in. T.E. Frosini, Il costituzionalismo nella società tecnologica, in Dir. Inf., 2020, pp. 465 ss.; v. ora, adesivamente, A. Iannotti della Valle, Il Digital Markets Act e il ruolo dell’Unione Europea verso un costituzionalismo digitale, in Giur. Cost., 3, 2022, pp. 1867 ss.
  6. Si tratta di dati e statistiche facilmente reperibili sulle tante piattaforme digitali, attraverso i motori di ricerca, che non si ritiene necessario indicare una precisa fonte di riferimento.
  7. Su questi aspetti, rimando a T.E. Frosini, Apocalittici o integrati. La dimensione costituzionale della società digitale, Mucchi, Modena, 2021.
  8. Del diritto di accesso a Internet me ne sono occupato già tredici anni fa: T.E. Frosini, Il diritto costituzionale di accesso a Internet, in M. Pietrangelo (a cura di), Il diritto di accesso ad Internet. Atti della tavola rotonda svolta nell’ambito dell’IGF Italia 2010 (Roma, 30 novembre 2010), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011, pp. 23 ss. (ora in Id., Liberté Egalité Internet, III ed., Editoriale Scientifica, Napoli, 2023).
  9. V. Frosini, L’orizzonte giuridico dell’Internet, in Dir. Inf., 2000, pp. 271 ss.; T.E. Frosini, L’orizzonte giuridico dell’intelligenza artificiale, in Dir. Inf., 2022, pp. 5 ss.
  10. Cfr. V. Frosini, Cibernetica diritto e società, Edizioni di Comunita, Milano, 1968.
  11. Ragiona di un “costituzionalismo tecnologico”, dopo quello liberale e democratico, P. Costanzo, Il fattore tecnologico e le trasformazioni del costituzionalismo, in Rass. Parl., 4, 2012, spec. p. 852; di un “costituzionalismo digitale” scrive e argomenta M. Betzu, I baroni del digitale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022, pp. 92 ss.
  12. Così, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 7.
  13. Problema esaminato con tratti chiaroscuri da P. Costanzo, Il fattore tecnologico e il suo impatto sulle libertà fondamentali, in T.E. Frosini, O. Pollicino, E. Apa, M. Bassini, (a cura di), Diritti e libertà in internet, Milano, 2017, pp. 3 ss. e anche, da ultimo, M. Betzu, op.cit., pp. 15 ss.
  14. La dottrina della libertà informatica venne elaborata da V. Frosini, La protezione della riservatezza nella società informatica, in N. Matteucci (a cura di), Privacy e banche dei dati, Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 37 ss. (ora in Id., Informatica diritto e società, II ed., Giuffrè, Milano, 1992, pp. 173 ss.).
  15. Riprendo qui toni e termini già utilizzati in T.E. Frosini, Tecnologie e libertà costituzionali, in Dir. Inf., 2000, pp. 489 ss., che sono stati sottoposti a garbata ma netta critica da A. Pace e M. Manetti, Commento all’art. 21 Cost., in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 2006, p. 160.
  16. Così, P. Costanzo, Il fattore tecnologico e le trasformazioni del costituzionalismo, cit., p. 839.
  17. Cfr. G. Ghidini, D. Manca, A. Massolo, La nuova civiltà digitale. L’anima doppia della tecnologia, Milano 2020; da ultimo, V. Codeluppi, Mondo digitale, Laterza, Roma-Bari, 2022.
  18. Per la giurisprudenza statunitense: American Civil Liberties Union v. Reno [E.D. Pa 1996], (traduzione italiana in Dir. Inf., n. 4/5, 1996); con sviluppi in Corte Suprema 521 US 844 (1997), (traduzione italiana in Foro it., p. IV-2, 1998, 23 ss.). Per la giurisprudenza francese: Conseil Constitutionnel n. 2009-580 DC del 10 giugno 2009 (traduzione italiana in Dir. Inf., n. 3, 2009, 524 ss.).
  19. Per questa tesi, rinvio a T.E. Frosini, Liberté Egalité Internet, cit.,pp. 60 ss.
  20. A. Lepage, Libertés et droits fondamentaux à l’épreuve de l’internet, Litec, Paris, 2002, p. 61; v. anche, nella dottrina latinoamericana, O.D. Pulvirenti, Derechos Humanos e Internet, Errepar, Buenos Aires, 2013.
