Sfide presenti e future della giustizia amministrativa italiana

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2/2023

Sfide presenti e future della giustizia amministrativa italiana

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Negli ultimi anni il sistema italiano delle tutele giurisdizionali nei confronti della pubblica amministrazione ha sperimentato importanti trasformazioni. Alcune sono collegate all’emergenza pandemica. Altre riguardano la necessità di ottimizzare la capacità del giudice amministrativo di decidere le controversie. Il presente contributo sottolinea come queste sperimentazioni siano sintomo di cambiamenti di più ampio respiro. In particolare, si tratta di mutamenti nei quali emerge l’importanza di specifici fattori organizzativi e del rinnovamento delle competenze tecniche idonee ad affiancare l’attività del giudice.


Present and future challenges of Italian administrative justice
In recent years, the Italian system of judicial protection against public administration has undergone important transformations. Some are connected to the pandemic emergency. Others concern the need to optimize the ability of administrative judges to decide disputes. This contribution underlines how these experiments are a symptom of wider-ranging changes. In particular, these are changes in which the importance of specific organizational factors and the renewal of technical skills suitable for supporting the activity of the judge emerge as determining elements.

Sommario. 1. Premessa: l’oggetto della discussione.- 2. Le evoluzioni, “in rito”, del processo amministrativo; – 3. Le evoluzioni della giurisdizione amministrativa, mediante le innovazioni nella organizzazione dei suoi uffici giudiziari; – 4. La necessaria evoluzione della formazione giuridica, con riguardo ai protagonisti della giurisdizione amministrativa.

1. Premessa: l’oggetto della discussione[1]

Un oggetto di discussione di così ampio respiro impone, quasi programmaticamente, una sorta di self restraint, che non può che tradursi in una preliminare delimitazione di campo.

È preferibile, dunque, concentrare l’attenzione su tre distinti profili: a) la registrazione delle tendenze in atto con riferimento alle evoluzioni del processo amministrativo nella sua dimensione essenzialmente rituale; b) la presa d’atto che, a fronte di tali tendenze, c’è qualcosa che sta cambiando, e che potrebbe, forse, articolarsi ulteriormente sul piano dell’organizzazione dei singoli uffici giudiziari in cui si struttura la giurisdizione amministrativa; c) l’illustrazione, a partire da questo quadro, dell’importanza di un itinerario in un certo senso autoriflessivo, che studiosi ed operatori devono quanto prima percorrere in merito alla definizione di quali possano essere i tasselli irrinunciabili della formazione giuridica dei protagonisti della giurisdizione amministrativa.

2. Le evoluzioni, “in rito”, del processo amministrativo

Dal primo punto di vista, è opportuno sottolineare che nel corso e per effetto della pandemia da SARS-CoV-2 e delle azioni di sostegno di matrice europea che ad essa sono seguite (PNRR) sono state approvate numerose modifiche legislative, caratterizzate dalla contrazione dei diversi riti processuali e dall’utilizzo diffuso di modelli giudiziali volti a qualificare in modo differente le forme del contraddittorio e a consentire decisioni più semplificate.

Da un lato, come è noto, queste modifiche si sono rese inizialmente necessarie per permettere che alle fasi di lockdown connesse all’emergenza sanitaria non seguisse un esiziale arresto della funzione giurisdizionale, e che, al contempo, le parti del processo potessero avvalersi di forme di interlocuzione prevalentemente scritte ovvero mediate, se del caso, dallo svolgimento online delle attività di udienza. Per altro verso, poi, gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato imposti dalla necessità di implementare le scadenze di riforma concordate con l’Unione europea hanno stimolato l’adozione di discipline ad hoc, finalizzate a rafforzare i poteri organizzativi e decisori del giudice amministrativo e a concentrare la competenza a trattare un largo spettro di controversie presso il Tar del Lazio, seguendosi una nuova versione di accelerazioni di rito in parte già conosciute per specifiche materie.

