L’Unione europea contro la propaganda di regime

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4/2023

L’Unione europea contro la propaganda di regime

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Il saggio, relativo alla tutela della libertà di espressione nell’ordinamento UE, si propone di individuare i limiti e le possibili restrizioni a tale diritto fondamentale, a partire da un fatto di attualità: la reazione dell’Unione europea alla propaganda di regime promossa da diverse emittenti russe per giustificare l’attacco all’Ucraina. In particolare, lo scritto si dirama in tre direzioni volte a rispondere ad altrettante questioni: in primo luogo, valutare se le limitazioni alla libertà di informazione, contenute nelle sanzioni dell’UE, rappresentino una novità nel diritto europeo e comportino un’assunzione di maggiori competenze da parte dell’Europa in materia di diritti umani; in secondo luogo, evidenziare quali siano le tendenze recenti della giurisprudenza europea in materia di tutela della libertà di espressione (anche alla luce dei due fenomeni dell’hate speech e delle fake news), verificando se queste siano confermate dal recente intervento sanzionatorio del Consiglio europeo; infine, verificare se il Tribunale europeo, chiamato a valutare la legittimità di tali sanzioni, abbia seguito il processo argomentativo di regola applicato per verificare che la compressione della libertà di espressione sia giustificata.


The European Union against regime propaganda
This essay concerns the protection of freedom of expression in the EU legal system. The paper aims to identify the limits of, and possible restrictions to, this fundamental right. The paper focuses on the reaction of the European Union to the regime propaganda promoted by several Russian broadcasters to justify the attack on Ukraine. The paper has three aims. First, the paper evaluates whether the limitations on freedom of information, contained in the EU sanctions, represents a novelty in European law regarding human rights. Second, the paper highlights the recent trends in European jurisprudence regarding the protection of freedom of expression (“hate speech” and “fake news”), and considers their interaction with the recent sanctions of the European Council. Finally, the paper addresses whether the EU General Court, called upon to assess the legitimacy of these sanctions, followed the established process to conclude that the compression of freedom of expression is justified.
Summary: 1. L’Unione europea contro la propaganda di regime: hate speech e fake news.- 2. L’evoluzione giurisprudenziale della CGUE e della Corte EDU in materia di libertà di espressione.- 3. Hate speech: l’approccio della Corte EDU.- 4. La libertà di parola e la disinformazione di regime.

1. L’Unione europea contro la propaganda di regime: hate speech e fake news

Il 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la guerra è tornata, dopo molto tempo, a minacciare il suolo europeo[1]. L’Unione europea ha reagito tempestivamente, adottando una grande quantità e varietà di misure per contrastare le azioni della Federazione russa e supportare militarmente l’Ucraina. Le misure restrittive adottate sono destinate a soggetti diversi (pubblici e privati, persone fisiche e persone giuridiche) e hanno a oggetto sanzioni di diverso contenuto: alcune di esse, infatti, hanno carattere finanziario; altre intervengono sull’attività di diffusione di notizie e comportano la messa off-line di siti web, canali TV, ecc. Queste ultime sanzioni comportano, pertanto, una vera e propria “censura” nei confronti di determinati canali di comunicazione russi, accusati di diffondere fake news e discorsi d’odio per rafforzare il consenso dell’opinione pubblica verso la c.d. “operazione militare speciale” contro l’Ucraina[2].

La “macchina propagandistica” azionata dalla Russia, sin dal primo giorno di guerra, è stata particolarmente efficace dalla ventennale esperienza di censura posta in essere dalla Federazione russa: azione, costante e progressiva, culminata, nel marzo 2023, con l’adozione della cd. “Legge contro le fake news sulle forze armate russe”, in base alla quale chi diffonde notizie “non veritiere” riguardo l’esercito, rischia sino a quindici anni di carcere. Per avere un esempio concreto dell’effetto censorio di questa legge, è sufficiente ricordare che è proprio in base a questa legge è stata comminata la condanna a otto anni e mezzo di carcere nei confronti di Ilya Yashin, politico dell’opposizione che, durante una diretta sul proprio canale YouTube, aveva parlato delle responsabilità russe per il massacro di Buča, località ucraina dove, nel marzo 2022, persero la vita 458 civili. Successivamente, la Russia ha bloccato più di 300 media e 150 giornalisti operanti sul territorio russo, considerati “agenti stranieri”, operanti nell’interesse di Paesi esteri. Di fatto, pertanto, l’unica fonte di informazione sul territorio russo è rimasta quella propagandistica, in totale violazione dei principi del pluralismo e della libertà di parola.

In questo scritto, tuttavia, si tratta della restrizione della libertà di espressione dei media russi sul territorio europeo, non della repressione di tale libertà in Russia. Questa breve premessa serve a dare la misura degli interessi che l’UE ha dovuto bilanciare per determinare se e quanto fosse possibile e proporzionato[3] limitare la “libertà di propaganda”. Tra l’altro, infatti, il 2 marzo 2022 il Consiglio ha previsto, con urgenza, la sospensione delle attività di radiodiffusione di Sputnik e di RT/Russia Today in Europa, fino al termine dell’aggressione nei confronti dell’Ucraina e al momento in cui la Federazione russa, e i suoi organi di informazione, non cesseranno di condurre azioni di disinformazione e manipolazione delle informazioni nei confronti degli Stati membri. Tra le motivazioni del Consiglio, c’è quella in base alla quale la «manipolazione delle informazioni, la distorsione dei fatti e la disinformazione» siano strumenti operativi che minacciano la sicurezza dell’UE, utilizzati strategicamente dalla Russia per destabilizzare i Paesi limitrofi e giustificare l’aggressione militare[4].

Successivamente, con il sesto pacchetto di sanzioni del 3 giugno 2022, l’UE ha sospeso la trasmissione al proprio interno di altri tre canali di informazione di proprietà dello Stato russo: Rossiya RTR/RTR Planeta, Rossiya 24/Russia 24, TV Centre International[5].

Con il nono pacchetto[6] del 16 dicembre 2022 e il decimo pacchetto[7] del 25 febbraio 2023, l’UE ha proceduto, poi, alla sospensione delle licenze di trasmissione di altri quattro media russi. A queste, si aggiunge un grande numero di sanzioni personali, rivolte a persone (tra cui anche giornalisti) ed entità, che hanno concorso alla propaganda del governo russo[8].

I divieti imposti dall’UE si applicano indipendentemente dal canale di distribuzione: non solo, quindi, alle TV, alle radio o ai propri video, ma anche ai motori di ricerca e ai social network. Pertanto, sui fornitori di servizi internet ricadono alcuni obblighi, come quello, relativo ai motori di ricerca, di deindicizzare alcuni media russi o quello, relativo ai social network, di impedire la condivisione di loro contenuti.

Di tali previsioni, è stata data pronta attuazione: per esempio, Google ha reso inaccessibili alcuni canali video di YouTube russi in Europa, così come Facebook, Twitter e TikTok hanno introdotto limitazioni per l’accesso ai relativi canali. Successivamente, l’UE è nuovamente intervenuta chiedendo alle aziende digitali – YouTube, Google, Meta, Twitter – di potenziare l’attività di moderazione delle fake news.

In generale, negli ultimi anni, Unione europea e Stati membri hanno collaborato per intensificare gli interventi diretti a contrastare l’azione di chi diffonde disinformazione per “destabilizzare” l’opinione pubblica, sfruttando situazioni di emergenza.