  21. J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, (traduzione italiana), Milano, 2000.
  22. Da ultimo, riguardo al problema dell’accesso a Internet, e con riferimento alla situazione italiana, può essere utile citare qualche dato empirico. Secondo la Relazione del 2022 della Commissione europea sullo “Indice di digitalizzazione dell’economia e della società” (DESI), l’Italia è al 18° posto in Europa per quanto riguarda la connettività. Mentre il 19% della popolazione italiana non ha mai navigato sul web, un dato ben al di sotto della media UE, e il 46% della popolazione non possiede competenze digitali di base. Poi, per quanto riguarda i servizi pubblici digitali, l’Italia si posiziona al 19° posto tra gli Stati membri della UE, con uno scarso livello di interazione online fra le autorità pubbliche e l’utenza. Buono il risultato sui servizi di sanità digitale, che pone l’Italia all’ottavo posto nella UE. L’Italia non va meglio in termini di velocità di banda, un’altra variabile che ci porta in fondo alla classifica europea.
  23. Così, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 384. Sul diritto di accesso, rimando a T.E. Frosini, Liberté Egalité Internet, cit., pp. 49 ss.; Id., Il diritto di accesso a internet, in Diritti e libertà in internet, cit., pp. 41 ss.
  24. Sul punto, v. E. Bassoli, La disciplina giuridica della seconda vita in Internet: l’esperienza Second Life, in Inf. Dir., 1, 2009, pp. 165 ss.
  25. V. Zeno Zencovich, Perché occorre rifondare il significato della libertà di manifestazione del pensiero, in Percorsi Cost., 1, 2010, p. 71.
  26. Così M. Betzu, I baroni del digitale, cit., p. 34.
  27. In tema, v. M. Manetti, I fondamenti costituzionali della concorrenza, in Quad. cost., 2, 2019; A. Iannotti della Valle, La tutela della concorrenza ai tempi di Google Android tra fondamenti costituzionali e analisi tecnologica, in Dir. Inf., 2021, pp. 283 ss. In giurisprudenza, v. Tribunale, sentenza del 10 novembre 2021, T-612/17, Google e Alphabet/ Commissione (Google Shopping), ECLI:EU:T:2021:763, che ha riconosciuto il ruolo “superdominante” di Google e il suo carattere anticoncorrenziale.
  28. S. Mannoni e G. Stazi, Sovranità.com. Potere pubblico e privato ai tempi del cyberspazio, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021.
  29. S. D. Warren e L. D. Brandeis, The right to privacy, in Harvad Law Review, 1890.
  30. In tema di diritto alla privacy, con riferimento alle problematiche presenti e future, cfr. T.E. Frosini, Le sfide attuali del diritto ai dati personali, in S. Faro, T.E. Frosini, G. Peruginelli (a cura di), Dati e algoritmi. Diritto e diritti nella società digitale, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 25 ss.
  31. Fra i primi a porre la questione giuridica di internet, v. P. Costanzo, Internet (diritto pubblico), in Digesto disc. pubbl., IV ed. agg., Torino, 2000.
  32. Da ultimo, V. Zeno Zencovich, Big data e epistemologia giuridica, e A. Stazi, Legal big data: prospettive applicative in ottica comparatistica, entrambi nel vol. Dati e algoritmi. Diritto e diritti nella società digitale, cit., pp. 13 ss. e pp. 77 ss.
  33. Sulla questione, v. T.E. Frosini, Internet e democrazia, in Dir. Inf., 4/5, 2017 (ora in Id., Liberté Egalité Internet, cit., 211 ss.).
  34. C. Chiola, Appunti sul c.d. diritto all’oblio e la tutela dei dati personali, in Percorsi Cost., 1, 2010, p. 39.
  35. Maggiori dettagli in T.E. Frosini, La tutela dei dati e il diritto all’oblio, in Rass. parl., 4, 2018, pp. 497 ss.
  36. Sulle sentenze della Corte Ue, v. i fascicoli monografici di Dir. Inf., 4/5, 2014 (sul caso Google Spain) e Dir. Inf., 4/5, 2015 (sul caso Safe Harbour), entrambi ospitano una raccolta di contributi che analizzano le varie problematiche derivanti dalle pronunce giurisdizionali. Con riferimento alla prima sentenza, cfr. A. Rallo, El derecho al olvido en Internet. Google versus Espana, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2014.
