La speciale disciplina urbanistica ed edilizia delle opere pubbliche

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2/2023

La speciale disciplina urbanistica ed edilizia delle opere pubbliche

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Le opere pubbliche costituiscono uno degli oggetti principali e più qualificati della ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia, cionondimeno ne sono generalmente sottratte. È a partire dagli anni Settanta del secolo scorso che vengono via via introdotte leggi di settore che attribuiscono ai procedimenti di localizzazione e realizzazione di differenti tipologie di opere pubbliche l’effetto di derogare sia alle previsioni del piano regolatore generale, evitando la procedura ordinaria di variante al piano, sia alla disciplina generale sui titoli abilitativi. Nella stessa direzione si sono mossi i decreti legge n. 77/2021 e n. 36/2022 con riferimento alle opere, agli impianti e alle infrastrutture necessari alla realizzazione di obiettivi strategici dell’Unione europea per la transizione ecologica e energetica del Paese compresi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e nel Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC). Lo scritto spiega le cause di questa sostanziale “depianificazione” delle opere pubbliche e analizza soprattutto i regimi speciali individuati dal testo unico dell’edilizia.


The special urban planning and building regime relevant to of public works
Public works constitute one of the main objects of ordinary urban planning and building regulations. However, since the 1970s, laws have been gradually introduced with the effect of derogating either from the provisions of the general land use plan or from the general discipline on authorization procedures to build. The decree-laws n. 77/2021 and n. 36/2022 have continued this trend with reference to projects necessary to achieve the strategic objectives of the European Union for the country's ecological and energy transition  included in the National Recovery and Resilience Plan (PNRR) and the Integrated National Plan for Energy and Climate (PNIEC). This paper explains the causes of this substantial "deplanning" of public works  the special regimes identified by the consolidated text on construction.

Sommario. 1. Opere pubbliche in deroga al piano urbanistico e alla disciplina generale dei titoli edilizi. – 2. Opere concordate da più amministrazioni pubbliche. – 3. Opere statali e di interesse statale. – 4. Opere comunali.

1. Opere pubbliche in deroga al piano urbanistico e alla disciplina generale dei titoli edilizi

Filippo Salvia nel suo fondamentale manuale di diritto urbanistico, giunto nel 2021 alla quarta edizione, riesce a ricomporre magistralmente, anche attraverso utili riferimenti storici, le coordinate del sistema e la debole trama di una materia soggetta a continue tensioni, a causa soprattutto di una disciplina urbanistica non unitaria per tutto il Paese (in virtù dell’avvento del regionalismo) e di una copiosa legislazione di settore finalizzata alla cura di altri interessi pubblici e motivata da emergenze di vario tipo, soprattutto ambientali ed economiche.

L’Autore, con riferimento al tema specifico di questo contributo[1], chiarisce subito come (anche) le opere pubbliche e di interesse pubblico[2], pur costituendo uno degli oggetti principali e più qualificati della ordinaria pianificazione urbanistica di livello comunale, vengono quasi sempre decise fuori dal contesto pianificatorio e immesse ex post nel piano attraverso procedimenti urbanistici atipici (ovvero attraverso procedimenti permissivi a valenza urbanistica), che attribuiscono all’approvazione del progetto dell’opera valore di variante (del piano) e diventano il vero baricentro della politica urbanistica al posto del procedimento di formazione del piano comunale di base[3].

Questa sostanziale “depianificazione” delle opere di interesse generale avviene tanto nella tradizionale pianificazione comunale concepita dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942 (che costituisce ancora oggi l’unica legge organica di rango statale vigente in materia), fondata sul piano regolatore generale (tuttora operante in molti comuni), quanto nella nuova pianificazione di carattere strategico introdotta da diverse leggi regionali e basata sullo schema del piano strutturale.

Si tratta di un fenomeno che riguarda, oggi, la maggior parte degli interventi pubblici e privati di una certa dimensione (per esempio: quelli di edilizia pubblica residenziale, quelli industriali e artigianali, i grandi centri commerciali, le grandi opere e quelle collegate ai grandi eventi[4]).

Tali opere, insieme ai piani attuativi ed ai piani speciali ad indicenza urbanistica[5], dotati anch’essi dalla legislazione di settore in molti casi di forza derogatoria del piano comunale di base (sia esso piano regolatore generale o piano strutturale), hanno sostanzialmente modificato il modello tradizionale, ormai datato[6], della pianificazione urbanistica (ereditato dalla legge n. 1150/1942), fondato sul vincolo gerarchico tra i diversi livelli di piano (in virtù del quale il piano sottoordinato può solo attuare e all’occorrenza sviluppare le previsioni contenute nel piano sovraordinato) e sulla programmazione (ad opera delle autorità istituzionalmente abilitate al governo del territorio) degli interventi di modifica dell’assetto del territorio all’interno dei piani (anche attraverso la procedura ordinaria ed aggravata di variante al piano, per consentirne l’adeguamento alle nuove esigenze maturate nel tempo).

Le opere pubbliche e di interesse pubblico sono quindi sottratte perlopiù alla ordinaria disciplina urbanistica, ma anche edilizia (come si vedrà), in virtù di varie leggi di settore che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, hanno via via attribuito ai procedimenti di approvazione di gran parte dei progetti di opere pubbliche e di opere private di interesse generale l’effetto di variante delle previsioni del piano urbanistico comunale e sottratto il relativo procedimento autorizzatorio alla disciplina generale sui titoli abilitativi.

L’art. 7 del testo unico dell’edilizia, di cui al d.P.R. n. 380/2001, conferma questa specialità, individuando, attraverso i richiami contenuti nelle tre lettere in cui si suddivide l’unico comma, alcune (ma non tutte le) tipologie di opere pubbliche sottoposte a procedimenti speciali, che derogano alla disciplina generale sui titoli abilitativi: per realizzare tali opere non è infatti necessario acquisire il permesso di costruire, né presentare la segnalazione certificata di inizio di attività[7], né pagare il contributo di costruzione[8].

Il regime urbanistico ed edilizio (a carattere derogatorio) delle opere pubbliche, in particolare, si caratterizza fondamentalmente per il fatto che le decisioni delle pubbliche amministrazioni, in ordine alla localizzazione ed alla realizzazione degli interventi, sostituiscono (per ragioni di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa) il permesso di costruire dell’autorità comunale, altrimenti richiesto dalla disciplina ordinaria, e, se difformi rispetto alle previsioni del piano regolatore generale (PRG) o del piano strutturale, ne producono automaticamente l’effetto di variante.

Per la realizzazione delle opere richiamate all’art. 7 e, si vedrà, per l’esecuzione di altre specifiche tipologie di opere pubbliche (disciplinate da leggi di settore) non è quindi necessario il rilascio del provvedimento autorizzatorio da parte del comune, in quanto la verifica della loro conformità agli strumenti urbanistici viene assicurata da altri tipi di atti, unilaterali o consensuali (di cui si parlerà subito dopo), adottati da amministrazioni pubbliche, anche non comunali, al termine di procedimenti speciali finalizzati a soddisfare gli interessi pubblici sottesi alla realizzazione di tali opere, con rilevanti effetti urbanistici, essendo tali atti capaci di derogare alle previsioni del piano comunale di base, modificandone automaticamente il contenuto.

Un regime speciale per le opere delle amministrazioni statali è stato in effetti previsto fin dalla fondamentale legge urbanistica n. 1150/1942 (art. 29). Ma è soprattutto a partire dagli anni ’70 che per le opere pubbliche vengono progressivamente introdotte discipline derogatorie, da parte di leggi dello Stato e delle regioni, in forza queste ultime della potestà legislativa concorrente esercitata nelle materie (strettamente connesse) dell’urbanistica e dell’edilizia, entrambe ricomprese, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, nella nuova espressione «governo del territorio» (art. 117, co. 3, Cost.), che allude ad un’unica materia di legislazione concorrente, avente ad oggetto, com’è noto, l’uso (non solo degli aggregati urbani, ma) dell’intero territorio nazionale[9].

In virtù delle varie leggi di settore, via via introdotte, la localizzazione delle opere pubbliche viene decisa, non più all’interno della pianificazione urbanistica comunale, ma nell’ambito di altri procedimenti, nei quali l’approvazione del progetto non previsto nel piano urbanistico, oppure ad esso non conforme, assume il significato di variante al piano. Una variante che, proprio perché assunta al termine di un procedimento diverso da quello ordinario di modificazione dello strumento urbanistico, è variamente definita atipica, anomala, automatica, accelerata o semplificata[10].

La normativa speciale sulle opere pubbliche, sempre più cospicua, rappresenta, quindi, una delle principali cause che negli ultimi cinquant’anni ha sicuramente contribuito a snaturare il sistema pianificatorio prefigurato originariamente dalla legge urbanistica del ’42: un sistema nel quale il piano avrebbe dovuto precedere le singole trasformazioni del territorio, così che anche per la realizzazione delle opere di interesse generale si sarebbe dovuto seguire l’ordinario procedimento di formazione e modificazione del piano regolatore. Per cui, se la necessità di realizzare l’opera fosse sorta successivamente all’approvazione del piano e questa non fosse stata prevista nello strumento urbanistico o non fosse stata ad esso conforme, la sua localizzazione sarebbe dovuta avvenire seguendo il procedimento ordinario di introduzione della variante al piano, ossia con le stesse modalità previste per l’adozione e l’approvazione dello strumento urbanistico, salvo l’obbligo di una più puntuale motivazione delle scelte urbanistiche in ragione del loro carattere derogatorio.

Il modello teorico di pianificazione previsto dalla legge del 1942, lento e complesso, si è in particolare scontrato con la necessità pratica di utilizzare procedimenti localizzativi veloci e semplificati, al fine di non bloccare la realizzazione di determinate opere, considerate indispensabili per lo sviluppo economico e sociale del Paese e spesso legate a finanziamenti da utilizzare in tempi brevi. L’esigenza di lavori pubblici emerge, infatti, di continuo ed incide ripetutamente su strumenti urbanistici già predisposti, i quali, se, da un lato, necessitano di solleciti aggiornamenti, allo scopo di poter recepire le previsioni idonee alla realizzazione di quanto progettato, dall’altro lato, risultano tuttavia caratterizzati da un elevato grado di rigidità, essendo privi di quella necessaria flessibilità e dinamicità, che sono, invece, indispensabili per un veloce inserimento delle nuove opere nel piano[11].

Oggi, comunque, l’originario sistema di pianificazione dovrebbe considerarsi in parte superato almeno in quelle regioni che abbiano adottato un nuovo regime pianificatorio, più elastico e meno conflittuale, basato (non più sul binomio piano regolatore generale/piano particolareggiato o piano di lottizzazione, ma) su uno strumento urbanistico di base, di carattere essenzialmente strategico, denominato piano «strutturale», e su una serie di piani «operativi», in cui il primo, al di là di individuare le c.d. invarianti (le parti di territorio destinate ad essere preservate da sostanziali trasformazioni), si dovrebbe limitare, in effetti, a dare indicazioni di massima delle aree destinate alla trasformazione, per cui relativamente a queste ultime il piano non impone (o non dovrebbe imporre) vincoli precisi di localizzazione di impianti pubblici sulle singole proprietà, ma si limita (o dovrebbe limitarsi) piuttosto a indicare criteri-guida da sviluppare in un secondo momento tramite i piani operativi[12].