Già nel 2018, tuttavia, le maggiori tech companies avevano adottato un atto di auto-regolamentazione (il Codice di condotta sulla disinformazione)[9] destinato ad arginare il fenomeno delle fake news attraverso la collaborazione delle piattaforme online, le associazioni di categoria e i principali operatori del settore pubblicitario.

Tuttavia, la pandemia da Covid-19 – che ha portato a riflettere in tema di informazioni sanitarie fuorvianti – ha subito mostrato le carenze di tale Codice, il quale non è riuscito a contenere la vasta campagna di disinformazione sul virus. Né, la politica europea contro la disinformazione durante la crisi pandemica ha rappresentato una soluzione efficace: si è trattato, infatti, di una “politica soft”, incentrata, in parte, su un controllo della pubblicazione di notizie su internet, ma soprattutto sulla diffusione di informazioni ufficiali, fornite in tempo reale su un sito web specificamente dedicato dalla Commissione e la promozione di una serie di organi cui fare affidamento (quali l’OMS, le autorità sanitarie nazionali, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, ecc.).

In seguito, però, la dilagante e insidiosa campagna di disinformazione e propaganda per orientare la narrazione della guerra russo-ucraina da parte del governo russo, ha mostrato l’urgenza di intervenire in materia con misure più pregnanti. Così, la Commissione europea, nel 2022, ha cambiato strategia sostituendo il precedente codice – basato sull’autoregolamentazione – con uno nuovo, rafforzato, che si fonda su un meccanismo differente, quello della co-regolamentazione: anziché contare sulla sola tecnica della delega in bianco alle piattaforme e sull’impegno volontario da parte del potere digitale privato, prevedendo obblighi vaghi e impegni difficilmente misurabili e verificabili, la Commissione ha, invece, imposto un impegno concreto di tutte le principali parti in causa, sia attraverso un’ampia serie di indicatori, specifici e circostanziati, volti a consentire l’effettiva misurabilità degli impegni presi, sia attraverso la creazione di un centro indipendente di valutazione e di monitoraggio della trasparenza e della serietà delle azioni poste in essere[10].

Il Codice di condotta è stato, in generale, rafforzato[11]: ne sono aumentati i firmatari e il numero di misure specifiche volte a “demonetizzare” la disinformazione; sono state migliorate le norme relative alla possibilità di segnalare comportamenti scorretti da parte degli utenti privati; è stato consolidato il sistema di monitoraggio; sono stati istituiti nuovi organi, come un centro per la trasparenza e una task force permanente per l’evoluzione e l’adeguamento del codice, ecc. Esso resta, però, pur sempre, un atto di “soft law”.

Alla politica “debole”, però, dal 5 luglio 2022 l’UE ha affiancato un atto di “hard law”: il Digital Services Act [12], infatti, è il pacchetto con cui l’Europa, per la prima volta, adotta una legge sui servizi digitali e una sui mercati digitali, la quale ha valore cogente. Inoltre, il Digital Services Act obbliga le big tech a vigilare sui contenuti online e a rimuovere le fake news.

Un approccio inedito è, però, quello attuato dall’UE con l’adozione di sanzioni ad personam, volte, cioè, a bloccare la possibilità di diffondere notizie o opinioni da parte di determinati soggetti dei quali si sia accertata l’attitudine a divulgare informazioni false e pericolose. Non sono mancate, però, le critiche (per esempio, quelle dell’emittente francese del canale russo, RT France[13]) contro l’UE, per aver violato la libertà di espressione e messo in pericolo la libertà di stampa, con un’azione di censura immediata, sproporzionata e contrastante con i principi sul giusto processo. Della questione ha trattato anche la Grande Camera del Tribunale UE (sentenza T-125/2022 del 27 luglio 2022)[14]. La sentenza ha confermato la sospensione delle emissioni del canale russo e giustificato la rapida introduzione del divieto da parte dell’UE con «l’estrema urgenza dovuta alla guerra».

Nemmeno in Italia sono mancate polemiche. Si pensi, per esempio, a quelle che hanno fatto seguito all’invito del ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, al programma Zona Bianca su Rete 4, nel maggio del 2022: si è contestato, infatti, che l’intervento del ministro sia avvenuto senza contraddittorio, circostanza evidenziata con scalpore da tutti coloro che lo hanno ritenuto un metodo per eludere le sanzioni europee volte a limitare la propaganda russa.

Non era questa, peraltro, la prima volta in cui nella televisione italiana venivano ospitati sostenitori della causa russa: lo stesso programma Zona Bianca, in precedenza, aveva ospitato Maria Zakharova, portavoce del ministero degli esteri russi; e ancora, Aleksandr Dugin, filosofo di estrema destra, considerato uno degli ideologi della Russia di Putin, è stato invitato a Diritto e rovescio e a Fuori dal coro, su rete 4; inoltre, Nadana Fridrikhson, giornalista dell’emittente russa Zvezda, controllata dal ministero della Difesa di Mosca, era stata invitata a Cartabianca su Rai3 e a Otto e mezzo su La7. La risposta dell’UE è arrivata prontamente, con un avvertimento del portavoce della Commissione per il Digitale, Johannes Bahrke. Questi ha chiarito che «le emittenti in Italia e negli altri Stati membri non devono permettere l’incitamento alla violenza, l’odio e la propaganda russa nei loro programmi, come previsto dal diritto UE»[15]. Le sanzioni contro la propaganda russa, infatti, contengono una “clausola di non-elusione” che si applica anche ai giornalisti.

La dura presa di posizione dell’UE contro la propaganda di regime operata dalla Federazione russa mostra come si possa assottigliare il confine tra fake news e hate speech[16]: infatti, si è trattato non solo di limitare una propaganda falsa e foriera di disinformazione, ma anche e soprattutto di bloccare la diffusione di discorsi che incitavano all’odio e, al tempo stesso, giustificavano l’attacco contro l’Ucraina e gli ucraini.

La questione, pertanto, oltre a interessare la disciplina sulle fake news, necessariamente chiama in causa il quadro giuridico europeo entro cui è possibile ricondurre i cosiddetti “discorsi di odio”, espressioni non considerate meritevoli di protezione, poiché diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio[17]. Anche in questo caso, tuttavia, il diritto europeo offre una soluzione carente: in mancanza di una definizione univoca ed esaustiva di hate speech, essa deriva da una serie di diverse definizioni specifiche volte a qualificare determinati comportamenti a seconda dell’ambito. Al di là dei numerosi atti internazionali che tentano di definire tale concetto, le disposizioni europee più rilevanti in materia sono contenute nella decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio[18]. Questa, però, offre una visione del discorso d’odio molto limitata, dato che il suo obiettivo è quello di produrre un’armonizzazione delle legislazioni nazionali per alcuni reati a sfondo razzista, ma non contiene riferimenti a discorsi di odio di altro tipo, come per esempio quelli relativi al genere o all’orientamento sessuale[19]. Ai sensi dell’art. 1 di tale decisione è previsto che ciascuno Stato membro adotti le misure necessarie a punire una serie di condotte, tra cui: l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica; la commissione di uno di tali atti mediante la diffusione pubblica di materiale di diverso tipo; l’apologia pubblica, la negazione o la minimizzazione grossolana di crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

Vi sono, poi, altre misure giuridiche europee che regolano i discorsi di odio e che, seppure riguardati specifici settori, contengono una definizione più generale: per esempio, la direttiva 2018/1808, in materia di servizi di media audiovisivi[20] impone agli Stati membri di vietare incitamenti all’odio basati su razza, sesso, religione o nazionalità (art. 6); o ancora, la direttiva 2000/31 sul commercio elettronico[21] sancisce la possibilità degli Stati di derogare al principio di libera prestazione di servizi della società dell’informazione provenienti da un altro Stato membro, qualora sia necessario per ragioni di ordine pubblico, tutela della salute pubblica, sicurezza pubblica, tutela dei consumatori.