Si tratta di sviluppi che hanno suscitato vivaci discussioni, sia da parte degli interpreti, sia da parte degli operatori. Non sono state poche, ad esempio, le voci che, in simili trasformazioni, hanno intravisto non solo la lesione puntuale di alcuni diritti costituzionalmente tutelati (come il diritto di difesa ex art. 24 Cost.) o, più in generale, del principio del giusto processo (ex art. 111, comma 1, Cost. come ex art. 6 CEDU), ma anche la surrettizia tensione verso la mutazione a regime della cornice usuale della dinamica processuale, e soprattutto della garanzia che gli scopi di effettività della tutela cui essa deve ispirarsi non si risolvano esclusivamente nella velocità della “prestazione decisionale” del giudice e, dunque, nella mera rapidità della risposta che ogni “servizio pubblico” deve poter assicurare ai suoi “utenti”.

Senza voler affrontare di petto il merito di tale dibattito, si può annotare che i cambiamenti in atto hanno avuto quanto meno la virtù di costringere tutta la “comunità” di coloro che studiano e vivono la giustizia italiana a riflettere con maggiore intensità sullo stretto legame che da sempre esiste tra il ragionamento teorico e concettuale sui diritti delle parti e sui poteri del giudice e la configurazione operativa del luogo in cui quei diritti e quei poteri sono destinati a esprimersi.

È sicuramente vero che una simile meditazione non è nuova, e che da tempo la dottrina si interroga sulla moltiplicazione e sull’assunzione costante, da parte del legislatore, dei criteri di specialità o di funzionalità, quali passepartout per superare ogni problema di pratico svolgimento della giurisdizione. Ma è altrettanto vero che a tale meditazione – che per lo più si esercita, pur correttamente, sui soli binari della critica negativa e della segnalazione di profili di conflitto di matrice assiologica – si accompagna soltanto di rado un’attitudine propositiva capace di misurarsi concretamente e in maniera innovativa con le questioni del design organizzativo e procedurale.

Sono traiettorie, queste ultime, che sono destinate a diventare vieppiù urgenti anche in considerazione degli orizzonti – più che incombenti e quanto mai attuali – di utilizzo, da parte dei giudici, di nuove tecnologie a supporto dell’assunzione e della redazione delle loro pronunce: come è stato osservato, del resto, lo strumento tecnologico – che siano il ricorso a formule algoritmiche di vero e proprio sostegno ed elaborazione istruttori o l’attivazione di software idonei a facilitare la scrittura della motivazione delle decisioni – agisce in modo sostanzialmente retroattivo sulla struttura stessa della funzione che esso contribuisce a realizzare, e, prima di tutto, sul comportamento degli attori che se ne avvalgono. I quali possono essere indotti ad assorbire del tutto fasi o stadi di valutazione che, finora, dovevano eseguire direttamente nel corso di un’esperienza quasi apprenditiva.

Non è più sufficiente, dunque, “dogmatizzare” sugli istituti o sui principi del processo, alla ricerca di quei naturalia iudicii che, quasi per forza propria, dovrebbero contribuire a rendere anche il giudizio amministrativo più aderente a una comune cultura della giurisdizione. Ciò che è indispensabile è la riflessione sull’architettura organizzativa e procedurale più sostenibile e proporzionata, ossia più confacente con l’esigenza di mediazione tra la descritta tendenza alla contrazione e alla sintesi, e all’aiuto tecnologico, e l’insopprimibile istanza che ogni fattispecie abbia una sua propria decisione, scaturente da quell’actum trium personarum che rappresenta il più autentico ed originario minimo comune denominatore del processo. Il che equivale a dire, in pochissime parole – e quasi con uno slogan (che come tale non può che avere una valenza esclusivamente suggestiva) – che anche nello studio del diritto processuale amministrativo non ci si può più accontentare del solo Chiovenda e che occorre qualche dose aggiuntiva di Mortara. Infatti, affinché sia verosimile che le sorti della giustizia si risolvano in un giusto processo, è ineludibile prendere atto che la fisionomia materiale degli atti che lo formano, del luogo in cui esso è chiamato a svolgersi e dei soggetti che devono dargli vita è decisiva.