Per il tramite della legislazione di settore si è così derogato ad uno dei principi informatori del nostro ordinamento urbanistico, qual è quello dell’obbligo di conformità (anche) dell’opera pubblica al piano urbanistico, determinandone nella realtà (quasi) un capovolgimento, ovvero la sua trasformazione nell’obbligo di adattamento delle previsioni dello strumento urbanistico alle caratteristiche dell’opera pubblica[13]. Si è cioè pervenuti al risultato per cui è la stessa procedura di localizzazione dell’opera pubblica ad assumere un contenuto sostanzialmente pianificatorio, innovativo dello strumento urbanistico, i cui contenuti vengono sotto questo profilo eterodeterminati.

Se si guarda poi alla giurisprudenza amministrativa, si scopre che anche questa, nel passato, ha avallato il fenomeno dell’immissione automatica nel piano urbanistico di opere pubbliche in variante, utilizzando criteri eccessivamente elastici[14], come nel caso in cui, per esempio, ha ammesso la realizzazione di opere ferroviarie, stradali ed idroelettriche in zone destinate (dal piano) a verde agricolo, sulla base della generica compatibilità dell’opera pubblica con il contenuto del piano regolatore, anziché della più rigorosa conformità, espressamente prevista (invece) dall’art. 29, della legge n. 1150/1942, nonché dall’art. 2, del d.P.R. n. 383/1994[15].

In ogni caso, tutte le volte in cui i giudici hanno legittimato l’immissione di opere pubbliche in variante al piano, oppure in comuni del tutto sprovvisti dello strumento urbanistico, si è prodotta una trasformazione del contenuto del permesso edilizio: da mero accertamento di conformità urbanistica ad una vera e propria valutazione discrezionale di compatibilità dell’intervento con l’assetto territoriale in atto e con quello prevedibile in fieri[16].

Il denominatore comune ai vari regimi speciali sulle opere pubbliche e di pubblica utilità è dunque costituito dal fatto, si ripete, che essi sono derogatori rispetto alla ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia, in quanto, per ragioni generalmente di semplificazione, economicità ed efficienza dell’azione amministrativa, la decisione che viene presa dalle amministrazioni pubbliche al termine del procedimento localizzativo, per un verso, sostituisce il provvedimento abilitativo dell’autorità comunale, che, altrimenti, dovrebbe essere richiesto in base alle regole generali dell’edilizia, per altro verso, qualora l’opera progettata non sia conforme alle previsioni del piano urbanistico, assume il valore di variante automatica dello stesso, nonché di dichiarazione implicita di pubblica utilità dell’opera, ai fini dell’avvio del connesso procedimento espropriativo[17].

All’interno di questo rapporto dialettico tra procedimenti di pianificazione urbanistica e procedimenti di localizzazione delle opere pubbliche si inseriscono, a partire dagli anni ’90, gli ulteriori strumenti della programmazione triennale con aggiornamenti annuali dei lavori che si intendono eseguire[18] e del coordinamento programmatico di tipo preventivo tra i diversi livelli di governo (art. 55, d.lgs. n. 112/1998): un modello di azione, di tipo programmatorio e concertativo, che, utilizzato in modo corretto, può certamente contribuire a ridimensionare il problema delle opere pubbliche localizzate e realizzate al di fuori del contesto della pianificazione urbanistica ed a scongiurare le localizzazioni di opere spesso prive di strutture di raccordo con il territorio circostante[19].

Dopo queste considerazioni di carattere generale sulla specialità della disciplina urbanistica ed edilizia delle opere pubbliche, si darà conto adesso di alcuni regimi speciali, soffermandosi in particolare su quelli individuati dall’art. 7 del testo unico dell’edilizia.

2. Opere concordate da più amministrazioni pubbliche

La lett. a) dell’articolo 7 del testo unico dell’edilizia richiama (in parte) la disciplina generale sull’accordo di programma, contenuta nell’art. 34 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267/2000), al fine di escludere dall’ambito applicativo delle ordinarie disposizioni sui titoli abilitativi (anche) le opere deliberate tramite la conclusione di un accordo tra le amministrazioni pubbliche interessate, a condizione che vi sia l’assenso del comune interessato e la pubblicazione dell’accordo nel bollettino ufficiale della regione. Di conseguenza, qualora l’amministrazione comunale non partecipi all’accordo o non esprima l’assenso, l’ente interessato dovrà munirsi del titolo abilitativo come qualsiasi altro soggetto privato.

Secondo una parte della dottrina la norma, proprio per il fatto che riprende talune disposizioni del predetto art. 34, contemplerebbe la figura dell’accordo di programma[20]. La stessa richiama, però, soltanto l’adempimento della pubblicazione e non anche l’adempimento consistente nell’approvazione dell’accordo di programma «con atto formale del presidente della regione o del presidente della provincia o del sindaco». Per cui, essa darebbe vita piuttosto ad una nuova fattispecie di accordo, ove è sufficiente unicamente la stipulazione (senza che sia necessario anche l’atto formale di approvazione) affinché il negozio consensuale produca l’effetto sostitutivo del permesso di costruire.

L’approvazione – che svolge in ogni caso una funzione di controllo degli aspetti formali e sostanziali dell’accordo, nonché una funzione di novazione della fonte di produzione dell’effetto giuridico (che non è più l’accordo ma l’atto approvativo)[21] – rimane tuttavia atto necessario ogni qual volta l’accordo abbia ad oggetto un progetto d’opera pubblica in variante al piano urbanistico e sarà di competenza del presidente della regione o del presidente della provincia o del sindaco, ove si vuole che gli effetti siano quegli stessi prodotti dalla conferenza di servizi (sulle opere di interesse statale), disciplinata dall’art. 3, del d.P.R. n. 383/1994, in combinato con gli artt. 14 e ss. della legge n. 241/1990 (di cui si dirà diffusamente più avanti), ossia la variazione automatica dello strumento urbanistico.

Sia nel caso dell’accordo di cui all’art. 7 sia nell’ipotesi dell’accordo di programma di cui all’art. 34, si è comunque in presenza di un modello consensuale riconducibile nell’ambito della categoria generale dell’accordo organizzativo, di cui all’art. 15 della legge n. 241/1990[22]: uno strumento di semplificazione di attività di interesse comune di più amministrazioni pubbliche, finalizzato a consentire l’esercizio coordinato di funzioni programmatiche, pianificatorie, urbanistiche e finanziarie[23], idoneo di per sé ad incidere attraverso una procedura accelerata sui piani urbanistici[24] ma anche su quelli paesistici, determinandone la modificazione automatica[25].

Per quanto riguarda la competenza a promuovere la conclusione dell’accordo, oppure a convocare una conferenza di servizi istruttoria (tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate) per verificare preliminarmente la possibilità di concordarne i contenuti, questa, secondo la disciplina fissata dall’art. 34, co. 1 e 3, spetterà al presidente della regione o al presidente della provincia o al sindaco, a seconda di chi tra questi soggetti abbia la competenza primaria o prevalente sull’opera (sull’intervento o sul programma di intervento)[26], salvo che i lavori comportino il concorso di due o più regioni finitime, perché, in tal caso, la competenza sarà della Presidenza del Consiglio dei ministri (comma 8).

In ordine ai contenuti dell’accordo, che deve essere stipulato per atto scritto a pena di nullità[27], bisogna distinguere i contenuti eventuali, che dipendono dall’autonoma disposizione delle parti stesse (salvi i limiti comuni a qualsiasi negozio contrattuale: liceità della causa, determinazione o determinabilità dell’oggetto, ecc.), da quelli direttamente indicati dalla legge come necessari, che sono, oltre all’oggetto, la determinazione dei tempi e delle modalità di definizione ed attuazione delle opere, nonché la relativa provvista finanziaria ed ogni altro connesso adempimento[28].

L’accordo presuppone naturalmente il consenso unanime del presidente della regione, del presidente della provincia, dei sindaci e dei rappresentanti delle altre amministrazioni interessate (art. 34, co. 4). Qualora, tuttavia, non sia possibile raggiungere l’unanimità in ordine alla realizzazione di un’opera pubblica di interesse statale, si può applicare la procedura prevista dagli artt. 2 e 3, del d.P.R. n. 383/1994, ove si prevede l’intesa tra lo Stato e la regione, oppure, in mancanza di un’intesa, l’indizione di una conferenza di servizi ai sensi degli articoli da 14 a 14-quinquies della legge n. 241/1990. L’ultima disposizione disciplina un rimedio contro i dissensi motivati espressi in conferenza da una regione o da un’amministrazione preposta alla tutela di interessi sensibili (quali la tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini), seguiti da un’opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto a quest’ultimo compete, tramite l’indizione di una o due riunioni, di individuare una soluzione condivisa, che sostituisca la determinazione motivata di conclusione della conferenza con i medesimi effetti. Nel caso di ulteriore esito negativo spetterà unilateralmente, questa volta, al Consiglio dei Ministri, decidere se accogliere anche in parte l’opposizione, sebbene alla riunione potranno partecipare anche i Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.

L’accordo produce effetti obbligatori, in quanto vincola le parti stipulanti ad ottemperare agli impegni assunti. Alle eventuali inadempienze di talune delle parti contraenti si può comunque rimediare attivando il meccanismo surrogatorio predisposto dall’art. 34, co. 2, che demanda ad un apposito collegio (presieduto e composto dai soggetti indicati nei commi 7 e 8), incaricato di vigilare sull’esecuzione dell’accordo, i relativi interventi sostitutivi.

Gli effetti prodotti dall’accordo possono essere: intrinseci, se derivano dalla natura contrattuale dell’accordo, in ordine ai quali possono ammettersi i rimedi civilistici contro l’inadempimento (azione di adempimento o di risoluzione per inadempimento e azione di risarcimento del danno, da promuovere innanzi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, co. 1, lett. a, punto 2, d.lgs. n. 104/2010); oppure, estrinseci, che sono, invece, quelli che la legge ricollega in via automatica all’approvazione dell’accordo e cioè la sostituzione del permesso di costruire, la variazione del piano urbanistico e la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere. Quest’ultimo effetto, tuttavia, si produce solo nel caso in cui venga approvato un accordo che abbia ad oggetto opere pubbliche (da iniziarsi, a pena di decadenza della dichiarazione, entro tre anni) comprese nei programmi dell’amministrazione e per le quali siano immediatamente utilizzabili i relativi finanziamenti.

La dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere, implicita nell’approvazione del progetto, non esonera comunque l’ente locale – secondo quanto afferma la giurisprudenza prevalente del Consiglio di Stato[29] – dall’obbligo di comunicare ai soggetti privati interessati, ai sensi dell’art. 7 della legge 241/1990, l’avvio del relativo procedimento prima dell’approvazione dell’accordo, salvo che sussistano «particolari esigenze di celerità», le quali potrebbero legittimare l’amministrazione a non attivare i meccanismi partecipativi[30].

La comunicazione di avvio del procedimento, tra l’altro, deve essere inviata «personalmente» ai destinatari del provvedimento espropriativo, in quanto altre forme idonee di pubblicità, decise di volta in volta dall’amministrazione (quali, per esempio, l’affissione all’albo pretorio), sono ammissibili solo nei casi in cui «per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa», nel rispetto, d’altronde, di quanto prescrive l’art. 8, co. 3, della legge n. 241[31].

