Il servizio sanitario nazionale oggi e gli operatori privati nel campo della sanità: qualche semplice spunto di riflessione

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2/2023

Il servizio sanitario nazionale oggi e gli operatori privati nel campo della sanità: qualche semplice spunto di riflessione

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Il contributo analizza il rapporto che intercorre fra soggetti pubblici e privati nel contesto del servizio sanitario nazionale (italiano). Tale relazione non soltanto caratterizza e condiziona la struttura e l’organizzazione del SSN, ma incide altresì sul diritto alla salute dei cittadini-utenti.


The Italian National Health Service today and private actors in healthcare: some food for thought
The paper analyses the relationship between public and private actors in the context of the Italian National Health Service. This relationship not only characterizes and conditions the structure and organisation of the NHS, but also affects the right to health of citizens-users.

Sommario. 1. Riflessioni introduttive e inquadramento del tema.- 2. Il rapporto pubblico-privato nell’ambito sanitario.- 3. La legittimazione pubblica (e il dovere costituzionale) a intervenire nell’ambito sanitario….- 4. …e quella del privato, nell’oscillante moto del pendolo del SSN.- 5. Considerazioni conclusive: la centralità del principio della doppia legittimazione (pubblica e privata) nel diritto alla salute.

1. Riflessioni introduttive e inquadramento del tema

Mi sembra opportuno, pur consapevole del fatto che l’ordinamento della sanità pubblica evoca una massa di problemi vasta e variegata (e di non agevole soluzione), soffermarmi ancora[1] su quello che a me pare essere un problema nel problema, ossia un tema strategico che finisce col rappresentare la cartina di tornasole grazie alla quale testare lo stato di salute del nostro servizio sanitario nazionale (SSN), nella sua attuale struttura ed organizzazione, oltre che – ovviamente! – per la sua capacità di operare, sul piano quali-quantitativo, in maniera performante e con risultati satisfattivi a vantaggio degli utenti del servizio medesimo.

Va da sé, infatti, senza che siano necessari più diffusi passaggi argomentativi, che la rilevanza strutturale del rapporto fra ciò che è “pubblico” (le strutture e gli operatori, ossia il personale, a cominciare dalla dirigenza) e ciò che è “privato” (e cioè, ancora una volta, le strutture e gli operatori privati della sanità) segna in profondità, ed in modo tanto evidente quanto incontestabile, alla stregua di una vera e propria costante sistemica, l’intero processo di costruzione e l’evoluzione del nostro servizio sanitario nazionale; ed è del pari assolutamente chiaro, sotto questo riguardo, che la nota vicenda pandemica ha portato alla luce, e anzi ad evidenza solare, problematiche e criticità già latenti, o quantomeno sotto traccia, già a far tempo dalla l. n. 833/1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale.

Mi sembra anzi possibile una prima considerazione di massima, confortata del resto dalle indagini e dalle ricerche dei sociologi e degli economisti specializzati nel campo della sanità pubblica[2]: il rapporto fra ciò che è “pubblico” (il servizio sanitario tout court) e ciò che è “privato” (ossia i privati tutti, ma soprattutto quelli che siano legati e connessi, grazie a vincoli pattizi/contrattuali, con il servizio pubblico) si caratterizza da sempre per una sorta di “moto del pendolo”, in quanto la disciplina positiva del nostro servizio pubblico oscilla, e non sempre coerentemente, fra una visione di “privilegio”, o comunque di quasi orgogliosa e patriottica rivendicazione del ruolo primario che deve essere giocato dalla “mano pubblica”, ed un approccio che, in senso parzialmente contrario, mira invece a posizionare su di un piano di virtuale parità gli operatori privati della sanità ed il servizio pubblico.

Ora, se questo è vero, non sembra dubbio, a mio parere, che la vicenda pandemica ha in qualche modo rimescolato le carte, mettendo certamente a nudo alcune fragilità e debolezze dell’organizzazione pubblica del servizio sanitario, peraltro già note, sebbene oggi ne appaiano enfatizzate le criticità, e proponendo, per altro verso, in modo forte, e non eludibile il quesito, dal quale sono partito ed a cui cercherò di dare una risposta di massima: ma, insomma, il diritto positivo ci offre una qualche possibile soluzione, seria ed equilibrata, grazie alla quale tenere insieme le (ottime) ragioni dei pazienti/utenti del servizio pubblico e le (comunque buone) ragioni dei soggetti privati che operano come professionisti e come imprese nel campo della sanità?