  37. Sulla questione della c.d. territorialità dell’oblio, v. ora G. Bevilacqua, La dimensione territoriale dell’oblio in uno spazio globale e universale, in Federalismi.it, 23, 2019.
  38. Con riferimento alla sentenza Facebook, ma anche alla precedente, v. O. Pollicino, L’“autunno caldo” della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete e le sfide del costituzionalismo alle prese con i nuovi poteri privati in ambito digitale, in Federalismi.it, 19, 2019.
  39. Per una prima analisi, v. S. Zanini, Il diritto all’oblio nel regolamento europeo 679/2016: quid novi?, in Federalismi.it, 15, 2018.
  40. Cfr. T.E. Frosini, Liberté Egalité Internet, cit., pp. 103 ss.
  41. Assai numerosa è la produzione di libri e articoli dedicati alla IA, qui mi limito a citare un recente volume che inquadra il tema svelando luci e ombre: K. Crawford, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro della IA, (traduzione italina), Bologna, 2021.
  42. T. Ramge e V. Mayer-Schönberger, Fuori i dati! Rompere i monopoli sulle informazioni per rilanciare il progresso, (traduzione italiana), Milano, 2021.
  43. Per un quadro d’insieme, si v. il volume A. D’Aloia (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto. Come regolare un mondo nuovo, FrancoAngeli, Milano, 2020, e T.E. Frosini, L’orizzonte giuridico dell’intelligenza artificiale, cit.
  44. Ripropone l’uso del termine “cibernetica”, sottolineando l’affinità fra questa e il diritto, perché «entrambi mirano a studiare e a rendere prevedibili i modelli di comunicazione e controllo dei comportamenti collettivi»: così, A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, in A. D’Aloia (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto. Come regolare un mondo nuovo, cit., p. 171.
  45. T.E. Frosini, Il costituzionalismo nella società tecnologica, cit., 465 ss.; v. anche C. Casonato, Per una intelligenza artificiale costituzionalmente orientata, in A. D’Aloia (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto. Come regolare un mondo nuovo, cit., pp. 131 ss.
  46. Sul punto, A. Simoncini, op.cit., p. 196.
  47. Così B. Caravita di Toritto, Principi costituzionali e intelligenza artificiale, ora in Id., Letture di diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2020.
  48. A. Simoncini, op.cit., p. 199.
  49. B. Caravita di Toritto, op.cit.
  50. Su questi temi e problemi, v. F. Donati, Intelligenza artificiale e giustizia, in A. D’Aloia (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto. Come regolare un mondo nuovo, cit., 248 ss. V. anche numerosi spunti in S. Sassi, Gli algoritmi nelle decisioni pubbliche tra trasparenza e responsabilità, in Analisi giuridica dell’economia, 1, 2019.
  51. Per il primo termine, v. M. Ainis, Il regno dell’uroboro. Benvenuti nell’era della solitudine di massa, La Nave di Teseo, Milano 2018, pp. 19 ss.; per il secondo, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 33.
  52. Per la Francia, v. la loi n. 2016-1321 du 7 octobre pour une République numérique (con modifiche nel 2019), per gli Usa, v. la legge n. 49 del 2018 di NYC: A Local Law in relation to automated decision systems used by agencies, cfr. S. Sassi, Gli algoritmi nelle decisioni pubbliche tra trasparenza e responsabilità, cit., pp. 109 ss.
  53. Così, A. D’Aloia, Il diritto verso “il mondo nuovo”. Le sfide dell’Intelligenza Artificiale, in A. D’Aloia (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto. Come regolare un mondo nuovo, cit., p. 33.
  54. Su queste questioni, v. S. Coleman, Can The Internet Strengthen Democracy?, Cambridge, 2017; v. altresì, da ultimo, P. Costanzo, La democrazia digitale (precauzioni per l’uso), in Dir. Pubbl., 1, 2019, pp. 71 ss.