Per quanto riguarda, invece, l’ordine legale delle competenze degli organi delle singole amministrazioni partecipanti all’accordo, questo, analogamente a quanto avviene nella conferenza di servizi (di cui si dirà nel successivo paragrafo), non può essere derogato[32]. Ne segue che, se la competenza amministrativa in una data materia è attribuita in via primaria ad un determinato organo, la partecipazione all’accordo di diverso organo dello stesso ente non può sostituire decisioni riservate al primo, a meno che quest’ultimo l’abbia espressamente delegato. Nell’ipotesi in cui pertanto sia presente un organo non delegabile o non delegato, la sua partecipazione all’accordo può comportare soltanto il suo impegno a sottoporre la questione all’organo competente[33].

L’accento posto, sia dall’art. 7 sia dall’art. 34, sulla necessità del consenso comunale intende ovviamente salvaguardare le attribuzioni urbanistiche del comune, in quanto esclude che, tanto l’abrogazione delle eventuali prescrizioni di piano in contrasto con la realizzazione dell’opera, quanto la sostituzione dei permessi di costruire, possano avvenire in mancanza dell’adesione dell’ente locale.

Nel caso di variante al piano urbanistico è in ogni caso necessario che l’adesione del sindaco venga ratificata dal consiglio comunale, entro trenta giorni, a pena di decadenza, sia nell’ipotesi in cui il promotore dell’accordo non sia il sindaco ma altro organo pubblico (la Presidenza del Consiglio dei ministri, il presidente della regione o il presidente della provincia), sia nel caso in cui l’artefice dell’iter volto alla stipula dell’accordo sia lo stesso sindaco[34]. E ciò al fine di rispettare i principi generali in tema di riparto delle competenze all’interno dell’amministrazione comunale, ove le funzioni principali in materia urbanistica sono prerogativa consiliare[35]. Dette funzioni non possono cioè ritenersi trasferite al sindaco, il cui assenso deve essere sempre ratificato dal consiglio comunale. Se, tuttavia, sussiste una delega preventiva dell’organo consiliare, si è posto in dottrina il problema della necessità o meno della successiva ratifica da parte dello stesso organo delegante, che è stato risolto da alcuni autori ritenendo sempre necessaria la ratifica, in considerazione, sia del fatto che il mandato lascia al sindaco ampi margini di discrezionalità, sia del fatto che le decisioni assunte in sede di accordo, laddove comportino variazioni degli strumenti urbanistici, esproprierebbero il consiglio comunale di una delle sue competenze più rilevanti[36]. Il problema dell’obbligatorietà della ratifica pare pertanto che si possa porre soltanto se nella delega consiliare siano impartite al sindaco istruzioni sufficientemente dettagliate in ordine ad un’ipotesi di accordo su un progetto in variante al piano urbanistico già deliberato dallo stesso consiglio, perché, in tal caso, la necessità di una successiva ratifica finirebbe per frustrare quelle esigenze di efficienza, semplificazione e accelerazione, che sono alla base dell’istituto, senza peraltro trovare giustificazione nell’esigenza di salvaguardare le competenze dell’organo collegiale. In mancanza di un’investitura preventiva, quindi, l’adesione all’accordo del rappresentante legale dell’ente può solo valere come impegno all’avvio del procedimento di successiva ratifica.

In ogni caso, se l’adesione di ciascuno dei soggetti interessati all’accordo non viene preceduta dalla formale deliberazione dell’organo competente a disporre in ordine all’adesione medesima, si pone il problema dell’illogicità di dar luogo alla formazione di un atto consensuale, che ha per oggetto il coordinamento volontario di funzioni amministrative, senza che gli organi effettivamente titolari delle funzioni da coordinare abbiano preventivamente inteso aderire a una siffatta soluzione della vicenda[37]. Appare pertanto preferibile la soluzione del previo mandato, sia perché più garantista delle rispettive competenze interne, sia per la maggiore stabilità che conferisce all’accordo raggiunto, considerato che l’organo competente alla ratifica potrebbe rifiutarla in mancanza di una delega preventiva[38]. Nel caso di conferimento del mandato si segue del resto una modalità che è tipica di tutti quei contratti in cui una delle parti è un’organizzazione complessa e determinate questioni sono devolute alla competenza deliberativa dell’organo collegiale[39].

Per quanto riguarda, infine, la pubblicazione nel bollettino ufficiale della regione, essa va configurata come fase integrativa dell’efficacia, in quanto assolve ad una funzione di pubblicità legale e di tutela dei terzi controinteressati e segna il momento a partire dal quale inizia a decorrere il termine decadenziale di impugnazione per tutti i soggetti che non siano direttamente e nominativamente contemplati nell’accordo[40].

3. Opere statali e di interesse statale

Per le opere da eseguirsi da parte delle amministrazioni statali, già la legge urbanistica del ’42, all’art. 29 (da considerare, però, ormai, implicitamente abrogato, in seguito alla disciplina parzialmente diversa introdotta dal d.P.R. n. 383/1994), aveva introdotto un regime speciale, in quanto tali opere erano state sottratte alla licenza edilizia del comune e sottoposte soltanto al previo accertamento di conformità da parte del Ministero dei lavori pubblici (oggi, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti), titolare unico, in quel tempo, del potere di accertare che le opere non fossero in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore e del regolamento edilizio vigenti nel territorio comunale.

Successivamente, la materia ha trovato un nuovo assetto con i due decreti, del ’77 e del ’98, di trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle regioni ed agli enti locali (art. 81, d.P.R. n. 616/1977, art. 55, d.lgs. n. 112/1998), e con il d.P.R. n. 383/1994. Il testo unico dell’edilizia (all’art. 7, lett. b) conferma questa sistemazione e prevede lo stesso regime per le opere statali e di interesse statale, sancendo per le «opere pubbliche, da eseguirsi da parte delle amministrazioni statali, o comunque insistenti su aree del demanio statale», e per le «opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi da parte», non solo «degli enti istituzionalmente competenti», ma anche «dei concessionari di pubblici servizi», la sottrazione al regime (ordinario) del permesso edilizio e l’assoggettamento, invece, al procedimento dell’accertamento di conformità (alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie)[41], disciplinato, oggi, dal predetto decreto n. 383/1994 (e successive modifiche), ove è stabilito che tale verifica sia fatta dallo Stato d’intesa con la regione interessata, entro sessanta giorni dalla richiesta dell’amministrazione competente, la quale, peraltro, se diversa dalla regione o dall’ente locale, deve, ai sensi dell’art. 55, co. 1, d.lg. n. 112/1998, presentare annualmente alla regione, prima dell’avvio della procedura di localizzazione dell’opera, un quadro complessivo delle opere e degli interventi, compresi nella propria programmazione triennale, che intende realizzare nel territorio regionale[42].

L’inclusione (anche) delle «opere pubbliche di interesse statale» che devono essere realizzate dai «concessionari di pubblici servizi» consente – secondo un parte della dottrina[43]e della giurisprudenza[44] – di assoggettare al regime speciale dell’accertamento di conformità (pure) le opere da eseguirsi da parte di soggetti privati (associazioni, fondazioni, società per azioni), quando agiscano come organi indiretti delle amministrazioni pubbliche e, in virtù del rapporto di sostituzione che (nell’esercizio di talune funzioni amministrative) si realizza con la concessione di costruzione (o di costruzione) e gestione, operino in concreto (o in senso lato) al posto dell’ente pubblico per la realizzazione di un’opera funzionale al perseguimento di un interesse generale. Si pensi, al riguardo, alle opere di interesse nazionale, come, per esempio, gli elettrodotti e le linee elettriche, oppure le autostrade, realizzate e gestite da Enel S.p.A. o da Autostrade per l’Italia S.p.A.: da società, cioè, private, ovvero privatizzate (sostanzialmente), non essendo (più) sottoposte, direttamente o indirettamente, all’influenza dominante dello Stato o di altro ente pubblico[45].

Resterebbero quindi escluse dall’ambito applicativo della disposizione le opere di interesse statale realizzate da soggetti privati che non agiscano in veste di concessionari di un pubblico servizio. In linea con le definizioni di «opera pubblica» ed «opera (privata) di pubblico interesse ovvero di pubblica utilità», che sono state illustrate nella nota iniziale di questo contributo, in queste ipotesi, l’opera potrebbe tutt’al più essere inquadrata nella categoria, non dell’opera pubblica “in senso stretto” o “in senso lato”, bensì dell’opera privata di interesse pubblico o di utilità pubblica, che, sebbene abbia anch’essa un regime giuridico di maggior favore rispetto all’opera privata in senso proprio, non può tuttavia essere assimilata tout court all’opera pubblica[46], se non in forza di un’espressa disposizione di legge, non essendo possibile a tal fine ricorrere né all’analogia legis né all’analogia iuris[47].

Se si volesse invece applicare il regime speciale dell’accertamento di conformità anche a queste ultime opere, si dovrebbe aderire ad una nozione di opera pubblica solo in senso “oggettivo” e “finalistico”, non considerando il requisito “soggettivo” come elemento costitutivo necessario del concetto giuridico di “opera pubblica”, così come, d’altra parte, potrebbe dirsi in effetti per l’altra fattispecie, ossia quella delle «opere pubbliche costruite su aree del demanio statale», considerato che su tale demanio potrebbe edificare anche un privato, solo a condizione, però, che sia destinatario di una concessione ad hoc[48].

Per quanto riguarda, invece, i profili procedurali di questo regime speciale, qualora l’intesa sulla localizzazione e realizzazione delle opere pubbliche statali e di interesse statale non si perfezioni nel termine stabilito, oppure l’accertamento di conformità dia esito negativo, in quanto l’opera che si intende realizzare è difforme rispetto alle previsioni dello strumento urbanistico, il decreto del ’94, all’art. 3, prevede la convocazione di una conferenza di servizi e rimanda per intero, dopo le modifiche intervenute nel 2019 (che hanno abrogato tutti i commi dell’art. 3 successivi al primo), alla disciplina generale della conferenza contenuta nella legge n. 241 del 1990.

La disposizione ha solo cura di precisare, al fine di salvaguardare le attribuzioni urbanistiche degli enti istituzionalmente competenti in materia, che alla conferenza (questa volta) sono invitati a partecipare, oltre alla regione, anche il comune o i comuni interessati, nonché le altre amministrazioni dello Stato e gli enti comunque tenuti ad adottare atti di intesa, o a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta, ove previsti dalle leggi statali e regionali[49].

La determinazione finale di approvazione del progetto dell’opera, ove espressa in conferenza dai rappresentanti delle amministrazioni partecipanti, se difforme dalle previsioni dello strumento urbanistico, assume (anche) il valore di variante al piano e sostituisce, ad ogni effetto, tutti gli atti di assenso comunque previsti dalla normativa[50]. Nel caso, però, di variazione dello strumento urbanistico vigente, l’amministrazione procedente è tenuta a predisporre, insieme al progetto, uno specifico studio sull’incidenza urbanistico-territoriale e ambientale dell’opera e sulle misure necessarie per il suo inserimento nel territorio comunale (art. 55, co. 2, del d.lgs. n. 112/1998), perché, in caso contrario, la procedura localizzativa risulterà viziata ed il relativo atto finale annullabile[51].

La conferenza non deve più registrare l’unanimità dei consensi dei soggetti partecipanti, com’era previsto all’origine dell’istituto[52]. Oggi, infatti, anche se una o più amministrazioni abbiano espresso il proprio dissenso, l’amministrazione statale procedente, dopo aver valutato le specifiche risultanze della conferenza e tenuto conto delle posizioni prevalenti espresse, può comunque assumere una determinazione finale favorevole alla localizzazione dell’opera. Sicché l’eventuale intervento, unilaterale ed autoritativo, da parte del Governo, disciplinato dall’art. 81, co. 4, del d.P.R. n. 616/1977, prima collegato all’ipotesi in cui non si fosse raggiunto un accordo tra tutti i partecipanti[53], adesso può aversi soltanto quando il dissenso, nell’ambito della conferenza di servizi, sia espresso dalla regione interessata, oppure da un’amministrazione dello Stato preposta alla tutela di interessi «sensibili», quali l’ambiente ed il paesaggio, il patrimonio storico ed artistico, la salute e la pubblica incolumità[54].