Il quadro normativo in materia appare, tuttavia, ancora lacunoso, generico e incapace di offrire risposte concrete ai problemi complessi che pone la società tecnologica, soprattutto di fronte a crisi di portata mondiale come quelle innescate dalla pandemia da Covid-19 e dal conflitto russo-ucraino.

Emerge, in ogni caso, con evidenza, la complessità del bilanciamento tra libertà di espressione e altri diritti fondamentali o interessi che ne possano giustificare limitazioni. L’individuazione di un equilibrio tra interessi contrastanti è divenuta ancora più complessa con l’evoluzione tecnologica: in una realtà digitalizzata, infatti, la libertà di espressione assume dimensioni più ampie e difficilmente controllabili e, nello scorrere fluviale delle parole, diviene sempre più difficile arginare i discorsi falsi e quelli che incitano all’odio[22].

Davanti a un quadro normativo carente e a una società in continuo sviluppo e cambiamento, l’interpretazione giurisprudenziale assume un ruolo centrale. In particolare, la Corte di Giustizia (CGUE) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) hanno tentato di individuare un punto di equilibrio, un “limite al limite”, nella tutela della libertà di espressione. D’altra parte, come si vedrà, la giurisprudenza di entrambe le corti è stata interessata da un importante processo evolutivo che, in seguito al progresso tecnologico e alle importanti conseguenze della digitalizzazione delle comunicazioni, ha portato negli ultimi anni a un’inversione di tendenza, proprio in considerazione dei rischi legati alla proliferazione incontrollata di fake news e hate speeches[23].

2. L’evoluzione giurisprudenziale della CGUE e della Corte EDU in materia di libertà di espressione

Se, come si è visto, la libertà di parola può essere oggetto di diverse deroghe e limitazioni in caso di conflitto con altri diritti fondamentali, i limiti previsti dagli Stati in osservanza del diritto europeo non possono essere arbitrari, ma devono fondarsi su criteri specifici, individuati dalle norme e dalla giurisprudenza europee. Alla luce del già citato art. 52 della Carta dei diritti, pertanto, qualsiasi limitazione a tale libertà potrà essere considerata legittima soltanto qualora: risponda a una finalità di interesse generale riconosciuto dall’UE o alla necessità di tutelare i diritti e le libertà altrui; sia effettivamente necessaria per conseguire l’obiettivo perseguito; sia proporzionata a tale obiettivo.

La sussistenza della “necessità” e della “proporzionalità” sono valutate, dalla Corte di Giustizia europea, caso per caso: la prima sulla base della pertinenza dei motivi addotti dalle autorità nazionali per giustificare le misure restrittive[24]; la seconda rispetto alla corrispondenza tra mezzi e fini[25]. La casistica relativa a misure di Stati membri aventi l’effetto di limitare libertà o diritti fondamentali, mostra come l’atteggiamento della Corte UE, sin dagli inizi, sia stato quello di sottoporre tali limitazioni, anche qualora sussistesse una legittima esigenza di limitare libertà e diritti, a un test di proporzionalità più rigoroso rispetto a quello applicato in altre materie[26].

Tuttavia, la ratio che sottende alle decisioni del giudice europeo in materia di libertà di espressione è stata, in passato, quella di favorire un’interpretazione espansiva del diritto alla libertà di parola, attraverso l’individuazione di un sistema di garanzie che renda le limitazioni difficili e circoscritte a casi eccezionali[27]. Tuttavia, poiché, come si è già osservato, la costruzione dell’UE è strettamente legata a ragioni economiche, la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di tutela della libertà di espressione si è soprattutto preoccupata di confermare i principi, di volta in volta, affermati dalla Corte EDU, che, al contrario, è da sempre finalizzata alla tutela dei diritti fondamentali e ha svolto un’importante e ingente attività interpretativa dell’art. 10 CEDU.

Le decisioni più incisive della Corte di Giustizia sono relativamente recenti e, risentendo necessariamente dell’evoluzione digitale, riguardano, soprattutto, casi in cui si impone un bilanciamento tra la libertà di parola e alcuni diritti dal carattere più economico, come il diritto d’autore e la protezione dei dati[28].

Rispetto all’impostazione tradizionale delle due corti, quella cioè di riconoscere un paradigma della libertà di parola “rafforzato” attraverso un’interpretazione estensiva del relativo diritto, le pronunce più recenti e, in particolar modo, riguardanti la diffusione delle tecnologie digitali, sembrano segnare un’inversione di tendenza. Esse, infatti, descrivono un paradigma della libertà di espressione in rete “cedevole” di fronte alla tutela di altri interessi contrastanti: in un mondo sempre più digitalizzato la “parola libera” si rivela più pericolosa di quanto non lo sia al di fuori della rete[29]. Si pensi, per esempio, al caso Lindqvist[30] del 2003: la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della direttiva in materia di trattamento di dati personali con la tutela della libertà di espressione, ha ritenuto non sussistere alcuna incompatibilità nelle restrizioni previste a tale libertà. Nel caso di specie, una cittadina svedese era stata condannata dal giudice penale per trattamento illecito dei dati, in quanto aveva pubblicato su un sito internet le generalità e i dati personali di alcuni soggetti senza il loro consenso. O, ancora, nel caso Google Spain[31], dove la CGUE, ritenendo fondato il diritto alla “deindicizzazione”, ha stabilito che spetta ai gestori dei motori di ricerca valutare se sussistano i presupposti per il suo esercizio e se esso sia compatibile con la libertà di informazione: in particolare, un cittadino spagnolo aveva chiesto all’Autorità per la protezione dei dati spagnola di ordinare a Google la cancellazione di alcuni link che rimandavano a dettagli di un procedimento giudiziario subito anni prima dal ricorrente.

In generale, nel bilanciamento operato dalla Corte di Giustizia tra tutela della libertà di parola e tutela della privacy, l’orientamento sembra essere quello della prevalenza della seconda sulla prima. L’approccio della Corte mostra, così, una tendenziale cedevolezza della libertà di espressione rispetto alla tutela dei dati personali. Persino laddove la Corte di Giustizia conclude affermando la prevalenza, nel caso concreto, della libertà di parola, essa non arriva a vietarne alcune limitazioni, ma si limita a chiedere una rimodulazione della misura conforme al principio di proporzionalità: così, per esempio, è avvenuto nel caso Sabam c. Netlog[32], laddove la CGUE ha censurato il provvedimento con cui l’autorità per la protezione dei dati belga aveva imposto ai fornitori di servizi internet l’adozione di un sistema di filtraggio volto a individuare e bloccare eventuali contenuti illecitamente diffusi; il giudice europeo, però, lungi dal dichiarare tali sistemi di filtraggio contrari al diritto europeo, aveva semplicemente ritenuto che si sarebbe dovuto mettere in atto meccanismi proporzionati che non rischiassero di configurare una vera e propria attività di sorveglianza in capo agli operatori.