3. Le evoluzioni della giurisdizione amministrativa, mediante le innovazioni nella organizzazione dei suoi uffici giudiziari

Quest’ultimo rilievo permette di introdurre un secondo aspetto, che d’altra parte è connesso, sia pur per contingenza storica, con il primo.

Si vuole alludere all’innovazione dell’ufficio del processo, unità organizzativa che, come è risaputo, il legislatore ha introdotto anche nel processo civile e penale, con la prevalente finalità di supportare la macchina della giustizia italiana nel complesso compito di abbattere le ingenti pendenze e di migliorare, così, a regime, la performance delle giurisdizioni.

Anche a tale riguardo si potrebbe dire molto, specie in direzione critica. Si potrebbe, ad esempio, stigmatizzare la stretta consustanzialità, per così dire, tra l’innovazione organizzativa in questione e la fase della risposta nazionale all’azione europea di sostegno, e quindi all’obiettivo di riduzione dell’arretrato. E analoga valutazione potrebbe avanzarsi circa la volatilità dell’innovazione, anche in termini di sua capacità, sul piano organico, di arricchire davvero, in modo costante e sinergico, le forze e le risorse di un sistema che, lungi dall’aver bisogno di sole terapie d’urto, richiederebbe attenzioni e operazioni destinate a durare nel tempo, anche, se non soprattutto, in termini di attrattività di ruoli e posizioni. Si potrebbe anche evidenziare – dato conosciuto a molti – che il complesso delle misure organizzative che ruotano attorno all’ufficio del processo oscilla, un po’ contraddittoriamente, tra un modello di spiccato orientamento gerarchizzante, amministrativo nel senso più tradizionale del termine, e coerentemente guidato da istruzioni e indicazioni di riferimento, e un modello, all’opposto, atomistico, plurale, in cui ogni ufficio giudiziario, se non ogni magistrato, è largamente responsabile del buon funzionamento di quelle misure.

Eppure, nonostante ciò, non si può negare che, proprio in ragione delle annotazioni qui espresse, al primo punto di questo intervento, l’ufficio del processo è il sintomo di una consapevolezza che si dovrebbe tradurre in aperta e risoluta decisione di sistema: vale a dire, della consapevolezza che senza un intervento risoluto sul modo e sul luogo con cui i giudici e i relativi uffici lavorano non vi può essere un processo adeguato e, di conseguenza, giusto nel senso tradizionalmente discusso.

Il fatto è che, accanto al puro compito di aiuto o di supporto alle attività materiali degli uffici giudiziari e all’individuazione specifica dei “fascicoli” che meglio possono essere “definiti” in forma più contratta e rapida, l’intervento ri-organizzativo in parola dovrebbe essere il primo spunto per dotare uffici e magistrati di competenze aggiuntive; di saperi e di tecniche che li mettano in grado di esprimersi e di dialogare con le potenzialità conoscitive che la tecnologia gli impone di affrontare, non solo per decidere velocemente, bensì, e soprattutto, per decidere bene, laddove costretti a confrontarsi con fattispecie tecnologicamente conformate o condizionate.