La procedura straordinaria prevista dal decreto del ’77[55] consente in particolare al Consiglio dei ministri in via autoritativa e unilaterale, in virtù di un interesse statale prevalente su quello regionale e locale, nel caso in cui l’intesa con la regione interessata non si realizzi entro il termine prefissato, di decidere sulla localizzazione dell’opera pubblica in variante al piano regolatore con una deliberazione che deve essere adottata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del ministro o dei ministri competenti, sentita la Commissione parlamentare per le questioni regionali. In questo caso, è il provvedimento governativo, che ha natura di atto di alta amministrazione[56], a determinare la variazione automatica del piano urbanistico[57].

Questo meccanismo di superamento del dissenso in via unilaterale da parte del Governo è stato tuttavia criticato, già alla fine degli anni ’70, da una parte della dottrina, che, in alternativa ad esso, avrebbe preferito la soluzione, prospettata dalla commissione ministeriale di studio presieduta (allora) da M.S. Giannini, che intendeva affidare la decisione ultima sulla localizzazione di siffatte opere al Parlamento (mediante atto legislativo), in modo tale che il contrasto fosse discusso ed approfondito da tutte le forze politiche[58].

Non si comprende, poi, in effetti, perché il legislatore del 2019 abbia abrogato il comma 2 ed il comma 3 dell’art. 81 del decreto n. 616 del ’77, ma abbia mantenuto inspiegabilmente in vita il comma 4, che mal si concilia con la disciplina contenuta nel decreto n. 383 del ’94 e nella legge n. 241 del ’90, già illustrata, ove si prevedono, intanto, termini diversi per l’intesa. L’intesa tra Stato e regione si deve infatti realizzare entro sessanta giorni dalla richiesta da parte dell’amministrazione statale competente, anziché entro novanta giorni dal ricevimento da parte delle regioni del programma di intervento. Ma soprattutto, quel che è più importante, anche in virtù della giurisprudenza costituzionale (di cui si darà subito conto), impone al Governo di trovare una soluzione condivisa nel corso di almeno due distinte riunioni prima di poter decidere unilateralmente in una terza riunione, alla quale possono partecipare i Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.

Il sistema delineato dal decreto del ’77 non appare, infatti, in linea con il nuovo assetto dei rapporti e delle competenze tra Stato, regioni ed enti locali, quello introdotto dalla riforma costituzionale del 2001 (che, è noto, ha potenziato l’autonomia delle regioni e degli enti locali), soprattutto alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale. L’intervento unilaterale del Governo, in questo caso, verrebbe prefigurato come mera conseguenza automatica del mancato raggiungimento dell’intesa con la regione, sebbene entro un termine non breve, e tale meccanismo non sembra conforme al principio di leale collaborazione, ovvero, rispettoso delle sfere di competenza regionale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza dell’11 luglio 2012, n. 179, richiamati diversi suoi precedenti e pronunciatasi su un caso analogo – ossia sulla disciplina contenuta nell’art. 14-quater, co. 3 (successivamente modificato), della l. n. 241/1990, avente ad oggetto il superamento del dissenso espresso, in sede di conferenza, da una regione (o da una provincia autonoma) in una delle materie di propria competenza – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui aveva previsto che, nel caso di dissenso espresso nella sede della conferenza di servizi da una regione (o da una provincia autonoma), in una delle materie di propria competenza, ove non fosse stata raggiunta l’intesa, entro il termine breve di trenta giorni, il Consiglio dei ministri avrebbe potuto deliberare unilateralmente, in forza del proprio potere sostitutivo, sia pure con la partecipazione dei presidenti delle regioni (o delle province autonome) interessate. Secondo la Corte, la previsione dell’intesa, imposta dai principi di sussidiarietà e leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma che contenga una «drastica» disposizione sulla decisività della volontà di una sola parte, essendo necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze»[59]. Solo nell’ipotesi di ulteriore esito negativo di tali procedure finalizzate all’accordo, può essere rimessa al Governo una decisione unilaterale[60], come nel caso relativo alla disciplina del procedimento di certificazione dei siti idonei all’insediamento degli impianti nucleari[61]. La norma impugnata, invece – prima delle ultime modifiche apportate al predetto comma 3, da parte del d.l. n. 179/2012 (convertito con modifiche dalla l. n. 221/2012), che si sarebbe, sul punto, allineato alle indicazioni della Consulta – conteneva una drastica previsione di superamento unilaterale dell’intesa da parte dello Stato, ritenuta dalla giurisprudenza costante della Corte come inidonea ad assicurare il rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione. Non era stato previsto, infatti, alcun meccanismo procedurale che potesse consentire un superamento concordato del dissenso. L’intervento unilaterale dello Stato non si presentava, quindi, come ipotesi estrema, che si verifica allorché l’esperimento di ulteriori procedure bilaterali si sia rivelato inefficace, ma era previsto come conseguenza automatica del mancato raggiungimento dell’intesa, in relazione alla quale, peraltro, era stato fissato un termine molto ristretto, posto che il Consiglio dei ministri avrebbe potuto deliberare unilateralmente in materie di competenza regionale, allorquando, in seguito al dissenso espresso in conferenza dall’amministrazione regionale competente, non si fosse raggiunta l’intesa con la regione interessata nei successivi trenta giorni: non solo il termine era così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, ma dal suo inutile decorso si faceva automaticamente discendere l’attribuzione al Governo del potere di deliberare unilateralmente, senza prevedere adeguate forme di coinvolgimento delle regioni. Né, d’altro canto – precisa la Consulta – la previsione che il Consiglio dei ministri deliberi, in esercizio del proprio potere sostitutivo, con la partecipazione dei presidenti delle regioni o delle province autonome interessate, «può essere considerata valida sostituzione dell’intesa, giacché trasferisce nell’ambito interno di un organo costituzionale dello Stato un confronto tra Stato e Regione, che deve necessariamente avvenire all’esterno, in sede di trattative ed accordi, rispetto ai quali le parti siano poste su un piano di parità»[62]. Sicché è intervenuta la modifica legislativa del 2012, che, nella logica di garantire adeguatamente le regioni all’interno di un procedimento diretto a favorire il raggiungimento dell’intesa con lo Stato, aveva previsto (al co. 3 dell’art. 14-quater) l’indizione di tre distinte riunioni, a distanza di trenta giorni l’una dall’altra, allo scopo di superare i punti di dissenso e di favorire l’individuazione di una soluzione condivisa, anche volta a modificare il progetto originario, rimettendo al Governo il potere di decidere unilateralmente, sia pure con la partecipazione dei presidenti delle regioni o delle province autonome interessate, solo nell’ipotesi di ulteriore esito negativo di tali ripetute trattative. Oggi, dopo le ultime modifiche, le riunioni previste prima che il Consiglio dei Ministri decida unilateralmente sono soltanto due e vanno fissate non più entro 30 ma entro 15 giorni (art. 14-quinquies). Ci si potrebbe a questo punto domandare, sulla base della giurisprudenza costituzionale, se la riduzione (da tre a due) del numero delle riunioni in cui trovare una soluzione condivisa e soprattutto la contrazione (da trenta a quindici giorni) dell’intervallo temporale tra le due riunioni possa anch’esso considerarsi un sistema in linea con i principi costituzionali prima richiamati a garanzia delle prerogative regionali in materia.

Per quanto riguarda, invece, le modalità del procedimento d’intesa, poiché il decreto del ’94 non le specifica, la norma, secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, si considera osservata allorquando si sia comunque realizzata la concordanza delle volontà delle parti interessate[63], anche se l’atto d’intesa da parte della regione intervenga dopo l’approvazione del progetto da parte dell’amministrazione statale[64], a condizione, però, che l’assenso venga dato per iscritto e non in forma tacita, né per facta concludentia, in modo tale che il consenso e la conformità dell’opera alla disciplina urbanistica risultino in modo inequivocabile[65].

Il decreto del ’94 non prevede, però, quando l’opera sia conforme al piano urbanistico, la consultazione del comune come condizione necessaria per il raggiungimento dell’intesa tra lo Stato e la regione[66]. Il che parrebbe comprimere le attribuzioni comunali in materia. A meno che, pertanto, la regione, in sede di regolamentazione del subprocedimento per il raggiungimento dell’intesa con lo Stato, non preveda il parere obbligatorio del comune[67], quest’ultimo potrà intervenire soltanto nella fase (successiva ed eventuale) della conferenza di servizi (art. 3), con poteri, questa volta, non meramente consultivi ma negoziali[68]. In ogni caso, il nostro diritto legislativo si sarebbe ormai orientato da tempo nel senso di comprimere le attribuzioni comunali nel governo del territorio, in quanto il dissenso dei municipi è più facilmente superabile nella conferenza di servizi, seppur muovendosi nella logica tracciata dalla Corte costituzionale del rispetto dei principi di sussidiarietà, leale collaborazione e proporzionalità[69].

Rientra, comunque, nella discrezionalità dello Stato e della regione la decisione di convocare la conferenza di servizi anche all’inizio del procedimento finalizzato al raggiungimento dell’intesa, non già soltanto (come vedremo subito dopo) nel momento (successivo) in cui questa fallisca o si riscontri la difformità dell’opera, consentendo così ai comuni interessati di partecipare fin dall’origine all’anzidetto procedimento, che altrimenti (almeno nella prima fase) coinvolgerebbe unicamente Stato e regione[70].

Diversamente, poi, da quanto era previsto nel terzo comma (ormai abrogato) dell’art. 81, del decreto del ’77[71], lo Stato e la regione non possono più, tramite l’intesa, localizzare l’opera in modo difforme rispetto alle prescrizioni dello strumento urbanistico, in quanto un simile risultato è conseguibile soltanto nella successiva fase procedimentale della conferenza di servizi[72], alla quale (si è prima detto) partecipano pure gli enti locali interessati, che, in questo modo, hanno visto in ogni caso accresciuta l’importanza del loro ruolo rispetto alla disciplina previgente, in cui gli veniva assegnata solo una funzione consultiva[73].

Riguardo, infine, alla natura giuridica della conferenza di servizi in esame, questa è una conferenza decisoria, in quanto – tenendo conto delle norme ormai abrogate (dal 2019) contenute nei commi 2, 3 e 4 dell’art. 3 del decreto n. 383/1994 – i soggetti partecipanti sono chiamati a valutare il progetto definitivo dell’opera, nel rispetto degli eventuali vincoli archeologici, storici, artistici ed ambientali, ad approvarlo, con la facoltà di apportarvi, ove occorra, le modifiche che si rendano opportune, senza che queste comportino la necessità di una nuova deliberazione del soggetto proponente, a condizione, però, che la modifica non comporti uno «stravolgimento del progetto originario»[74].