D’altra parte, anche con riferimento all’applicazione, in generale, del principio di proporzionalità, è noto che, nonostante la Corte di Giustizia lo invochi come strumento essenziale per il controllo giurisdizionale[33], solo raramente arriva ad annullare l’atto impugnato in ragione del positivo accertamento di un vizio di proporzionalità[34]. La rara casistica in cui tale accertamento avviene, riguarda, soprattutto, provvedimenti di irrogazione di sanzioni di diversa natura.

Come si è anticipato, tuttavia, l’esame dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia, deve tenere anche conto dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU. Infatti, ai sensi dell’art. 52 della Carta dei diritti umani, la Corte di Giustizia, è tenuta a esercitare la sua competenza esclusiva a interpretare i trattati e le norme di diritto derivato europeo, quando riguardino diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, conformemente all’interpretazione operata dalla Convenzione europea dei diritti umani e, di riflesso, dalla Corte EDU. D’altra parte, come già si è anticipato, il diritto alla libertà di espressione sancito dalla Carta dei diritti ha lo stesso significato e la stessa portata di quello garantito dalla CEDU[35].

L’attività interpretativa della Corte EDU in materia di tutela della libertà di espressione, si è detto, è stata molto più prolifica e incisiva negli anni rispetto a quella della Corte di Giustizia. In particolare, nella giurisprudenza della Corte EDU si è registrata, negli anni, una progressiva estensione della libertà di parola[36].

In merito, si ricorda per esempio la sentenza Handyside[37] del 1976, con cui la stessa Corte EDU fissò in modo molto ampio i confini della protezione garantita a tale libertà fondamentale. Essa ritenne, infatti, che l’art. 10 dovesse applicarsi non soltanto alle informazioni o alle idee ritenute “favorevoli” e inoffensive dai consociati, ma anche alle espressioni considerate offensive o disturbanti, in conformità ai principi del pluralismo e della tolleranza. Tale pronuncia, che estende la tutela alla libertà di espressione a prescindere dal livello di gradimento sociale, introduce la riflessione sul cd. hate speech, di cui si tratterà di seguito. Lo stesso orientamento, peraltro, è stato ulteriormente confermato con la sentenza Jersild[38] nella quale la Corte ha statuito che la Danimarca avesse violato l’art. 10 CEDU, imponendo una condanna nei confronti di un giornalista che aveva intervistato soggetti appartenenti a organizzazioni politiche estremiste, i quali avevano rilasciato dichiarazioni offensive e razziste.

In ogni caso, la giurisprudenza della Corte EDU, oltre a conferire un’ampia protezione alla libertà di parola, ha chiarito il contenuto della tutela di cui all’art. 10, definendo un test in tre fasi per verificare la legittimità di una limitazione a tale libertà. Perché ciò avvenga, infatti, questa deve, innanzitutto, essere prescritta per legge; perseguire uno degli scopi legittimi, indicati nell’art. 10; essere necessaria e, pertanto, rispondere a un urgente bisogno sociale[39].

Qualora l’interferenza con la libertà di espressione superi positivamente il primo test, per essere considerata legittima deve sottostare a un ulteriore esame volto a valutare l’adeguatezza della misura adottata rispetto al raggiungimento del fine dichiarato[40] e al grado di invadenza da parte dello Stato[41]. Nell’applicare tali criteri, tuttavia, la Corte affida agli Stati un ampio “margine di discrezionalità”, tale da poter giustificare una differenza di tutela tra i vari Stati firmatari della Convenzione[42].

Tuttavia, la giurisprudenza più recente della Corte europea, con riferimento ai ricorsi relativi a presunte violazioni della libertà di espressione online, segue la stessa tendenza della Corte di Giustizia, sopra illustrata: come quest’ultima, infatti, anche la Corte EDU plasma il proprio indirizzo rispetto al diverso contesto sociale e, in questo modo, inverte la tendenza che sinora aveva contraddistinto la sua giurisprudenza, riduce la portata espansiva delle sue precedenti applicazioni dell’art. 10 e si mostra più incline a riconoscere possibili limitazioni della libertà di espressione online.

Anche nella più recente giurisprudenza della Corte EDU, pertanto, emerge una “cedevolezza” della tutela della libertà di parola. Si pensi, per esempio, al caso Editorial Board of Pravoye Delo e Shtekel c. Ucraina[43] del 2011, con cui è stata illustrata la differenza tra i media stampati e quelli online e si statuisce che, rispetto ai primi, i secondi, presentando maggiori rischi di danni e violazioni, necessitino di regole e controlli più stringenti. Ancora, nella sentenza Stoll c. Svizzera[44] del 2007, la Corte ha sancito che la tutela di cui all’art. 10 rispetto al diritto di cronaca dei giornalisti è subordinata alla condizione che essi agiscano in “buona fede” e forniscano informazioni “affidabili e precise”: infatti, viviamo «in un mondo in cui l’individuo si confronta con grandi quantità di informazioni diffuse attraverso i media tradizionali ed elettronici che coinvolgono un numero sempre crescente di attori» e, pertanto, «il monitoraggio del rispetto dell’etica giornalistica assume un’importanza ancora maggiore».

Ancora, nel caso Delfi c. Estonia[45] del 2015, la Corte EDU, giustificando una interpretazione più restrittiva della tutela della libertà di parola, ha evidenziato come «I discorsi diffamatori e altri tipi di discorsi chiaramente illegali, inclusi discorsi di odio e discorsi che incitano alla violenza, possono essere diffusi come mai prima d’ora, in tutto il mondo, in pochi secondi, e talvolta rimangono persistentemente disponibili online»[46].

3. Hate speech: l’approccio della Corte EDU

L’intervento della CGUE in materia di hate speech risulta molto ridotto, posto che la Corte ha affrontato la definizione di discorso d’odio soltanto nelle decisioni Mesopotamia Broadcast e Roj TV[47], entrambe relative al settore dei servizi media audiovisivi. Tale condizione rende, ovviamente, complessa, da parte dei giudici nazionali, l’interpretazione del quadro giuridico europeo in materia. Più prolifica e chiara è, un’altra volta, la giurisprudenza della Corte EDU nella quale, al contrario, si apprezza un importante sforzo interpretativo per chiarire il “margine di tolleranza” nella libertà di esprimersi, definire il perimetro della tutela del diritto alla libertà di parola e la sua “cedevolezza” di fronte a interessi eventualmente ritenuti prevalenti.

Si è già osservato che il confine delle limitazioni alla libertà di espressione è determinato, nel caso concreto, attraverso il superamento del “test di necessità” e del “test di proporzionalità” elaborati dalla Corte, sulla base delle espresse previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 10 cit.). Con specifico riferimento ai discorsi d’odio, tuttavia, la Corte ha elaborato un sistema che prevede la possibilità, a seconda dei casi, di applicare due diversi approcci: un primo approccio utilizza una lente di osservazione più ampia, applicando al caso concreto l’art. 17 CEDU che vieta l’abuso del diritto e, in particolare, sancisce che «Nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, gruppo o individuo di esercitare un’attività o compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti (…) o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni maggiori di quelle previste da questa Convenzione»; il secondo approccio, invece, utilizza la lente più ristretta dell’art. 10, comma 2, valutando la legittimità delle limitazioni imposte alla libertà di parola sulla base dei test di cui si è detto.