Non prendere questa via significherebbe, nella migliore delle ipotesi, spingere le parti del processo a condurre dinanzi al giudice la “battaglia” per l’individuazione dei saperi e delle tecniche di volta in volta rilevanti, come vorrebbe, del resto, la piena esplicazione del principio dispositivo e la riconferma che (tantum) iura novit curia. Non v’è chi non possa accorgersi, però, che, in questo modo, di per sé del tutto fisiologico, si giungerebbe ad una sorta di surrettizia privatizzazione del processo, giacché, a ben vedere, quando si discute di quei saperi e di quelle tecniche, non si controverte sulla definizione del fatto controverso, bensì sui linguaggi che lo rendono leggibile e accertabile: in definitiva, su qualcosa di infrastrutturale, che non può che predeterminare, se non veicolare, l’esercizio della funzione giurisdizionale. Ed è quasi inutile precisare che non risulterebbe del tutto funzionale, in via alternativa, il ricorso alle utilità della consulenza tecnica d’ufficio o delle verificazioni, che, in breve tempo, rischierebbero di diventare il canale per eccellenza, se non la via privilegiata, di tantissime decisioni, con la conseguenza (rispettivamente) di esternalizzarne o de-processualizzarne il contesto determinante.

Nella peggiore delle ipotesi, poi, evitare di dare al giudice amministrativo risorse umane specializzate, come suoi diretti collaboratori, equivarrebbe a consegnare la sua stessa capacità di percezione (il suo prudente apprezzamento) all’utilizzo improvvisato (o al massimo sperimentale) di strumenti non regolati: un’eventualità che, all’evidenza, resterebbe discutibile anche laddove “coperta” dalla sua (quanto meno doverosa) rivelazione in sede di motivazione della decisione finale, dato che si lascerebbe comunque al caso, o alla scienza privata del singolo giudice, o all’influenza socio-culturale o economica di un qualche dispositivo, e della sua pratica accessibilità, l’integrazione del parametro decisionale.

Da un punto di vista più ampio, e per tutti questi motivi, si deve pensare che, nel prossimo futuro, i legami tra disciplina del processo e funzione organizzativa di tipo squisitamente amministrativo devono essere rivisti in modo più forte di quanto non sia finora avvenuto. Non, certo, per sostenere che l’amministrazione della giustizia debba trattarsi con i medesimi canoni che valgono per l’amministrazione tout court, quanto, piuttosto, per cogliere e valorizzare in maniera adeguata le relazioni molto profonde che sussistono tra il processo e l’ambiente che meglio ne preserva e ne migliora le finalità e la cultura di riferimento.

4. La necessaria evoluzione della formazione giuridica, con riguardo ai protagonisti della giurisdizione amministrativa

Il percorso di questo intervento arriva, così, all’illustrazione del suo punto conclusivo.

Se nell’evoluzione dell’ordinamento processuale vigente e delle sue prassi si può intravedere l’auspicabile curvatura verso una sensibilità organizzativa maggiore, come anche verso la consapevolezza che le scelte organizzative sono determinanti se si risolvono in opzioni volte a rinforzare i profili di competenza del personale, allora è inevitabile riflettere su ciò che serve, oggi, a tutti coloro che vogliono farsi protagonisti del sistema processuale e, più in generale, dell’amministrazione della giustizia, intesa nel senso da ultimo prefigurato.

È una prospettiva che chiama in gioco il ricorrente discorso sull’adeguamento del percorso finalizzato a formare il giurista, così intendendosi non solo il titolare delle classiche professionalità forensi, ma anche, se non specialmente, almeno in prima battuta, l’esperto chiamato a operare con funzioni di supporto dentro gli uffici giudiziari come all’interno, o a fianco, degli studi legali o delle amministrazioni.

Nell’iter assai lungo che ha visto impegnato il Consiglio Universitario Nazionale in ordine alla cd. “manutenzione” delle classi di laurea (e che è ormai in corso di definizione), il dibattito su tale percorso è stato intenso, ed è stato altresì animato dal confronto di tutte le comunità disciplinari in cui sono articolate le scienze giuridiche. In quel frangente, in particolare, l’istanza di forte revisione dei percorsi formativi è stata condivisa, e lo è stata proprio nel senso di una sua complessiva riconfigurazione, da effettuarsi al di là (nel superamento) della consueta (e un po’ limitante) dialettica tra discipline giuridiche professionalizzanti (o tecniche) e discipline giuridiche culturali (o storico-filosofiche).