Per quanto riguarda, infine, i soggetti partecipanti alla conferenza, questi, come si è già visto a proposito degli accordi tra le amministrazioni pubbliche, devono essere effettivamente muniti del potere di rappresentanza[75], potendo validamente esprimere la volontà degli enti rappresentati soltanto in relazione a quei beni e a quegli interessi che rientrino nelle proprie competenze, oppure in virtù di precise direttive impartite o di specifiche deleghe conferite dall’organo rappresentato (dopo un esame preventivo del progetto), in modo da non sovvertire l’ordine legale o regolamentare delle competenze tra gli organi dell’ente[76]. Così, nel caso del sindaco[77], occorre che sia rispettata l’ordinaria competenza del consiglio comunale in ordine alla pianificazione urbanistica ed alle eventuali deroghe[78], essendo preferibile, nel momento in cui la conferenza si riunisce, che l’organo consiliare abbia già deliberato sul progetto di localizzazione dell’opera pubblica, riservando, tuttavia, al sindaco un certo margine di scelta nel corso delle trattative, soltanto al fine di apportare al progetto quelle modifiche di lieve entità che si rendano necessarie o semplicemente opportune in virtù del confronto dialettico con i rappresentanti delle altre amministrazioni partecipanti alla conferenza[79].

Questo modello di conferenza di servizi si profila, peraltro, come istituto speciale rispetto alla figura generale di conferenza disciplinata dagli artt. 14 e seguenti della legge n. 241/1990, come risultava peraltro dal vecchio art. 14-quater, co. 3, della medesima legge, che escludeva espressamente dal proprio ambito di applicazione le opere di interesse statale, oltre alle infrastrutture ed agli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale. La conferenza in esame, infatti – al di là della funzione tipica di qualunque conferenza, di coordinamento dei poteri e di ponderazione effettiva degli interessi coinvolti, di concentrazione e di semplificazione dei procedimenti, nel rispetto delle attribuzioni delle singole amministrazioni coinvolte[80] – ha ad oggetto specificamente opere statali e di interesse statale e produce l’effetto di modificare automaticamente il piano regolatore, sostituendosi in tal modo alla procedura ordinaria di variante.

Ma l’effetto di variante (o l’effetto più limitato di proposta di variante) dello strumento urbanistico può scaturire anche da altre figure speciali di conferenza di servizi (alla quale partecipano tutte le amministrazioni interessate), come, per esempio, quelle previste e disciplinate dalla normativa sugli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili (art. 12, d.lgs. n. 387/2003; artt. 4 ss., d.lgs. n. 28/2011), o sullo sportello unico per le attività produttive (art. 25, co. 2, lett. g, d.lgs. n. 112/1998; art. 8, d.P.R. n. 160/2010), oppure sulle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici (art. 87, d.lgs. n. 259/2003, recante il codice delle comunicazioni elettroniche).

Vale la pena a questo punto domandarsi se il risultato di variante al piano urbanistico sia conseguibile anche attraverso la figura generale di conferenza di servizi disciplinata dalla legge n. 241/1990. Al riguardo si osserva che nella legge generale sul procedimento non v’è una norma espressa che attribuisca alla determinazione motivata di conclusione della conferenza (adottata dall’amministrazione procedente all’esito della stessa) valore di variante, ma tutt’al più l’effetto (più limitato) di sostituzione a ogni effetto di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati (art. 14-quater, co. 1). La questione non si ritiene che possa essere risolta facendo riferimento al combinato disposto degli articoli 10 e 19, del d.P.R. n. 327/2001, recante il testo unico sull’espropriazione per pubblica utilità, in quanto dalla lettura di dette norme si può dedurre soltanto che, quando l’opera da realizzare non risulti conforme alle previsioni urbanistiche, la variante al piano regolatore può essere sì disposta (anche) mediante una conferenza di servizi (oltre che un «accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale»), ma a condizione che «la legislazione vigente» attribuisca all’istituto il valore di «variante al piano urbanistico»[81]. Le predette norme, cioè, pur prevedendo in astratto la possibilità di utilizzare lo strumento della conferenza di servizi per realizzare opere pubbliche (o di pubblica utilità) non previste dal (o non conformi al) piano regolatore, non introducono in concreto una disciplina ad hoc, limitandosi a rinviare alla legislazione vigente, di modo che l’istituto rimane regolato in via generale dalla legge n. 241/1990[82]. A ben vedere, tuttavia, non pare che vi possano essere ragioni realmente ostative a riconoscere in generale al provvedimento conclusivo della conferenza di servizi, disciplinata dalla legge n. 241/1990 e avente ad oggetto la localizzazione di un’opera di interesse pubblico non conforme al piano urbanistico, significato ed effetto di variante al piano urbanistico, a condizione, però, che questa decisione venga assunta con il consenso del comune e della regione[83], anche sulla base delle posizioni prevalenti espresse nella conferenza dalle altre amministrazioni interessate. Se poi la regione o le amministrazioni preposte alla cura degli interessi «sensibili» dissentono, opererà il meccanismo (di superamento del dissenso) disciplinato dall’art. 14-quinquies, di cui si è detto prima. Il problema, infatti, non è tanto quello di un’espressa previsione di legge sul punto, quanto piuttosto quello di salvaguardare le attribuzioni urbanistiche dei due enti (comune e regione) e le competenze urbanistiche del consiglio comunale, come hanno già sottolineato, d’altronde, la Corte costituzionale ed il Consiglio di Stato. La prima, in particolare, ha inteso tutelare le prerogative regionali in materia urbanistica, dichiarando l’illegittimità costituzionale della normativa statale sullo sportello unico per le attività produttive, nella parte in cui aveva previsto, laddove il progetto sull’insediamento produttivo fosse stato in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico, che la determinazione assunta all’esito della conferenza di servizi costituisse, anche nell’ipotesi di dissenso della regione, proposta di variante, sulla quale si sarebbe pronunciato in via definitiva il consiglio comunale. In questo modo, la disposizione ledeva – secondo la Corte – le attribuzioni urbanistiche della regione, dal momento che il piano regolatore, nella fattispecie de qua, si sarebbe potuto modificare senza il consenso della regione interessata[84]. Il Consiglio di Stato, invece, ha inteso salvaguardare le competenze urbanistiche del consiglio comunale, affermando che, in mancanza del previo assenso del predetto organo consiliare, il consenso del sindaco, espresso nella conferenza di servizi su un progetto non conforme alle previsioni del piano regolatore, non è sufficiente a far assumere alla determinazione conclusiva significato ed effetto di variante urbanistica[85], ma tutt’al più “proposta di variante”[86].

La specialità della conferenza di servizi disciplinata dal decreto del ’94, avente ad oggetto opere statali e di interesse statale in variante allo strumento urbanistico, esclude, quindi, il fenomeno dell’abrogazione implicita della norma da parte della legge n. 241/1990, che, in ogni caso, oggi, ne integra la disciplina, come si è visto[87].

Il regime finora descritto delle opere statali e di interesse statale non si applica, comunque, ai procedimenti di localizzazione e realizzazione di talune tipologie di opere pubbliche di interesse nazionale, come, per esempio, gli insediamenti produttivi ritenuti prioritari e rilevanti per lo sviluppo economico e sociale del paese[88], gli impianti di produzione di energia elettrica[89], alimentati anche da fonti rinnovabili[90], le infrastrutture lineari energetiche (gasdotti, elettrodotti, oleodotti e reti di trasporto di fluidi termici)[91], le centrali termoelettriche ed elettronucleari e gli impianti di gestione del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi[92], oppure le opere destinate alla difesa nazionale[93], in quanto tutte queste opere[94] sono soggette a regimi diversi, altrettanto speciali, che si caratterizzano, sia per la complessità dei procedimenti, che negli ultimi anni il legislatore ha tuttavia tentato di razionalizzare, semplificare, velocizzare ed unificare, sia per la preminenza degli interessi statali che risultano inevitabilmente coinvolti[95]. Sono indicativi al riguardo i recenti decreti legge (convertiti in legge) n. 77/2021 e n. 36/2022, che hanno introdotto numerose e articolate misure di potenziamento, accelerazione e snellimento (tra cui nuove varianti automatiche o semplificate agli strumenti urbanistici vigenti[96]), delle procedure di localizzazione e realizzazione di opere, impianti e infrastrutture necessari alla realizzazione di obiettivi strategici dell’Unione europea per la transizione ecologica e energetica del Paese compresi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e nel Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC).

4. Opere comunali

Anche le opere pubbliche deliberate dal consiglio o dalla giunta comunale sono sottratte alla disciplina ordinaria dei titoli abilitativi, come afferma a chiare lettere l’art. 7 del testo unico dell’edilizia, ma devono essere assistite dalla verifica della conformità dell’opera e dalla validazione del progetto da parte del responsabile del procedimento[97].

La deliberazione comunale di approvazione del progetto sostituisce quindi il permesso di costruire[98], quando, invece, fino alla metà degli anni ’90, era controverso se il comune avesse dovuto o meno rilasciare a sé stesso il permesso edilizio per costruire una determinata opera, in quanto la legge urbanistica del ’42 non aveva previsto uno specifico meccanismo autorizzatorio per la realizzazione delle opere pubbliche comunali.

Su tale questione la giurisprudenza si era in particolare divisa. Secondo l’orientamento prevalente del Consiglio di Stato, condiviso anche da alcuni TAR, si riteneva che i comuni non fossero tenuti a munirsi della concessione edilizia per le opere dallo stesso deliberate, sostenendo che gli organi deliberativi del comune, nel momento in cui approvano il progetto, assolvono anche al compito di controllare che l’opera sia conforme agli strumenti urbanistici, alla legge ed ai regolamenti, oltre che alle esigenze dell’igiene e dell’estetica[99].

Diversamente, altri TAR e la Cassazione penale ritenevano che, anche nel caso in cui l’opera fosse stata deliberata dal consiglio comunale, fosse necessario il preventivo e formale rilascio della concessione edilizia da parte del sindaco, il quale aveva il compito di verificare (attraverso l’esercizio del proprio potere di controllo nella distinta procedura culminante nel rilascio della concessione) che l’opera deliberata dall’organo consiliare fosse conforme alla normativa vigente[100].

La querelle giurisprudenziale è stata definitivamente risolta dall’art. 2, co. 60, della l. n. 662/1996, che ha stabilito che la deliberazione con la quale il consiglio o la giunta comunale approvano il progetto o autorizzano l’opera ha i «medesimi effetti della concessione edilizia»[101], purché i progetti siano «corredati da una relazione a firma di un progettista abilitato, che attesti la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonché l’esistenza dei nulla osta di conformità alle norme di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesistiche».

Il comma 60 è stato poi abrogato dall’art. 136, co. 2, lett. h), del presente testo unico dell’edilizia, ma il tenore sostanziale della disposizione è stato riprodotto nella lett. c) dell’articolo in commento, che sottrae in tal modo alla disciplina generale sui titoli abilitativi le opere pubbliche deliberate dal consiglio o dalla giunta comunale, se queste sono corredate dell’atto formale di validazione del progetto, che, similmente a quanto era previsto dal comma 60, è rivolto a verificare, tra le altre cose, anche «la conformità del progetto alla normativa vigente», quindi anche al contenuto del piano urbanistico[102].