Tra le applicazioni più rilevanti dell’approccio “ristretto” – quello di cui all’art. 10 – c’è, per esempio, il caso Féret c. Belgio[48] del 2009. Il caso è relativo a un parlamentare belga, Presidente del partito politico di estrema destra Front National, il quale era stato accusato in Belgio di aver distribuito, durante la campagna elettorale, volantini che incitavano all’odio razziale. La Corte EDU ha ritenuto legittime le decisioni delle corti nazionali, ritenendo giustificate le restrizioni alla libertà di espressione imposte dalla legge belga: esse erano necessarie al fine di prevenire disordini pubblici e proporzionate rispetto alla maggiore risonanza che la propaganda politica ha nel periodo elettorale.

In un altro caso (Jersild c. Danimarca, su citato) la Corte ha, invece, ritenuto illegittima la condanna di un giornalista – accusato di aver dedicato una parte di un documentario a un gruppo razzista danese – ritenendo che la limitazione alla libertà di espressione del giornalista, perpetrata nel suo Paese, violasse l’art. 10, poiché costui non intendeva in alcun modo diffondere opinioni razziste, ma soltanto informare il pubblico. Le limitazioni venivano, pertanto, ritenute non necessarie e sproporzionate.

In un altro caso ancora (Perinçek c. Svizzera, del 2015)[49] la Corte ha ritenuto che il discorso tenuto da un politico turco, pur rappresentando effettivamente un discorso d’odio (questi aveva sminuito la portata della strage degli armeni, perpetrata dall’impero ottomano nel 1915, sostenendo che non si sarebbe trattato di un genocidio), non era tale da giustificare le decisioni delle corti svizzere, in ragione della sproporzione della sanzione penale comminata e della non necessità della stessa ai fini della tutela dei diritti degli armeni. La Corte, infatti, non reputa un discorso offensivo, seppure disturbante o scioccante, in grado, da solo, di limitare la libertà di parola; perché le limitazioni possano essere considerate necessarie e proporzionate, occorre tenere conto del contesto, delle intenzioni, della posizione dell’autore del discorso, della forma con cui questo viene enunciato e del suo impatto effettivo.

Tra le applicazioni più rilevanti dell’approccio più ampio, che muove dall’art. 17 CEDU, si richiama invece il caso M’Bala M’Bala c. Francia[50] del 2015, dove la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su una condanna di un comico per insulti pubblici a sfondo antisemita durante un suo spettacolo a Parigi. In merito, la Corte ha ritenuto che la richiesta dell’accusato non avrebbe potuto essere considerata ammissibile ai sensi dell’art. 17, posto che in tal modo il richiedente stava semplicemente cercando di aggirare l’art. 10.

In merito, si può notare che la sentenza della Corte EDU applichi l’art. 17 per affermare l’inammissibilità di domande poste da chi, comunque, non possa far valere la tutela di cui all’art. 10.

Nello stesso modo, la Corte decide in un altro caso (Belkacem c. Belgio, del 2017)[51], dichiarando irricevibile il ricorso presentato dal leader dell’organizzazione “Sharia4Belgio”, condannato per incitamento alla discriminazione e alla violenza in seguito alla diffusione su YouTube di alcuni video riguardanti gruppi non musulmani.

4. La libertà di parola e la disinformazione di regime

Si vogliano, ora, tirare le fila del discorso, alla luce delle evidenti novità rappresentate dalle sanzioni europee che prevedono limitazioni della libertà di espressione giustificate sulla base di interessi in questo caso concomitanti: l’interesse a che i cittadini europei non ricevano informazioni false e narrazioni fantasiose e propagandistiche rispetto alla guerra russo-ucraina; l’interesse a evitare che, attraverso i media, siano diffusi discorsi volti a incitare all’odio, alla violenza, giustificando l’attacco all’Ucraina. I concetti di fake news e hate speech sono, in tale situazione specifica, non soltanto compresenti, ma l’uno diventa il mezzo e l’altro il fine: pertanto, disinformare, diffondendo false notizie, è un’azione finalizzata a sostenere le ragioni della guerra o, peggio, a “bypassare” il giudizio morale dell’opinione pubblica, attraverso narrazioni non veritiere, che confondono i ruoli dell’attaccato e dell’attaccante (tra le false notizie promosse dagli apparati di propaganda vi sono, per esempio, l’affermazione di un presunto genocidio perpetrato dall’Ucraina nei confronti dei suoi abitanti di lingua russa o quella per cui l’ideologia nazista sarebbe radicata nella leadership politica del Paese).

L’azione dell’UE nei confronti della libertà di espressione di emittenti russe rappresenta, in ogni caso, un’assoluta novità, ponendosi in discontinuità rispetto a un principio sempre affermato e confermato dalla Corte di Giustizia: essa, infatti, ha sempre ribadito come rientrasse nella piena discrezionalità degli Stati membri ogni decisione relativa a limitazioni della libertà di parola; in tale assetto, il giudice europeo si pone come un arbitro, a chiusura del sistema, e interviene solo per verificare la necessità e la proporzionalità delle misure.

Né, l’Unione europea si era trovata prima d’ora a esercitare poteri così incisivi in materia di diritti umani. Si ricorda, infatti, che le sanzioni sono vincolanti sia per i diretti destinatari – i soggetti accusati di propaganda di regime – sia per gli Stati membri ai quali è vietato eludere il contenuto delle sanzioni, offrendo spazio, negli spazi mediatici nazionali, ai discorsi propagandistici che rientrano nell’ambito di applicazione delle sanzioni.

Si può sostenere, pertanto, che agendo così, l’Unione europea abbia ampliato le proprie competenze in materia di discorso d’odio (e, quindi, anche in materia di libertà di espressione), assumendo un peso più importante, rispetto a quello ricoperto, in passato, nell’ambito della tutela dei diritti umani.

D’altra parte, però, il Tribunale europeo, con sentenza RT France c. Consiglio (Causa T-125/22 cit.), ha chiarito che tale azione non rientri in una competenza generica dell’UE in materia di diritti umani, ma in quella riconosciuta, innanzitutto, dall’art. 3, par. 5, del TUE, a norma del quale «nelle sue relazioni con il resto del mondo, l’Unione afferma e promuove i suoi valori e i suoi interessi e contribuisce alla protezione dei suoi cittadini» oltre che «alla pace, alla sicurezza» ecc. Inoltre, la decisione sanzionatoria impugnata, secondo il Tribunale europeo, rientra nella competenza dell’UE in materia di politica estera e sicurezza comune: in tale ambito, infatti, il Consiglio ha il potere di adottare decisioni che definiscano la posizione dell’Unione su una particolare questione (art. 29) e che comprende tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione (art. 24). Pertanto, l’intervento dell’UE è giustificato dal fatto che le emittenti oggetto di blocco rappresentano una minaccia significativa e diretta per l’ordine pubblico e la sicurezza nell’UE.

Di grande interesse è l’argomentazione adoperata dal Tribunale europeo per fondare la competenza UE in materia di sicurezza: esso, infatti, compara fake news e hate speech ad armi di guerra, ritenendo che «le campagne di propaganda e di disinformazione possono mettere in discussione i fondamenti delle società democratiche e costituire parte integrante dell’arsenale della guerra moderna» (considerando 56).

