In tema di danno ambientale, il principio di derivazione europea “chi inquina paga” non giustifica nessun obbligo in capo al proprietario non responsabile dell’evento inquinante di adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza; i criteri di imputazione della responsabilità non possono prescindere dall’accertamento del nesso causale tra l’attività posta in essere dal soggetto e l’evento inquinante.


With regard to environmental damage, the “polluter pays” EU law principle does not imply any obligation on the part of the owner who is not responsible for the polluting event to adopt emergency safety measures; the criteria for attributing liability cannot disregard the need to ascertain a causal link between the activity carried out by the subject and the polluting event.

Con la sentenza n. 3077 del 1° febbraio 2023, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno affrontato una delle questioni più dibattute in materia di diritto ambientale, giungendo ad una serie di rilievi interessanti – e per certi versi innovativi – circa la tematica relativa alla responsabilità per danno ambientale.

Attraverso una lettura sistematica della normativa nazionale ed europea, nonché alla luce della giurisprudenza civile, amministrativa e comunitaria, la Corte, nella sua più autorevole composizione, è intervenuta sull’interpretazione del criterio di imputazione della responsabilità ambientale, ritenendo che, pur a fronte del principio “chi inquina paga”, la sua applicazione non possa prescindere dall’accertamento del nesso causale tra l’attività posta in essere dal soggetto e gli elementi inquinanti, stante la necessità – in ultima battuta – di procedere mediante uno specifico accertamento della responsabilità soggettiva per colpa o dolo del soggetto ritenuto responsabile.

Nel caso di specie, ARPA Campania svolgeva accertamenti presso il sito di bonifica di interesse nazionale denominato “Litorale Domizio flegreo ed Agro aversano”, all’esito dei quali l’Ente medesimo aveva rilevato il superamento dei valori-limite di numerose sostanze contaminanti (nello specifico, erano state superate le concentrazioni soglia di contaminazione, le c.d. “CSC”, previste dalla relativa normativa applicabile).

La complessa vicenda giudiziaria prendeva, infatti, le mosse dall’impugnazione, da parte della Società proprietaria del sito, del decreto con cui l’allora Ministero dell’Ambiente (di seguito, il “Ministero”) aveva prescritto alla medesima Società di attuare, entro 10 giorni, i c.d. interventi di messa in sicurezza d’emergenza (di seguito, “MISE”) relativi alle falde acquifere trovate contaminate in prossimità della cava, dove venivano stoccati i rifiuti raccolti, congiuntamente all’adozione di misure di prevenzione e di bonifica dei suoli e della falda, a pena di interventi sostitutivi, così come previsti dal d.lgs. n. 152/2006 (nel prosieguo, il “Codice dell’Ambiente”).

Al fine di comprendere a pieno la portata della sentenza in commento, è utile ripercorrere brevemente il complesso iter procedimentale che è infine scaturito nella rimessione della vicenda alla Corte di Cassazione.

I provvedimenti adottati dal Ministero venivano impugnati dalla Società prima avanti al T.A.R. territorialmente competente e poi il giudizio proseguiva innanzi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (di seguito, il “T.S.A.P.” o il “Tribunale”): con tali mezzi, la Società contestava la violazione delle disposizioni in tema di bonifica di cui alla Parte IV del Codice dell’Ambiente che le era stata contestata.

Contemporaneamente, ribadiva la propria estraneità circa il titolo ad ottemperare, censurando l’omessa identificazione del responsabile della contaminazione da parte dell’Autorità preposta e, da ultimo, affermava la propria totale estraneità ad ogni tipo di responsabilità ambientale, sul presupposto che i fenomeni inquinanti, al contrario di quanto sostenuto dal Ministero, erano invece da ricondursi alle peculiarità morfologiche del territorio.

Successivamente, il T.S.A.P. – pur condividendo quanto dedotto in sede di sindacato amministrativo circa l’errore in cui erano incappati gli Enti nel ricondurre il processo d’inquinamento all’insediamento della Società – concludeva che, in virtù del principio di derivazione comunitaria “chi inquina paga”, l’onere di adottare le MISE gravasse in ogni caso sul proprietario o, alternativamente, sul detentore c.d. “qualificato” del sito; così facendo, a parere del T.S.A.P., era possibile prescindere dall’accertamento circa la sussistenza del dolo e della colpa, in virtù dei principi di prevenzione e di riparazione del danno ambientale.

In base al principio comunitario testé richiamato, il Tribunale riteneva scelta interpretativa adeguata l’aver adottato il criterio della c.d. responsabilità oggettiva, considerando, quindi, sufficiente la dimostrazione della materiale causazione del danno o del pericolo ambientale.

Dunque, la ricorrente, avverso la sentenza del T.S.A.P., proponeva ricorso in Cassazione, ricorso che era devoluto sulla base del seguente specifico quesito circa la «contestazione nella vicenda del principio ‘chi inquina paga’ di cui alla Direttiva 2004/35/CE e comunque di ogni responsabilità ambientale, anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione».

In tal senso, parte ricorrente – nei primi due motivi del ricorso, ritenuti poi fondati dalle Sezioni Unite – sottolineava, inter alia, la scorretta applicazione alla vicenda del principio “chi inquina paga” e l’erronea mancata individuazione del reale responsabile della potenziale contaminazione.