Se, invece, il progetto è difforme dallo strumento urbanistico, il comune, ieri come oggi, può seguire la procedura ordinaria oppure una procedura semplificata ed accelerata per l’introduzione della variante al piano regolatore. In quest’ultimo caso, in passato, si applicavano le disposizioni contenute nell’art. 1, co. 4 e 5, della l. n. 1/1978, ove era previsto che l’approvazione del progetto non conforme alle previsioni del piano urbanistico, in presenza delle condizioni indicate dalla norma, o «non comportava la necessità di varianti» allo strumento urbanistico[103], oppure ne «costituiva essa stessa variante»[104]. Oggi – in seguito all’abrogazione dei predetti co. 4 e 5, da parte dell’art. 136, co. 2, lett. d), cit. – si applica, invece, l’art. 19, del testo unico sull’espropriazione (d.P.R. n. 327/2001), che attribuisce alla delibera di approvazione da parte del consiglio comunale (quale unico organo legittimato, ai sensi dell’art. 42, co. 2, lett. b, d.lgs. n. 267/2000), tanto del «progetto preliminare» quanto di quello «definitivo», che non sia conforme al piano regolatore, valore di «variante allo strumento urbanistico», e tale delibera «si intende approvata dalla regione» (o dall’ente da questa delegato all’approvazione del piano urbanistico) se questa «non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni» (decorrente dalla ricezione della determinazione consiliare e della relativa completa documentazione), anche se (in quest’ultimo caso) gli effetti giuridici della delibera e quindi della variante al piano rimangono comunque sospesi fino alla successiva seduta del consiglio comunale, che dovrà disporre espressamente l’efficacia della precedente deliberazione[105].

La stessa procedura di variante semplificata, in cui l’approvazione regionale si può avere anche attraverso il meccanismo del silenzio assenso (decorsi 90 giorni dalla ricezione della delibera del consiglio comunale e della relativa completa documentazione) e la variante produce effetto nella seduta successiva del consiglio comunale (che dispone l’efficacia della precedente delibera), è prevista pure dall’art. 9, co. 5, del t.u. sull’espropriazione, con riferimento alle opere pubbliche o di pubblica utilità diverse da quelle originariamente previste nel piano urbanistico, ma «insistenti sulla stessa area soggetta al vincolo preordinato all’esproprio»[106].

Per quanto riguarda l’oggetto della deliberazione consiliare, si osserva ancora come la norma equipari, ai fini della produzione dell’effetto di variante al piano urbanistico, l’approvazione del «progetto preliminare» all’approvazione del «progetto definitivo». Tuttavia, se si vuole che l’approvazione produca anche l’effetto di dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, è necessario che il consiglio comunale approvi il «progetto definitivo», in quanto – ai sensi dell’art. 12, co. 1, lett. a), del t.u. sull’espropriazione – è soltanto l’approvazione del progetto definitivo che comporta (implicitamente) la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera[107].

Al fine poi di accelerare la realizzazione di progetti definitivi per «infrastrutture di trasporto, viabilità e parcheggi, tese a migliorare la qualità dell’aria e dell’ambiente nelle città», l’art. 98, co. 2, del vecchio codice dei contratti pubblici del 2006, stabiliva che la loro approvazione, da parte del consiglio comunale, aveva il valore di «variante urbanistica a tutti gli effetti». Ma la norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, con la sentenza 23 novembre 2007, n. 401, in quanto, pur se presenta collegamenti con la materia dell’ambiente per le finalità perseguite, che sono dichiaratamente quelle del miglioramento della «qualità dell’aria e dell’ambiente nelle città», afferisce, riguardo al suo peculiare oggetto, prevalentemente all’ambito materiale del governo del territorio, di competenza ripartita Stato-regioni, sul quale lo Stato ha soltanto il potere di fissare i principi fondamentali, spettando invece alle regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio, secondo quanto stabilito dall’art. 117, terzo comma, ultimo periodo, della Costituzione. La disposizione in questione, viceversa, per il suo contenuto precettivo del tutto puntuale, secondo la Consulta non lascia alcuno spazio di intervento alle regioni, in quanto l’affermazione secondo cui «l’approvazione dei progetti definitivi costituisce variante urbanistica a tutti gli effetti» non è passibile di ulteriore svolgimento da parte del legislatore regionale, con la conseguente compromissione della competenza che spetta alle regioni nella materia dell’urbanistica e quindi dell’assetto del territorio. La norma, peraltro, avrebbe potuto essere considerata illegittima anche per un ulteriore profilo, in quanto, tenendo conto soprattutto di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 206/2001 (di cui si è già discusso nel precedente paragrafo), avrebbe leso, sia pure con riferimento ad opere finalizzate alla tutela dell’ecosistema e dell’ambiente, le attribuzioni urbanistiche della regione, privandola del potere di approvare o meno la variante.