Al di là della questione relativa alla competenza dell’UE in materia, di particolare interesse risulta anche l’argomentazione usata dal Tribunale al fine di giustificare la legittimità delle restrizioni adottate nei confronti dei media russi.

Innanzitutto, lo stesso art. 29 TUE, richiamato per asserire la competenza del Tribunale, viene considerato la base giuridica che assolve la prima delle tre condizioni[52] in presenza delle quali possono essere considerate legittime le restrizioni alla libertà di parola: cioè, che tali restrizioni siano prescritte dalla legge. Nonostante questa norma non faccia espresso riferimento alla possibilità di limitare la libertà di espressione dei media in caso di propaganda a favore della guerra, il Tribunale interpreta il criterio in maniera particolarmente estensiva: ritiene che, perché sia assolto il requisito della prevedibilità, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto non devono essere «prevedibili con assoluta certezza»; che, in ogni caso, al Consiglio è dato un potere discrezionale molto ampio per l’adozione di misure restrittive; e che, comunque, «era prevedibile che, tenuto conto dell’importanza del ruolo che i media giocano nella società, il sostegno mediatico su larga scala all’aggressione militare dell’Ucraina da parte della Federazione Russa» avrebbe potuto portare all’adozione di misure restrittive[53].

In secondo luogo, dalla sentenza risulta chiaro che il diritto dei media di comunicare informazioni debba essere tutelato soltanto a condizione che i giornalisti agiscano in “buona fede” e forniscano informazioni affidabili e accurate nel rispetto dei principi del giornalismo responsabile. Si tratta di indirizzi già espressi dalla Corte EDU[54] ma dei quali viene sottolineata l’importanza in ragione della situazione socio-economica attuale.

Il giudice europeo, infatti, conferma come la cedevolezza della libertà di parola dipenda proprio dalla “fluidificazione” delle comunicazioni e delle informazioni causate, innanzitutto, dal passaggio dalla carta stampata alla video e radio-diffusione, ma anche dal processo di digitalizzazione. In merito, il Tribunale chiarisce che «queste considerazioni giocano un ruolo particolarmente importante oggi, rispetto al potere esercitato dai media nella società moderna, perché non solo informano, ma possono al tempo stesso suggerire, attraverso la modalità di presentazione delle informazioni, come i destinatari dovrebbero apprezzarli». Questa statuizione sembra riguardare – seppure il riferimento è implicito – anche e soprattutto i social network, nei quali l’informazione cambia veste e incorpora, oltre al messaggio, anche l’algoritmo: il rapporto tra “informazione” e destinatario muta in modo significativo, perché, mentre nel sistema tradizionale il destinatario selezionava l’informazione, in quello contemporaneo il destinatario è selezionato dall’informazione stessa.

Peraltro, nel ragionamento del Tribunale europeo, questa argomentazione rappresenta il perno intorno al quale ruota la valutazione della proporzionalità della misura[55]: come si può leggere nella sentenza, «l’impatto potenziale dei mezzi di espressione interessati deve essere preso in considerazione nell’esaminare la proporzionalità dell’ingerenza». Nell’applicare il test di proporzionalità e valutare l’ingerenza delle limitazioni, il Tribunale sancisce doversi tenere conto dell’impatto assai maggiore che alcuni messaggi, per i contenitori attraverso i quali sono diffusi, hanno rispetto alla parola scritta. Il giudice, inoltre, come è ovvio, tiene conto del «contesto straordinario ed estremamente urgente» derivante «dall’intensificarsi dell’aggressione militare»[56].

Sempre a proposito della proporzionalità della misura, il giudice europeo si pone un’ulteriore domanda: ovvero, se sarebbe stato possibile raggiungere l’obiettivo di interesse generale perseguito dall’Unione – proteggere l’ordine e la sicurezza pubblica e preservare l’integrità del dibattito democratico nella società europea[57] – adottando misure diverse e meno restrittive. Si tratta di individuare un altro requisito richiesto dal test di proporzionalità e, nel rispondere alla questione, il Tribunale individua alcune ipotesi alternative, per poi escluderne la fattibilità. Meno restrittive sarebbero state, per esempio, misure che vietassero la trasmissione delle notizie solo in taluni Paesi (e che il Tribunale ha ritenuto “impossibili da attuare”) o imponessero un divieto limitato a talune modalità di programmi e a talune tipologie di contenuti, ma anche il mero obbligo di esporre un banner che avvisasse del fine propagandistico di quanto messo in onda (misura che avrebbe avuto, a dire del giudice UE, un’efficacia limitata). Il Tribunale ritiene, pertanto, che tutti questi metodi non sarebbero stati efficaci a fermare le minacce dirette all’ordine pubblico e alla sicurezza dell’UE, poiché non avrebbero avuto la forza persuasiva di «esercitare la massima pressione sulle autorità russe affinché pongano fine all’aggressione militare dell’Ucraina».

La temporaneità delle misure rappresenta, inoltre, un’ulteriore conferma della proporzionalità dell’azione del Consiglio, così come anche il fatto che queste facciano parte di una strategia generale di risposta rapida, unificata, graduale e coordinata adottata dall’Unione. Non si è trattato, infatti, di censurare mere informazioni, ma di bloccare sul nascere la possibilità che «operazioni di manipolazione e influenza ostile» definissero le sorti della guerra sin dai primi giorni di tale aggressione.[58]

Infine, il Tribunale, nell’argomentare come, nel caso di specie, il bilanciamento tra diversi interessi abbia necessariamente portato a sacrificare la tutela della libertà di parola a favore di interessi ritenuti prevalenti, ricorda che ogni diritto implica doveri corrispondenti. Pertanto, tenuto anche conto del fatto che «l’esercizio della libertà di espressione comporta doveri e responsabilità, tanto più importanti per quanto riguarda i media audiovisivi», la ricorrente non aveva alcun titolo per richiedere la protezione rafforzata che l’art. 11 della Carta dei diritti conferisce alla libertà di stampa, trattandosi di «un mass media che è sostanzialmente sotto il controllo, diretto o indiretto, dello Stato aggressore» per giustificare e sostenere un atto di aggressione militare, perpetrato in violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.

Il carattere non indipendente e non imparziale dei soggetti censurati assume, quindi, un peso nella motivazione della sentenza che giudica necessaria, adeguata e proporzionata la censura prevista dall’UE.