  55. Da ultimo, M. Barberis, Come internet sta uccidendo la democrazia, Milano 2020, p. 137, il quale, tra l’altro, afferma: «internet moltiplica i pregiudizi sino al parossismo, ma la rivoluzione digitale è la causa principale, benchè non l’unica, del populismo odierno». Anche M. Betzu, I baroni del digitale, cit., p. 27, individua «forme di populismo digitale particolarmente pericolose per la stabilità della democrazia rappresentativ
  56. Per le varie definizioni citate nel testo, v. nell’ordine i seguenti studi: L.K. Grossman, The Eletronic Repubblic. Reshaping Democracy in the Information Age, New York 1995; L. Scheer, La democrazia virtuale, tr.it., Genova, 1997; AA.VV., La démocratie continue, sous la direction de D. Rousseau, Paris-Bruxelles 1995; V. Frosini, La democrazia nel XXI secolo [1997], nuova ed. con prefaz. di A. Jellamo e postfaz. di F. Riccobono, Macerata, 2010.
  57. V. I. Budge, The new Challenge of Direct Democracy, Cambridge, 1996. Con considerazioni in chiaroscuro, M. Ainis, Democrazia digitale, in Rass. parl., 2, 2013, pp. 263 ss. Da ultimo, i contributi di M. Monti, Le Internet platforms, il discorso pubblico e la democrazia, in Quad. cost., 4, 2019, pp. 811 ss.; A. Venanzoni, La matrice spezzata: ripensare la democrazia all’epoca di Internet, in Quad. cost., 1, 2020, pp. 61 ss.
  58. Ho argomentato questa mia posizione in T.E. Frosini, Internet e democrazia, cit.
  59. Così, V. Frosini, La democrazia nel XXI secolo, cit., pp. 23 ss.
  60. Ibidem, p. 34.
  61. Sulla questione, v. S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza,Roma-Bari, 1997; Id., Libertà, opportunità, democrazia e informazione, in Internet e Privacy: quali regole? Atti del convegno organizzato dal Garante per la protezione dei dati personali, Roma, 1998, pp. 12 ss. il quale, con riferimento a Internet, la definisce come «una forma che la democrazia può assumere, è una opportunità per rafforzare la declinante partecipazione politica. È un modo per modificare i processi di decisione democratica».
  62. Sulla diffusione del voto elettronico e le sue implicazioni giuridico-costituzionali, v. ora, M. Schirripa, Le nuove frontiere del diritto di voto. Uno studio di diritto comparato, Wolters Kluwer, Padova, 2021.
  63. Su cui, v. C. Marchese, Il diritto di voto e la partecipazione politica. Studio di diritto comparato, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019.
  64. Così, V. Frosini, La democrazia nel XXI secolo, cit., p. 33.
  65. Su cui, v. E.C. Raffiotta, Libertà economiche e Internet, in Diritti e libertà in Internet, cit., pp. 413 ss.
  66. Mi riferisco al caso Microsoft, su cui v. A. Giannaccari, La concentrazione Microsoft-Skype (vs Facebook-WhatsApp?). Ovvero una guerra per bande alle spalle delle Telcos, in Mercato Concorrenza Regole, 1, 2014, pp. 139 ss. In tema, v. ora V. Falce, Rapporti asimmetrici tra imprese e soluzioni pro-concorrenziali, in Riv. Dir. Ind., 4-5, 2021, pp.189 ss.
  67. Cfr. M.I. Urofsky, Louis D. Brandeis: a Life, Schocken Books, New York, 2012.
  68. Cfr. S. Sassi, Disinformazione contro costituzionalismo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021.
  69. B. Chul Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, (traduzione italiana), Torino 2023, 16.
  70. Così, S. Sassi, op.cit., 198.
  71. V. S. K. Myers, Wikimmunity: Fitting the Communication Decency Act to Wikipedia, in Harvard Journal of Law & Technology, 20, 2006.
  72. Sul punto, F. Donati, Il principio del pluralismo delle fonti informative al tempo di Internet, in Percorsi Cost., 1, 2014, pp. 31 ss.
  73. O.W. Holmes, Opinioni dissenzienti, a cura di C. Geraci, Giuffrè, Milano 1975, p. 105.
  74. T.E. Frosini, Internet come ordinamento giuridico, in Percorsi cost., 1, 2014 (ora in Id., Liberté Egalité Internet, cit.)
  75. Cfr. D.R. Johnson e D. Post, Law and Borders. The rise of Law in Cyberspace, in Standford Law Review, 48, 1996, 1378 e 1397.
  76. Tra i più convinti teorici della co-regulation, L. Lessig, Code and other law of Cyberspace, Basic Books, New York, 1999.

Tommaso Edoardo Frosini

Full Professor of Comparative Public Law, University of "Suor Orsola Benincasa".