  1. Il presente scritto, destinato agli Studi in onore di Filippo Salvia, a cura di G. Corso e M. Immordino, riprende, con modifiche e aggiornamenti, un precedente lavoro (C. CELONE, Attività edilizia delle pubbliche amministrazioni, in Testo Unico dell’Edilizia, a cura di M. A. Sandulli, con il coordinamento di S. Bellomia – M. R. Spasiano – G. Mari, Milano, III ed., 2015, 218 ss.).
  2. Per “opera pubblica” la dottrina prevalente sembra intendere «il risultato immediato di qualsiasi attività materiale (costruttiva e non) consistente in una modificazione durevole del mondo reale (elemento oggettivo), di cui lo Stato o altro ente pubblico risulta titolare (elemento soggettivo), destinato a soddisfare direttamente interessi generali della collettività (elemento finalistico)» (M.A. Sandulli, Il concetto di opera pubblica e di lavoro pubblico, in E. Picozza – M.A. Sandulli – M. Solinas, I lavori pubblici, in G. Santaniello (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, vol. X, Padova, 1990, 9 ss.; M. Pallottino, voce Opere e lavori pubblici, in Dig. Disc. Pubbl., X, 1995, 340 ss.). Perché l’opera sia definita pubblica non è tuttavia necessario ­– secondo una parte della dottrina ­(P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Torino, 2020, 289; G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 370-371) – che sia di proprietà di un’amministrazione pubblica “in senso stretto”, ossia di un ente pubblico, potendo anche appartenere ad una “impresa pubblica” o ad un “organismo di diritto pubblico”, a condizione, però, che sia funzionalizzata ad un interesse pubblico. Il concetto di “opera pubblica” va poi distinto da quello limitrofo di “opera (privata) di pubblico interesse o di pubblica utilità”, in cui l’opera, invece, appartiene ad un soggetto privato (che ne è proprietario), ma, in ragione del fatto di essere destinata a soddisfare bisogni della collettività, può essere assoggettata ad un regime giuridico speciale, uguale o similare a quello delle opere pubbliche. Distinto ma intrinsecamente collegato al concetto di “opera pubblica” è infine quello di “lavoro pubblico”: quest’ultimo viene infatti identificato con le attività di «costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro, manutenzione di opere», mentre, quello di “opera” con «il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica», e comprende sia le opere che sono «il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile, […] di difesa e di presidio ambientale, di presidio agronomico e forestale, paesaggistico e di ingegneria naturalistica» (art. 3, co. 1, lett. nn) e pp), cod. appalti, di cui al d.lgs. n. 50/2016). Il lavoro pubblico è quindi l’attività tecnico-materiale necessaria alla realizzazione dell’opera, mentre l’opera è il risultato finale di tale attività. L’opera può dunque consistere tanto in una costruzione ex novo, quanto in una demolizione (per esempio, abbattimento di un ponte pericolante), in una ristrutturazione, in una modificazione di un ambiente naturale (per esempio, bonifica di un’area paludosa, riqualificazione ambientale degli alvei di un fiume).
  3. In questi termini, F. Salvia – C. Bevilacqua – N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, 4° ed., Milano, 2021, 62 ss., 104 ss., 159 ss., 255 ss.
  4. Sui grandi eventi, si v., di recente, per esempio, la legge di bilancio per il 2022, che, al fine di assicurare gli interventi funzionali alle celebrazioni del Giubileo della Chiesa cattolica per il 2025 nella città di Roma e taluni di quelli inclusi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), prevede la nomina di un Commissario straordinario del Governo, in carica fino al 31 dicembre 2026, al quale, limitatamente agli interventi urgenti di particolare criticità, è attribuito il potere di operare a mezzo di ordinanze in deroga a ogni disposizione di legge diversa da quella penale, salvo il rispetto del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (di cui al d. lgs. n. 159/2011), del codice dei beni culturali e del paesaggio (di cui al d. lgs. n. 42/2004), nonché dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. Ordinanze, quelle adottate dal Commissario straordinario, che sono immediatamente efficaci e sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale (art. 1, comma 425, legge n. 234/2021).
  5. Con l’espressione “piani speciali” si intende fare riferimento a tutti quei piani introdotti nel tempo dalla legislazione di settore preordinati al soddisfacimento di interessi pubblici settoriali, che si sovrappongono o si intrecciano con il sistema della pianificazione urbanistica ordinaria. Possono rientrare in questa categoria per esempio: i piani di zona per l’edilizia economica e popolare, i piani per il recupero del patrimonio edilizio esistente, i piani città, i piani della rete commerciale, i piani per gli insediamenti produttivi, i piani regolatori portuali, i piani dei trasporti, i piani energetici.
  6. Come sottolinea, di recente, anche E. Boscolo, Il governo del territorio dopo la legge di semplificazione, in Giurisprudenza Italiana, maggio 2021, 1257, quando, a proposito del decreto semplificazioni n. 76/2020, rimarca che ha inciso profondamente sulla struttura del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001) con una serie di interventi puntuali, mentre, sul versante dell’urbanistica, costituisce (al pari della legge di conversione) l’ennesima occasione mancata «rispetto all’esigenza, comunemente avvertita, di un rinnovato catalogo di principi in grado di aggiornare la trama fortemente datata della legge urbanistica del 1942 (e, in primis, lo schema di piano post-razionalista imperniato sul binomio zoning-standard, pensato in stagioni improntate a modelli espansivi)». L’adeguamento dell’intero impianto dogmatico-disciplinare del diritto urbanistico sarebbe reso indifferibile – secondo l’Autore (E. Boscolo, Evoluzione storica e dimensioni attuali della pianificazione comunale. Il diritto urbanistico oltre la tradizione: efficienza insediativa e tutela dei beni comuni territoriali, Torino, 2017, abstract) – dall’estensione del novero delle funzioni assunte dal piano regolatore generale (che oltre alla tradizionale funzione di disciplina degli usi del territorio e di regolazione dei processi insediativi, allo scopo di assicurare razionalità nelle trasformazioni urbane, da orientare necessariamente con sempre maggior vigore in direzione della rigenerazione urbana e del riuso del già costruito, nel periodo più recente ha assunto anche la funzione di promozione dei valori della sostenibilità ambientale, dell’urbanità e della qualità degli spazi di vita, della coesione sociale e della competitività territoriale) e dal conseguente «mutamento della struttura interna del piano e, prima ancora, della procedura di pianificazione entro cui, anche grazie al riconoscimento di spazi sempre crescenti a nuove forme di partecipazione, devono trovare un difficile bilanciamento interessi spesso in serrata conflittualità».
  7. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, cit., 369.
  8. Art. 17, co. 3, lett. c), t.u. edilizia. Cfr. sul punto V. Mazzarelli (a cura di), Diritto dell’edilizia, Torino, 2004, 65.
  9. G.F. Ferrari, in Commentario al testo unico dell’edilizia, Aa.Vv., a cura di R. Ferrara – G.F. Ferrari, 2005, 5 ss.; P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, 2° ed., Milano, 2006, 5 ss.; R. Chieppa, Governo del territorio, in Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Aa.Vv., a cura di G. Corso – V. Lopilato, parte speciale, I, Milano, 2006, 448 ss.; F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, 2° ed., Padova, 2012, 21 ss.; P. Stella Richter, Diritto urbanistico, 2° ed., Milano, 2012, 1 ss.; P. Urbani, (a cura di), Le nuove frontiere del diritto urbanistico, Torino, 2013, 90 ss.; F. Salvia – C. Bevilacqua – N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 31-32. Corte cost., 1° ottobre 2003, n. 303; Id., 7 ottobre 2003, n. 307; Id., 19 dicembre 2003, n. 362; Id., 28 giugno 2004, n. 196; Id., 16 giugno 2005, n. 232; Id., 27 luglio 2005, n. 336.
  10. Cfr.: E. Picozza, Il piano regolatore generale urbanistico, Padova, 1983, 186; F. Salvia – F. Teresi, Diritto urbanistico, 7° ed., Padova, 2002, 88; F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 104; N. Assini, Diritto urbanistico (Governo del territorio, ambiente e opere pubbliche), Padova, 2003, 119; V. Mazzarelli, L’urbanistica e la pianificazione territoriale, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Dir. amm. speciale, vol. IV, La disciplina dell’economia, Milano, 2003, 3372; G.C. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, 5° ed., Milano, 2003, 204; P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. …, cit., 52-53; R. De Nictolis, La funzione di pianificazione urbanistica e la localizzazione e realizzazione di opere pubbliche, in Cons. St., 2004, 2268 ss.; N. Centofanti, Diritto a costruire. Pianificazione urbanistica. Espropriazione, Milano, 2005, 457; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, 12a ed., Napoli, 2006, 201.
  11. G. Sala, Il procedimento espropriativo e il vincolo preordinato all’esproprio, in Il testo unico in materia di espropriazione. Commento sistematico al d.p.r. n. 327/2001 come modificato dal d.lgs. n. 302/2002, a cura di G. Sciullo, con la collaborazione di R. Ferrara – G. Sala, Torino, 2004, 57; P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Aa. Vv., a cura di N. Assini – P. Mantini, 2007, 976.
  12. In questi termini, F. Salvia – C. Bevilacqua – N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 109, «Negli ultimi anni, il disegno dell’assetto del territorio (che tradizionalmente ha sempre costituito la caratteristica peculiare degli strumenti urbanistici) tende a perdere consistenza, poiché la funzione di orientamento (o strategica) dei “piani strutturali” dell’ultima generazione, non si traduce sempre in un “abbozzo di assetto del territorio” (come ad es. avviene nei piani di direttive vecchia maniera), ma piuttosto – come annota Boscolo (con riferimento soprattutto alla legge lombarda) – nella indicazione degli “obiettivi in chiave quantitativa più che territoriale da perseguire nel governo del territorio”» (110).
  13. In questo senso: P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, cit., 976; G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, in Manuale di diritto urbanistico, a cura di N. Assini – P. Mantini, Milano, 1997, 782, 792; P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. …, cit., 292-294; F. Salvia – F. Teresi, Diritto urbanistico, cit., 247-248; N. Assini, Diritto urbanistico (Governo del territorio, ambiente e opere pubbliche), cit., 199; G. Sala, Il procedimento espropriativo e il vincolo preordinato all’esproprio, cit., 58; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, cit., 210, 817; Cons. St., IV, 14 luglio 1972, n. 729; Id., 1° giugno 1989, n. 356. In altri termini, si è dato vita al fenomeno inverso della cd. sovrapposizione dei progetti di opere pubbliche ai piani urbanistici (F.C. Rampulla, La sovrapposizione di opere pubbliche agli strumenti urbanistici, in Le Regioni, 1978, 969 ss.; sull’argomento, si v. pure: V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pub., 1985, 397 ss.; R. La Barbera, L’attività amministrativa. Dal piano al progetto, Padova, 1990, 83 ss.; S. Civitarese Matteucci, Sulla dinamica degli interessi pubblici nella pianificazione urbanistica, in Riv. giur. ed., 1992, 155 ss.; G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 784 ss.; A. Contieri, La programmazione negoziata. La consensualità per lo sviluppo. I principi, Napoli, 2000, 24 ss.).
  14. M. Pampanin, Disciplina del territorio e opere statali secondo le scelte del giudice amministrativo, in Le Regioni, 1981, 1012.
  15. Cons. St., IV, 29 agosto 1972, n. 768; Id., IV, 9 dicembre 1983, n. 907; Id., VI, 13 maggio 1985, n. 197; Id., V, 16 ottobre 1989, n. 642; Id., IV, 27 dicembre 1989, n. 991; contra: G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 783 ss.; P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, cit., cit., 975.
  16. F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, cit., 206. Sui concetti di conformità e compatibilità urbanistica del progetto rispetto al piano, si v. P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, 2a ed., Milano, 2006, 162 ss., che propone una differente prospettiva ricostruttiva, favorevole alla compatibilità.
  17. Oggi, i diversi tipi di atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità sono individuati dall’art. 12 del testo unico sull’espropriazione, emanato con d.P.R. n. 327/2001.
  18. Art. 14, legge n. 109/1994, confluito, con modif. ed aggiunte, prima nell’art. 128 del codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 163/2006, e poi nell’art. 21, del codice dei contratti pubblici, denominato anche codice degli appalti, emanato con d.lgs. n. 50/2016, destinato anche questo ad essere sostituito a breve, a partire dal 1° aprile 2023 (salvo eventuali proroghe), dal nuovo codice approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri nella seduta del 16 dicembre 2022.
  19. V. Mazzarelli, L’urbanistica e la pianificazione territoriale, cit., 3375.
  20. F. ROCCO, in Testo unico sull’edilizia, Aa. Vv, coordinato da V. Italia, Milano, 2003, 132; R. TOMEI, Sub art. 7, in L’attività edilizia nel testo unico. Commentario, Aa.Vv., a cura di F. Caringella – G. De Marzo, 2a ed., Milano, 2006, 114-115; M.P. Genesin, in Commentario al testo unico dell’edilizia, Aa. Vv., a cura di R. Ferrara – G.F. Ferrari, 2005, 137.
  21. In questi termini, E. STICCHI Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992, 207; cfr. pure Cons. St., IV, 27 maggio 2002, n. 2909, ove si precisa che è dall’atto di approvazione che sorge l’eventuale interesse all’impugnazione.
  22. A. Fioritto, Introduzione al diritto delle costruzioni, Torino, 2013, 48, 119 ss.; Cons. St., VI, 5 gennaio 2001, n. 25; Cass. civ., SU, 14 giugno 2005, n. 12725.
  23. F. Gualandi, L’accordo di programma nella disciplina urbanistica, in Riv. giur. ed., 1996, 33.