  1. Il presente scritto costituisce il frutto di una ricerca condotta in seno al progetto di ricerca CELO – Conoscenza e educazione per il contrasto al linguaggio dell’odio (UNITUS – ILIESI CNR). Sullo stesso tema, in forma breve, è stata presentata una relazione al convegno Tradurre l’odio, Forme dei linguaggi nelle società e nella storia, il quale ha avuto luogo nei giorni 20-21 aprile 2023 presso il Dipartimento di studi linguistico-letterari, storico-filosofici e giuridici (DISTU) dell’Università degli Studi della Tuscia. Sono grata alla responsabile scientifica del progetto CELO, Prof. Raffaella Petrilli e al responsabile scientifico del Progetto RSI, Prof. Giulio Vesperini. Ringrazio, inoltre, il Direttore del Dipartimento DISTU, Prof. Luca Lorenzetti, nonché il Prof. Saverio Ricci, per l’ospitalità.
  2. C. Cellerino, La difesa europea dinanzi alla guerra in Ucraina tra “autonomia strategica” e vincoli strutturali: quali prospettive per la Difesa comune?, in Il diritto dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 1, 2022; M. Vellano, La guerra in Ucraina e le conseguenti decisioni dell’Unione europea in materia di sicurezza e difesa comune, in Il diritto dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 1, 2022; P. Koustrakos, The EU Common Security and Defence Policy, Oxford University Press, Oxford, 2013, 4; S. Duke, The enigmatic role of defence in the EU: From EDC to EDU?, in Europ. Foreign Affairs Rev., 2018, 63 ss.
  3. Sull’applicazione del principio di proporzionalità nel diritto dell’Unione europea – di cui successivamente si tratterà – v. ex multis D.U. Galetta, voce Proporzionalità e controllo sull’azione dei pubblici poteri, in Enc. Del Diritto, V, 2023, 1041 ss.
  4. V. Regolamento 2022/350/UE del Consiglio contenente emendamenti al Regolamento 2014/833/UE del Parlamento e del Consiglio relative alle misure restrittive elargite in ragione delle azioni poste in essere dalla Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina; Decisione 2022/351/UE del Consiglio (CFSP) che emenda la Decisione 2014/512/UE del Consiglio (CFSP) relative alle stesse misure restrittive di cui sopra. Si trattava, già, del terzo pacchetto di sanzioni, adottato dopo il primo pacchetto del 23 febbraio 2022 (pubblicato nella GUUE, L 063, vol. 65, del 23 febbraio 2022) e il secondo pacchetto del 25 febbraio 2022 (pubblicato nella GUUE del 25 febbraio 2022). A questi, hanno fatto seguito altri nove pacchetti (sino all’ultimo, adottato il 25 febbraio 2023. Per una disamina più completa di tutti i pacchetti e le sanzioni adottate dall’UE contro la Russia, nonché delle misure adottate a sostegno dell’Ucraina, consulta https://eu-solidarity-ukraine.ec.europa.eu.
  5. Il sesto pacchetto di sanzioni – composto da cinque regolamenti e cinque decisioni del Consiglio – è stato pubblicato nella GUUE, L 153, vol. 65, 3 giugno 2022.
  6. Il nono pacchetto di sanzioni è stato adottato il 16 dicembre 2022, è composto da tre regolamenti e tre decisioni ed è stato pubblicato nella GUUE, l322I, vol. 65, 16 dicembre 2022.
  7. Il decimo pacchetto è stato adottato il 25 febbraio 2023, è composto da cinque regolamenti e quattro decisioni ed è stato pubblicato nella GUUE, L 59I, vol. 66 del 25 febbraio 2023.
  8. Per una più ampia ricostruzione, si vedano le Conclusioni del Consiglio europeo, 23 e 24 giugno 2022, consultabili in data.consilium.europa.eu.
  9. Codice di condotta sulla disinformazione è il codice di condotta adottato, nell’ottobre 2018, dalle tech companies, in accordo tra loro, come “auto-regolamentazione” per contenere la disinformazione e in attuazione della Comunicazione presentata dalla Commissione nell’aprile 2018. A tale codice, ha fatto seguito il Codice di condotta rafforzato sulla disinformazione, adottato nel 2022.
  10. O. Pollicino, Migrazioni di idee costituzionali e implicazioni per le opzioni rilevanti di politica del diritto: il caso della strategia europea contro la disinformazione on line, in AA. VV., Libertà di informazione e diritto dell’Unione europea: le nuove sfide a tutela della democrazia e del pluralismo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022, 89 ss.
  11. In particolare, nel luglio 2022 la Commissione e i firmatari del Codice di condotta del 2018 hanno lanciato una “call for interest to become a Signatory” del codice, alla quale ha fatto seguito l’adozione del Codice di condotta rafforzato sulla disinformazione, il 16 giugno 2022.
  12. Il Digital Services Act è stato adottato con Regolamento 2022/1925/EU del Parlamento Europeo e del Consiglio per mercati equi e contendibili nel settore digitale e sarà direttamente applicabile in tutta l’UE a decorrere dal 1° gennaio 2024.
  13. RT France, l’8 marzo 2022, ha proposto ricorso contro il Consiglio, chiedendo l’annullamento della decisione 2022/351/PESC del 1° marzo 2022, adducendo una violazione, tra l’altro, del diritto alla libertà di espressione. Il ricorso ha portato alla Causa T-125/22, che si è conclusa con la sentenza del Tribunale del 27 luglio 2022 con la quale questo ha respinto il ricorso: Tribunale, sentenza 27 luglio 2022, T-125/2022, RT France c. Consiglio. Il 28 marzo 2023, RT France ha proposto un nuovo ricorso contro la decisione 2023/191/PESC, del Consiglio, del 27 gennaio 2023, chiedendone l’annullamento poiché, tra gli altri motivi, violerebbe la libertà di espressione. Di tale causa si attendono gli sviluppi.
  14. Tribunale, sentenza 27 luglio 2022, T-125/2022 cit.
  15. In merito v. Daily News, 16 novembre 2022, in ec.europa.eu/commission/presscorner. V. Anche L’UE avverte i media italiani di non favorire la propaganda russa dando la parola a ospiti di regime nei talk show, in Eunews.it
  16. Per un approfondimento sul concetto giuridico di hate speech, soprattutto in materia penale, ma non solo cfr: G. Alpa, Sicurezza e linguaggio dell’odio. Tutela della persona e protezione dei dati personali: i diritti nell’era dei “social media”, in Cultura e diritti, 2017, 2-3, 11-41; G. Pitruzzella, O. Pollicino, S. Quintarelli, Parole e potere. Libertà di espressione, hate speech e fake news, Egea, Milano, 2017, VI, 146; O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, in La rivista di diritto dei media, 2018, 1, 1-29; A. Vallini, Criminalizzare l’”hate speech” per scongiurare la “collective violence”? Ipotesi di lavoro intorno al reato di “propaganda razzista”, in Studi sulla questione criminale, 2020, 1, 33-62; F. Bellagamba, Dalla criminalizzazione dei discorsi d’odio all’aggravante del negazionismo: nient’altro che un prodotto della legislazione penale simbolica?, in Criminalia, 2018, 265-290; L. Gosis, “Hate crimes”: perché punire l’odio. Una prospettiva internazionale, comparatistica e politico-criminale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2018, 4, 2010-2069; L. D’amico, Le forme dell’odio. Un possibile bilanciamento tra irrilevanza penale e repressione, in Legislazione penale, 2020, 6, 1-40.
  17. Corte Edu, sentenza 6 luglio 2006, ricorso 59405/00, Erbakan c. Turchia.
  18. Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.
  19. L. Scaffardi, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, Cedam, Padova, 2010.