Infatti, senza che il quadro a tutti noto debba essere più diffusamente descritto, alcuni punti critici debbono essere ricordati: la gestione della pandemia, soprattutto nei momenti in cui il coronavirus ha “picchiato” in modo particolarmente duro, ha messo a dura prova il servizio sanitario nazionale, rendendo soprattutto difficile e problematica la gestione degli stati di morbilità “ordinari” e “normali”, tali essendo, al cospetto del Covid-19, anche quelle malattie oggettivamente gravi e invalidanti, e tali da comportare molto spesso la possibile morte dei pazienti. Il che, ossia il rischio non meramente teorico che la gestione dell’emergenza, nella quale si intrecciavano le ragioni e gli imperativi della sanità pubblica, intesa come igiene e profilassi in vista della tutela della salute come bene comune, e le aspettative e pretese dei singoli pazienti, possa aver determinato una sorta di ingestibile blackout che si è manifestato in tutta la sua corposa rilevanza in ogni fase e momento. E cioè: quando una certa malattia, “normale” e ordinaria, debba essere individuata ed accertata, nella fase della sua gestione (eventuale ricovero e terapia post-ricovero, riabilitazione, ecc.), controllo sistemico e permanente nei casi di cronicità, specialmente nei pazienti più anziani e fragili, ecc. E forse – last but not least – il problema dell’organizzazione e del funzionamento dei reparti di pronto soccorso e quello delle lunghissime liste d’attesa a fronte delle prestazioni richieste, soprattutto a seguito dell’insorgenza del Covid-19!

Il servizio pubblico ha sicuramente affrontato con capacità e conseguente successo la prova terribile alla quale è stato sottoposto (forse anche meglio di altri paesi)[3], ma quel grande corpo organizzato messo in piedi dalla sua legge istitutiva (la n. 833/1978), corpo imperfetto, ma tutto sommato funzionante, si presenta oggi con acciacchi e ferite che non possono essere ignorate, ma per lenire e guarire le quali occorre mettere invece in campo adeguati strumenti e soluzioni correttivi.

In altre parole, la difficile, contestuale gestione di ciò che possiamo definire come “norma” o “regola” e ciò che, in senso contrario, si materializza come “eccezione” (la pandemia) ha messo a nudo criticità forse già latenti, ma delle quali soltanto ora appare evidente il peso quali-quantitativo: il numero troppo basso dei nostri medici, la fuga di molti operatori dal servizio pubblico (medici ed infermieri), per tutta una serie di concause efficacemente intercettate dai principali mezzi di informazione, la necessità di nuovi istituti e modelli organizzativi e gestionali – ossia, la medicina territoriale, per tutti – la scarsa, o comunque non adeguata, informatizzazione dei soggetti pubblici che operano come attori e protagonisti del servizio pubblico (ASL, ospedali, aziende ospedaliere e gli stessi medici di base), ecc.

Mi permetto anche di constatare che le défaillances, certo non occasionali, dei nostri modelli organizzativi e gestionali non possono essere esclusivamente imputate alla scarsità di risorse assegnate al servizio pubblico, sebbene si tratti comunque di un fattore non secondario, secondo quanto disvela, fra l’altro, l’ultima legge di bilancio[4].

Mi permetto, sotto questo riguardo, una semplice, e quasi estemporanea, suggestione: e se il problema, oltre certamente a quello della mancanza dei quattrini, fosse anche costituito, come già suggeriva A.M. Sandulli, all’indomani della l. n. 833/1978, dal fatto che una legge (qualsivoglia legge, e perciò anche le normative in campo sanitario successive alla l. n. 833/1978), abbia troppo spesso privilegiato (anche nel momento attuale!) la ricerca di soluzioni relative alla sistemazione del personale piuttosto che un serio intervento di ridefinizione e riscrittura dei paradigmi organizzativi delle strutture e degli apparati gestionali del servizio pubblico?