  24. Cfr. Cons. St., I, 25 novembre 2015, n. 361.
  25. Cons. St., VI, sent. n. 25/2001, cit.; TAR Toscana, Firenze, I, 12 febbraio 2007, n. 228; S. Civitarese Matteucci, Un rilevante contributo del Consiglio di Stato per la ricostruzione della natura giuridica degli accordi di programma, in Riv. giur. amb., 2001, 485.
  26. F. Gualandi, L’accordo di programma nella disciplina urbanistica, in Riv. giur. ed., 1996, 33-34.
  27. Art. 15, co. 2, legge n. 241/1990. Sul tema, cfr. E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, cit., 206.
  28. S. Civitarese Matteucci, voce Accordo di programma (diritto amministrativo), in Enc. dir., III, agg., 1999, 20-21.
  29. Cons. St., IV, 11 febbraio 2003, n. 736, cit.; Cons. St., ad. plen., 15 settembre 1999, n. 14; CGAS, 22 dicembre 1999, n. 658; Cons. St., IV, 14 giugno 2001, n. 3169; in senso parzialmente diverso, pare esprimersi Cons. St., VI, 26 giugno 2001, n. 3460.
  30. R. Damonte, Accordi di programma e pianificazione urbanistica, in Riv. giur. ed., 2003, 219.
  31. Cons. St., IV, 11 febbraio 2003, n. 736.
  32. Damonte R., L’accordo di programma in generale e suoi effetti sui procedimenti urbanistici, in Riv. giur. ed., 2002, 49, 66.
  33. Cons. St., VI, sent. n. 25/2001 cit.; Corte cost., 16 febbraio 1993, n. 62.
  34. Cons. St., VI, 7 febbraio 1996, n. 182.
  35. A. Maestroni, Il Consiglio di Stato e l’autocoscienza dell’effetto espansivo del giudicato amministrativo: linee guida in tema di accordi di programma, in Riv. giur. amb., 1996, 708-709.
  36. F. Gualandi, L’accordo di programma nella disciplina urbanistica, cit., 36; R. Damonte, L’accordo di programma in generale e suoi effetti sui procedimenti urbanistici, cit., 63.
  37. E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, cit., 205.
  38. F. Gualandi, L’accordo di programma nella disciplina urbanistica, cit., 35-36; G. Manfredi, Modelli contrattuali dell’azione amministrativa: gli accordi di programma, in Le Regioni, 1992, 349.
  39. S. Civitarese Matteucci, Un rilevante contributo del Consiglio di Stato per la ricostruzione della natura giuridica degli accordi di programma, cit., 487.
  40. Cons. St., IV, 30 luglio 2002, n. 4075.
  41. In questo senso, Cass. pen., III, 10 maggio 2019, n. 27298, ove si afferma che anche per le opere realizzate per scopi di pubblica utilità su area demaniale, se non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire, è comunque necessario il rispetto delle disposizioni urbanistiche vigenti.
  42. G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 788; F. Salvia – F. Teresi, Diritto urbanistico, cit., 249; M.P. Genesin, in Commentario al testo unico dell’edilizia, cit., 145-146; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, cit., 829-831. Cons. St., VI, 11 marzo 1980, n. 299; Id., VI, 13 maggio 1985, n. 197; Id., IV, 15 luglio 1993, n. 714; Id., IV, 24 gennaio 1995, n. 33; Id., V, 18 dicembre 2002, n. 7043; TAR Lazio, I, 22 ottobre 1984, n. 936; TAR Sicilia, Catania, II, 30 novembre 1988, n. 1250; TAR Lazio, II, 4 aprile 1989, n. 486; TAR Marche, 10 aprile 1992, n. 245; TAR Valle d’Aosta, 22 marzo 1993, n. 40; TAR Veneto, I, 18 maggio 1994, n. 550; TSA, 16 aprile 1993, n. 46; Cass. pen., III, 12 dicembre 1988, n. 2167; Id., III, 7 aprile 1994.
  43. M. Pallottino, voce Opere e lavori pubblici, cit., 344; M.P. Genesin, in Commentario al testo unico dell’edilizia, cit., 141-143; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, cit., 830-831; G. D’angelo, Diritto dell’edilizia e dell’urbanistica, 11a ed., Padova, 2006, 264; Id., 2012, 225, ove, però, quanto agli «enti istituzionalmente competenti», intende la norma come riferita alle sole «persone giuridiche pubbliche », che hanno il compito istituzionale di realizzare opere pubbliche di interesse statale».
  44. Cons. St., VI, 13 maggio 1985, n. 197; TAR Sicilia, Catania, II, 30 novembre 1988, n. 1250; Cass. pen., III, 12 dicembre 1988, n. 2167; TAR Marche, 10 aprile 1992, n. 245; TAR Valle d’Aosta, 22 marzo 1993, n. 40; TAR Veneto, I, 18 maggio 1994, n. 550; TAR Basilicata, Potenza, 22 marzo 2002, n. 263.
  45. L’influenza dominante è presunta, ai sensi del vigente art. 3, co. 1, lett. t), del codice dei contratti pubblici, quando il soggetto pubblico, alternativamente o cumulativamente, detenga la maggioranza del capitale sottoscritto, oppure controlli la maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dalla società, oppure abbia il diritto di nominare più della metà dei membri del consiglio di amministrazione, di direzione o di vigilanza della società.
  46. A. Crosetti – A. Police – M.R. Spasiano, Diritto urbanistico e dei lavori pubblici, Torino, 2007, 188.
  47. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, cit., 371.
  48. Cfr. G. Pagliari, op. ult. cit., 372.
  49. Cons. St., VI, 18 marzo 2004, n. 1443; Id., VI, 5 settembre 2005, n. 4520; TAR Emilia-Romagna, I, 6 marzo 1999, n. 92.
  50. Cfr. Cons. St., VI, 12 gennaio 2011, n. 114.
  51. P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. …, cit., 298; Cons. St., VI, sent. n. 4520/2005, cit.
  52. Cfr., per il passato: Cons. St., IV, 31 gennaio 2005, n. 224; Id., VI, 5 settembre 2005, n. 4520; G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 790; N. Assini, Diritto urbanistico (Governo del territorio, ambiente e opere pubbliche), cit., 203; G. D’angelo, Diritto dell’edilizia e dell’urbanistica, cit., 265-266.
  53. Cfr., per il passato, Cons. St., VI, 18 marzo 2004, n. 1443; Id., IV, sent. n. 224/2005, cit.
  54. Art. 3, co. 4, d.P.R. n. 383/1994, come sostituito dall’art. 20 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2.
  55. Cfr. Cons. St., IV, 1° marzo 2001, n. 1152; Id., VI, 18 marzo 2004, n. 1443; Id., IV, sent. n. 224/2005, cit.
  56. Così come stabiliva espressamente anche il vecchio art. 14-quater, co. 3, della legge n. 241/1990, in seguito all’inciso introdotto dall’art. 25 del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164), successivamente abrogato.
  57. G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 790; N. Assini, Diritto urbanistico (Governo del territorio, ambiente e opere pubbliche), cit., 202-203; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, cit., 828.
  58. P. Urbani, in I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali. Commentario al decreto 616 di attuazione della l. 382, Aa.Vv., a cura di A. Barbera – F. Bassanini, Bologna, 1978, 458.
  59. Ex plurimis, Corte cost. n. 182/2013, n. 121/2010, n. 24/2007, n. 339/2005.
  60. Corte cost. n. 165/2011.
  61. Corte cost. n. 33/2011.
  62. Corte cost. n. 165/2011 (corsivo non testuale).
  63. G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 789; Corte cost., 5 maggio 1988, n. 514.
  64. TSA, 21 gennaio 1986, n. 2.
  65. TAR Liguria, 24 febbraio 1988, n. 161.
  66. N. Assini, Diritto urbanistico (Governo del territorio, ambiente e opere pubbliche), cit., 202.
  67. S. Amorosino, Gli interventi statali sul territorio regionale e locale. Programmi d’opere pubbliche e pianificazione urbanistica, Milano, 1979, 112.
  68. S. Civitarese Matteucci, Semplificazione ed autocoordinamento nei procedimenti di localizzazione delle opere statali, in Le Regioni, 1995, 119.
  69. In questi termini, P. L. Portaluri, L’«incanto che non so dire»: unicità e unicismi procedimentali nel governo del territorio, in federalismi.it, 29 dicembre 2021.
  70. G. Comporti, Conferenze di servizi ed ordinamento delle autonomie, in Dir. amm., 1998, 225.
  71. B. Masi, Riflessioni sull’art. 81 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, in Riv. giur. urb., 1992, 559; M.P. Genesin, in Commentario al testo unico dell’edilizia, cit., 145.
  72. Cfr. G. Turco Liveri, Opere pubbliche e trasformazioni del territorio, in Riv. giur. urb., 1995, 368; P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, cit., 748.
  73. P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. …, cit., 297.
  74. Cons. St., IV, 24 febbraio 2000, n. 1002; TAR Campania, Salerno, I, 14 febbraio 2002, n. 109.
  75. Cons. St., VI, 7 agosto 2003, n. 4568; Id., sent. n. 4520/2005, cit.
  76. Corte cost., 16 febbraio 1993, n. 62; Id., 28 luglio 1993, n. 348; Cass. pen., IV, 21 ottobre 1993; Cons. St., IV, 12 aprile 1995, n. 233; TAR Puglia, Lecce, I, 1 maggio 1999, n. 504; F. Pellizzer, Vecchi problemi e nuovi strumenti operativi nel rapporto tra urbanistica e opere pubbliche, in Le Regioni, 1996, 670.
  77. Quale rappresentante legale dell’ente locale (art. 50, d.lgs. n. 267/2000).
  78. Cfr. art. 42, co. 2, lett. b, d.lgs. n. 267/2000.
  79. Cfr. F. Nicoletti, La conferenza di servizi e la localizzazione delle opere pubbliche statali tra semplificazione e rispetto delle competenze, in Riv. giur. urb., 2001, 243.
  80. D. D’orsogna, Conferenza dei servizi e amministrazione della complessità, Torino, 2002, 119 ss.
  81. R. De Nictolis, La funzione di pianificazione urbanistica e la localizzazione e realizzazione di opere pubbliche, cit., 2270; contra, L. Maruotti, Articolo 10. Vincoli derivanti da atti diversi dai piani urbanistici generali, in L’espropriazione per pubblica utilità. Commento al testo unico emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, a cura di F. Caringella – G. De Marzo – R. De Nictolis – L. Maruotti, Milano, 2002, 127; negli stessi termini, TAR Campania, Salerno, I, 27 novembre 2006, n. 2178.
  82. R. Damonte, Accordo di programma e conferenza di servizi alla luce del nuovo Testo unico sulle espropriazioni, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico. Commentario, a cura di F. Caringella – G. De Marzo, Milano, 2005, 140.
  83. G. Cerisano, La procedura di variante, in op. ult. cit., 129.
  84. Corte cost., 26 giugno 2001, n. 206.
  85. Cons. St., IV, sent. n. 3830/2000, cit.
  86. In questi termini, di recente, TAR Campania, Napoli, VIII, 24 maggio 2022, n. 3525, ed i precedenti conformi ivi richiamati, nonché, TAR Lombardia, Brescia, I, 1 aprile 2021, n. 310, Cons. St., IV, 8 maggio 2019, n. 2954.
  87. Prima delle modifiche apportate nel 2019, si v. le riflessioni di A. Fioritto, Introduzione al diritto delle costruzioni, cit., 108. Si v. pure, per il periodo antecedente: Cons. St., I, parere 5 novembre 1997, n. 1622; F. Nicoletti, La conferenza di servizi e la localizzazione delle opere pubbliche statali tra semplificazione e rispetto delle competenze, cit., 229, 246 ss.; P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, 3a ed., Torino, 2004, 306.
  88. D.P.R. n. 194/2016.
  89. Legge n. 880/1973.
  90. D.lgs. n. 387/2003, d.lgs. n. 28/2011.
  91. Artt. 52-quater e 52-quinquies, d.P.R. n. 327/2001.
  92. Legge n. 393/1975, d.lgs. n. 45/2014.
  93. In passato, legge n. 898/1976, oggi, d.lgs. n. 66/2010, che contiene il Codice dell’ordinamento militare.
  94. Alcune delle quali richiamate anche dall’art. 81, ult. comma, del decreto del ’77, e dall’art. 2, del decreto del ’94.
  95. Cfr. F. Salvia – C. Bevilacqua – N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 258 ss.. Si v. pure G. Morbidelli, La localizzazione delle opere pubbliche, cit., 792 ss.; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, cit., 831 ss.; F. Salvia – F. Teresi, Diritto urbanistico, cit., 254-255; per la giurisprudenza, TAR Campania, Napoli, V, 27 marzo 2003, n. 3037; TAR Abruzzo, L’Aquila, 22 aprile 2005, n. 205; TAR Abruzzo, Pescara, 2 maggio 2005, n. 192.
  96. Cfr., per es., art. 24, art. 44, co. 4, art. 48 bis, art. 53 bis, co. 1, art. 57, co. 1, lett. c, d.l. n. 77/2021, oppure art. 33, co. 2, d.l. n. 36/2022.
  97. Tale procedura di verifica e validazione, in passato, era regolamentata dall’art. 47 del d.P.R. n. 554/1999 (a cui la disposizione del testo unico dell’edilizia continua in effetti a fare anacronisticamente riferimento), poi, dal d.P.R. n. 207/2010 (in part., artt. 45, 52-55), che conteneva il regolamento di attuazione del precedente codice degli appalti del 2006, abrogati entrambi dall’attuale codice degli appalti del 2016, destinato anch’esso ad essere sostituito a breve (cfr. nota 17).
  98. Cons. St., VI, 14 gennaio 2004, n. 74; Id., IV, 27 ottobre 2003, n. 6631; Cass. pen., III, 11 marzo 2004, n. 18697.
  99. Cons. St., IV, 11 aprile 1978, n. 289; Id., II, parere 30 maggio 1984, n. 936; Id., IV, 12 novembre 1996, n. 1204; TAR Toscana, 26 gennaio 1985, n. 32; TAR Veneto, 16 marzo 1985, n. 109; TAR Sicilia, Palermo, I, 3 giugno 1991, n. 376.
  100. TAR Umbria, 26 aprile 1986, n. 183; TAR Abruzzo, L’Aquila, 14 febbraio 1990, n. 100; TAR Emilia Romagna, Bologna, II, 28 aprile 1998, n. 179; Cass. pen., III, 28 maggio 1981, n. 1135; Cass. pen., VI, 3 marzo 1984, n. 83.
  101. P. Marzaro Gamba, L’esclusione della concessione edilizia per la realizzazione delle opere pubbliche comunali, in Riv. giur. urb., 1997, 295.
  102. In questo senso, Cons. St., V, 5 novembre, 2012, n. 5589; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 19 settembre 2013, n. 2248; Cass. pen., III, 22 maggio 2012, n. 40115; Cass. pen., III, 2 aprile 2008, n. 18900; contra, B.G. Carbone, in Commentario al testo unico dell’edilizia, Aa.Vv., coordinato da M. De Paolis – M. Pallottino, Rimini, 2004, 112.
  103. Cons. St., V, 22 giugno 1989, n. 391; Id., IV, 12 ottobre 2000, n. 5423; TAR Campania, Salerno, I, 18 giugno 2002, n. 535.
  104. CGA, 8 novembre 1988, n. 184; Cons. St., IV, 4 febbraio 1999, n. 110; Id., V, 1° ottobre 2001, n. 5189; Id., IV, 27 marzo 2002, n. 1742; Id., IV, 8 luglio 2002, n. 3804.
  105. Cfr. TAR Campania, Salerno, I, 6 luglio 2005, n. 1107; TAR Liguria, Genova, I, 8 luglio 2005, n. 1065; TAR Campania, Salerno, II, 9 marzo 2006, n. 252; TAR Emilia-Romagna, Bologna, I, 28 aprile 2006, n. 533; TAR Lombardia, Milano, II, 17 luglio 2006, n. 1804; TAR Campania, Napoli, V, 3 ottobre 2006, n. 8485.
  106. Cfr. TAR Sardegna, Cagliari, II, 31 agosto 2005, n. 1853.
  107. R. De Nictolis, La funzione di pianificazione urbanistica e la localizzazione e realizzazione di opere pubbliche, cit., 2272; Cons. St., IV, 14 dicembre 2002, n. 6917.

Cristiano Celone

Associate Professor of Administrative Law, University of Palermo.