  20. Direttiva 2018/1808/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, recante modifica della direttiva 2010/13/UE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi (direttiva sui servizi dei media audiovisivi), in considerazione dell’evoluzione delle realtà del mercato.
  21. Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (direttiva sul commercio elettronico).
  22. L. Lessing, Reading the Constitution in Cyberspace, in Emory Law Journal, 1996, 45, 1.
  23. O. Pollicino, Internet nella giurisprudenza delle Corti europee: prove di dialogo?, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2013, 1.
  24. Corte giust., sentenza 25 marzo 2004, C-71/02, Herbert Karner Industrie-Auktionen GmbH c. Troostwijk GmbH.
  25. L. Woods, Art. 11, in S. Peers et al., The EU Charter of Fundamental Rights: a commentary, Hart Publishing, Londra, 2014, 329.
  26. Cfr. D.U. Galetta, voce Proporzionalità e controllo sull’azione dei pubblici poteri, cit., 1043 ss. (spec. Nota 100). In particolare, si ricorda che la prima applicazione del test di proporzionalità nel contesto di misure di Stati membri aventi l’effetto di limitare libertà o diritti fondamentali previsti dal Trattato o da norme UE di diritto derivato, è quella di cui al noto caso Corte giust., sentenza 20 febbraio 1979, C-120/78, Cassis de Dijon. In seguito, tra le molte altre sentenze, si vedano: Corte giust., sentenza 4 dicembre 2008, C-221/07, Zablocka-Weyhermüller; Corte giust., 16 dicembre 2008, C-205/07, Lodewijk Gysbrechts; Corte giust., 22 dicembre 2008, C-336/07, Kabel Deutschland; Corte giust., 10 febbraio 2009, C-110/05, Commissione c. Repubblica italiana.
  27. In tal senso, ex multis, cfr. Corte giust., C-274/99, Connolly, cit.; Corte giust., sentenza 6 settembre 2011, Patriciello, Causa C-163/10, Patriciello; Corte giust., sentenza 17 dicembre 2015, C-157/14, Neptune Distribution; Corte giust., sentenza 4 maggio 2016, C-547/14, Philip Morris; Corte giust., sentenza 29 luglio 2019, C-469/17, Funke Medien; Corte giust., sentenza 29 luglio 2019, C-516/17, Spiegel online.
  28. O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, cit., 12; O. Pollicino, M. Bassini, Free speech, defamation and the limits to freedom of expression in the EU: a comparative analysis, in A. Savin-J. Trzaskowski, Research Handbook On EU Internet Law, Elgar, Cheltenham-Northampton, 2014, 508; M. Orofino, La libertà di espressione tra Costituzione e Carte europee dei diritti, cit.
  29. O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, cit., 14.
  30. Corte giust., sentenza 6 novembre 2003, C-101/01, Bodil Lindqvist.
  31. Corte giust., sentenza 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain SL e Google Inc. c. Agencia Española de protección de Datos (AEPD) e Mario Costeja González.
  32. Corte giust., sentenza 16 febbraio 2012, C-360/10, SABAM c. Netlog. Per un commento si rimanda a R. Petruso, Fatto illecito degli intermediari tecnici della rete e diritto d’autore: un’indagine di diritto comparato, in Europa e diritto privato, 2012, 1175 ss.
  33. Cfr. D.U. Galetta, Il principio di proporzionalità, in M.A. Sandulli, Codice dell’azione amministrativa, Giuffrè, Milano, 2017, 149 ss.
  34. Sul punto. v. D.U. Galetta, voce Proporzionalità e controllo sull’azione dei pubblici poteri, cit., 1043 e ss. (spec. Nota 99). In particolare, v. le sentenze Schecke e Digital Rights Ireland, in cui la Corte di Giustizia ha accertato un vizio di proporzionalità, dichiarando illegittimo il diritto dell’UE derivato poiché in contrasto, rispettivamente, con il diritto fondamentale alla privacy e con quello alla protezione dei dati personali. In tal senso v. Corte giust., sentenza 9 novembre 2010, cause riunite C-92/09 e C-93/09, Schecke, e Corte giust., sentenza 8 aprile 2014, cause riunite C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland.
  35. Come, peraltro, esplicitamente confermano le “Spiegazioni” relative alla Carta dei diritti fondamentali, in GUUE, C 303 del 14 dicembre 2007, 14 ss., le quali sono state elaborate al fine di fornire un corretto orientamento interpretativo e che, seppure non vincolanti, costituiscono un importante strumento ausiliario di interpretazione.
  36. V. Salvatore, La libertà di espressione, cit., 23. In tal senso v. ex multis, F. Pocar, Commentario breve ai trattati dell’unione europea, Cedam, Padova, 2014.
  37. Corte Edu, sentenza 7 dicembre 1976, ricorso n. 5493/72, Handyside c. UK.
  38. Corte Edu, sentenza 23 settembre 1994, ricorso n. 15890/89, Jersild c. Danimarca.
  39. Corte Edu, Handyside c UK, cit., par. 48.
  40. Corte Edu, sentenza 8 luglio 1986, ricorso n. 9815/82, Lingens c. Austria.
  41. Corte Edu, sentenza 7 novembre 2006, ricorso n. 12697/03, Mamère c. France.
  42. Così, il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati risulta essere più ampio negli ambiti che implicano una scelta morale – Corte Edu, sentenza 24 maggio 1988, ricorso n. 10737/84, Müller e altri c. Svizzera – e meno ampi rispetto al discorso politico o alla critica al potere giudiziario – Corte Edu, sentenza 6 maggio 2003, ricorso n. 48898/99, Perna c. Italy). Sul punto v. F. Casarosa, Libertà di espressione e contrasto ai discorsi d’odio, in Handbook sulle tecniche di interazione giudiziale nell’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, EUI.
  43. Corte Edu, sentenza 5 maggio 2011, ricorso n. 33014/05, Editorial board of Pravove Delo and Shtekel c. Ucraina.
  44. Corte Edu, sentenza 25 aprile 2006, ricorso n. 69698/01, Stoll c. Svizzera.
  45. Corte Edu, sentenza 10 ottobre 2013, ricorso n. 64569/09, Delfi AS c. Estonia.
  46. Per un maggiore approfondimento sulla giurisprudenza della Corte Edu, v. Pollicino, ult. cit.
  47. Corte giust., sentenza 22 settembre 2011, cause riunite C-244/10 e C-245/10, Mesopotamia Broadcast METV AS e Roj TV AS c. Germania.
  48. Corte Edu, sentenza 16 luglio 2009, ricorso n. 15615/07, Féret c. Belgio.
  49. Corte Edu, sentenza 15 ottobre 2015, ricorso n. 27510/08, Prinçek c. Svizzera.
  50. Corte Edu, sentenza 20 ottobre 2015, ricorso n. 25239/13, M’Bala M’Bala c. Francia.
  51. Corte Edu, sentenza 20 luglio 2017, ricorso n. 34367/14, Belkacem c. Belgio.
  52. Si ricorda, infatti, che la giurisprudenza della Corte Edu, oltre a conferire un’ampia protezione alla libertà di parola, ha chiarito il contenuto della tutela di cui all’art. 10, ritenendo che una limitazione alla libertà di espressione può essere considerata legittima solo se: è prescritta per legge; persegue uno degli scopi legittimi, indicati nell’art. 10; è necessaria e, pertanto, risponde a un urgente bisogno sociale.
  53. Punti 149-152 della sentenza citata nel testo.
  54. Corte Edu, sentenza 5 aprile 2022, ricorso n. 28470/12, NIT s.r.l. c. Repubblica di Moldova.
  55. Punto 168 della sentenza in commento.
  56. Punto 191-195.
  57. Punti 160-167.
  58. Punto 199 della sentenza in commento.

Anna Giurickovic Dato

Lawyer at the Bar of Rome. Research fellow in Administrative Law at the University of Rome “Tor Vergata". Contract Professor of Tourism Law at the "Mercatorum" University.