Si è condivisa, in altri termini, l’esigenza che la ratio delle opzioni fondamentali poste alla base della formazione giuridica tradizionale – che vede il giurista come lo specialista di un approccio differenziato e qualificato nella risoluzione dei conflitti – possa riuscire riconfermata soltanto alla condizione di muovere le modalità e i contenuti di quella stessa formazione verso l’acquisizione di competenze e di abilità operative, e segnatamente di competenze che facilitino il giurista nella comprensione e nella risoluzione di problemi giuridici connessi alle dinamiche di forte trasformazione cui sono attualmente soggetti i contesti sociali e istituzionali.

Ciò significa, in altre parole, che non vi può essere, oggi, giurista che non sappia dialogare sul piano pratico e propositivo – pur attivando la propria ricca e indispensabile, e classica, “cassetta degli attrezzi” – con saperi altri e con le situazioni incerte (e talvolta, per l’appunto, non dogmatizzate, né regolate) che vengono prodotte dalle intense evoluzioni del tessuto economico, scientifico e tecnologico. Il giurista, naturalmente, non deve cessare di essere tale; deve essere, però, in grado di comprendere la complessità con cui si rapporta e di ricondurla alle coordinate razionalizzanti della propria forma mentis.

Di un simile giurista ha bisogno anche la giustizia amministrativa, evidentemente, e tanto più alla luce delle considerazioni sopra effettuate. E va anche sottolineato che questo bisogno non si risolve soltanto nella necessità che gli uffici giudiziari si riqualifichino del personale competente nel senso anzidetto. Esso esprime anche una domanda capace di investire direttamente lo standard della professionalità di avvocati e magistrati.

Il primo step è in qualche modo prefigurato: la combinazione tra la nuova (rivista) classe di laurea triennale (L14-Scienze dei servizi giuridici) e quella magistrale (LM-SC GIUR-Scienze giuridiche) offre già un curricolo credibile e moderno, diversamente modulabile e assai aperto in senso interdisciplinare, e strumentale a formare un giurista assai adatto ad inserirsi nell’amministrazione della giustizia e nei suoi nuovi compiti. Il secondo livello – quello relativo alla revisione del percorso formativo dei giuristi destinati a diventare magistrati e avvocati, ossia alla revisione della classe di laurea LMG01-Giurisprudenza – si è fermato, per ora, alla riscrittura degli obiettivi culturali qualificanti, ma senza grandi “concessioni” all’apporto di discipline diverse da quelle giuridiche.

Ciò che, tuttavia, appare importante notare sin d’ora è che, diversamente da quanto si pensa usualmente, una piena riconfigurazione di quest’ultimo percorso non potrà seguire esclusivamente le strade della specializzazione relativa alla singola professione giuridica: difatti, imponendo la risoluzione e il coordinamento di questioni scientifiche, di natura metodologica, la necessità di integrare competenze non giuridiche o non strettamente disciplinari nel bagaglio culturale del futuro professionista o magistrato impedisce per definizione che l’azione formativa sia consegnata prevalentemente, se non esclusivamente, alle sole comunità professionali di riferimento e alle loro prassi. Un ruolo assai eminente non potrà che essere svolto, come sempre, dall’accademia, la cui responsabilità, pertanto, anche sul piano dell’adeguamento dei metodi didattici alle nuove esigenze, si fa davvero significativa. E anche questa è una sfida non semplice, che, almeno in parte qua, si rivelerà come passaggio fondamentale per il futuro della tutela giurisdizionale amministrativa e della sua effettiva legittimazione.

  1. Si tratta della versione scritta dell’intervento presentato alla tavola rotonda “Pubblica Amministrazione e giustizia amministrativa in Italia. Sfide attuali e prospettive future” tenutasi il 15.12.2022, presso l’Università degli Studi di Milano, in occasione dell’Incontro di studio organizzato a tre anni dalla nascita di CERIDAP (Milano, 15-16.12.2022).

Fulvio Cortese

Full Professor of Administrative Law, University of Trento.