A sua volta, il Supremo Collegio considerava incontrovertibile l’estraneità della Società ai fatti contestati: in particolare, le Amministrazioni competenti non avevano in alcun modo dimostrato una correlazione causale tra l’attività svolta dalla Società e la contaminazione della falda e del relativo sottosuolo.

Pertanto, stante la condizione rilevata poc’anzi, il Collegio contestava i rilievi a cui era giunto il T.S.A.P., secondo cui la legittimità delle prescrizioni adottate dagli Enti fosse possibile esclusivamente sulla base della sussistenza di una relazione peculiare tra la Società ed il sito. Più specificatamente, la decisione del Tribunale, oggetto di ricorso, incentrava il proprio iter argomentativo sul tema della proprietà o della c.d. “detenzione qualificata”, secondo il criterio di responsabilità oggettiva sancito, inter alia, dalla Direttiva 2004/35/CE.

Le Sezioni Unite, al contrario, hanno ritenuto le conclusioni del T.S.A.P. non condivisibili, sulla base dei filoni interpretativi della giurisprudenza nazionale ed europea.

Ed infatti la complessa analisi della disciplina multilivello che caratterizza i temi della prevenzione e della riparazione del danno ambientale costituisce il nucleo fondante dell’impianto motivazionale della pronuncia in commento, all’interno del quale ampio spazio viene riservato al principio “chi inquina paga”, in particolare, alla luce del secondo considerato della Direttiva 2004/35/CE.

La ratio, dunque, così come individuata dal Supremo Collegio, risiede nel seguente importante assunto: «imporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare – non in chiave etica ma di efficacia, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema – le esternalità negative […] a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato […], senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga’ nella riparazione più diretta del danno ambientale […], ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico» (paragrafo 12).

Occorre, innanzitutto, sottolineare come appaia ben più controversa l’interpretazione del criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, la quale trova le sue fondamenta nell’importante quesito vertente sulla scelta di un modello di responsabilità di tipo oggettivo o se, diversamente, possa (e debba) prevalere un criterio di imputazione soggettiva: l’indagine svolta dalla Suprema Corte è, infatti, volta a comprendere se l’interpretazione dell’intero assetto normativo italiano – anche alla luce dei principi indicati dalla Direttiva 2004/35/CE – sia ex se idonea a giustificare una responsabilità oggettiva del proprietario in quanto tale.

Ebbene, in base a quanto affermato dalle Sezioni Unite, ed alla luce del quadro regolatorio nazionale e comunitario, non è possibile rinvenire alcun obbligo ad adottare interventi di MISE gravanti in via diretta ed in forma esplicita sul proprietario, nel caso in cui, come quello di specie, non sia autore della condotta contaminante.

Al fine di comprendere appieno l’approdo a cui è giunta la Suprema Corte, risulta rilevante richiamare quanto disposto dall’art. 311 del Codice dell’Ambiente, il quale attribuisce la responsabilità oggettiva a chi gestisce attività professionali specifiche, e quella soggettiva in capo a «chiunque altro cagioni un danno ambientale» (cfr. c. 2, art. 311, Codice dell’Ambiente).

In tal senso, la Corte giunge alla conclusione secondo la quale vada «[…] esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno – almeno e già per questa via – a carico di chi non abbia svolto l’attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell’accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un’attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d’inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale» (paragrafo 16).

L’articolata analisi che caratterizza la sentenza in commento si focalizza, poi, sulla distinzione tra i doveri incombenti sul proprietario incolpevole dell’inquinamento ed il responsabile dello stesso.

La distinzione acquista particolare rilievo dal momento che gli effetti a carico del proprietario incolpevole sono quelli prescritti dall’articolo 253 del Codice dell’Ambiente: il proprietario dovrà adottare solamente le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che, in passato, abbia creato una minaccia imminente per l’ambiente, al fine di impedirla. In tal senso, «le norme contemplanti il proprietario […] dovrebbero essere rilette come un coinvolgimento per un verso doveroso (di ogni comunicazione alla P.A. del superamento attuale o altamente possibile delle CSC, le concentrazioni di soglia di contaminazione) per l’attuazione, senza distinzione, di tutte le misure di prevenzione (stante il richiamo all’art.242) e, per altro, pienamente partecipativo all’intero iter dell’intervento preventivo» (paragrafo 25).

Nel solco della distinzione di cui si è dato conto poc’anzi, il responsabile dell’inquinamento risulta, a differenza del proprietario incolpevole, obbligato, già a partire dalle prime 24 ore – come previsto dall’art. 242 del Codice dell’Ambiente – ad adottare le misure necessarie di prevenzione e le MISE, al fine di procedere con la bonifica del sito inquinato.

In conclusione, a parere della Suprema Corte, «l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica […], in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, tale essendo la netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione; così che […] il proprietario ‘non responsabile’ dell’inquinamento è tenuto, ai sensi dell’art. 245, comma 2, ad adottare le misure di prevenzione […], ma non le misure di messa in sicurezza d’emergenza e bonifica […]» (paragrafo 32).

Leonardo Scuto

PhD student in Public, international and EU Law (curriculum Administrative Law)