Lascio deliberatamente questo, certo non irrilevante, interrogativo senza risposta, limitandomi a constatare quanto segue, alla stregua, peraltro, di un’incontestabile evidenza, davvero sotto gli occhi di tutti, quasi si trattasse di una massima di comune esperienza: le difficoltà, se non la condizione di pre-crisi, nella quale parrebbe versare il servizio pubblico, dopo aver svolto per decenni un’encomiabile attività, hanno certamente enfatizzato il ruolo giocato dagli operatori privati della sanità nel sistema complessivo delle attività sanitarie destinate alla cura della persona, in ognuno dei momenti e delle fasi in cui la suddetta cura deve materializzarsi e dispiegarsi.

Il che impone, a mio avviso, e senza che sia in alcun modo necessario occuparci dei “meriti” e delle “colpe” del servizio pubblico e dei contestuali meriti e delle colpe del sistema privato, di mettere al centro della nostra attenzione il rapporto, non sempre limpido e scevro di contraddizioni e criticità, che si viene comunque a creare tra il settore pubblico e quello privato nel campo della sanità.

2. Il rapporto pubblico-privato nell’ambito sanitario

Io credo che se davvero si vuole affrontare, o almeno impostare, in modo corretto il tema del rapporto pubblico/privato nel campo delle attività sanitarie destinate alla persona (il campo della sanità pubblica in quanto tale ha anche ad oggetto gli interessi della collettività, ex art. 32, primo comma, Cost., ed è tutt’altra problematica, ovviamente) si debba partire dalle nostre norme costituzionali e, segnatamente, in primo luogo, dal combinato disposto di cui agli artt. 32 e 41 Cost.

Le norme del diritto europeo, originario e derivato, sono naturalmente importanti, ma lasciano tuttavia intendere che il settore della sanità (art. 168 TFUE nonché il protocollo annesso n. 26, spec. art. 2, in merito alla competenza degli Stati membri in materia di organizzazione dei servizi generali non economici, ossia socialmente rilevanti) è tutto sommato rimesso alla competenza generale, piuttosto che esclusiva, dei legislatori nazionali. Diverso sarà ovviamente il caso in cui la salute si manifesti come tema e problema di ordine pubblico, in quanto sono a rischio fondamentali interessi della collettività (vicenda ben nota della “mucca pazza”, dell’influenza aviaria, dello stesso Covid-19, ecc.) per gestire e proteggere i quali ci si baserà piuttosto su altre disposizioni dei Trattati, magari sugli artt. 191 ss. TFUE, in materia di ambiente, oppure sulle discipline europee nel campo degli alimenti, della produzione agricola, ecc.[5].

Faccio con ciò naturalmente riferimento – e prescindendo ovviamente dalla sanità pubblica in senso oggettivo e tradizionale (igiene, profilassi, ecc.) con la quale ci troveremmo in tutt’altri territori – alla sanità come servizio pubblico socialmente rilevante, vero e proprio elemento e fattore strategico di costruzione di ogni contemporaneo modello di Stato sociale, in quanto se noi considerassimo, invece, le attività sanitarie come espressione del diritto di fare impresa, seppure in un settore socialmente rilevante, allora dovremmo arrivare a differenti conclusioni, e anzi sarebbe addirittura necessario impostare, a mio avviso, un discorso obiettivamente di altro tipo, prendendo le mosse, ad esempio, dagli artt. 101 ss. TFUE sulle regole di concorrenza (cfr. spec. l’art. 106 TFUE).

Ossia, l’attività d’impresa nel campo sanitario è sicuramente lecita, legittima ed ammissibile tout court, anche alla luce dell’art. 41 Cost., alla pari dell’attività libero professionale svolta dagli operatori privati in regime di libera professione, in assenza di ogni vincolo e/o legame con i soggetti del servizio pubblico.

Conclusioni, queste stesse, fin troppo ovvie ed alle quali non possiamo in ogni caso sottrarci, e che consentono comunque di delineare, quasi con un’azione di regolamento dei confini, il perimetro utile nel quale il discorso deve essere collocato ed ambientato: il rapporto pubblico/privato che qui interessa, soprattutto perché è spesso fonte di problemi di non agevole soluzione, è quello che si viene a creare tra i soggetti istituzionali del servizio sanitario nazionale e gli operatori privati a questo stesso legati da vincoli e legami di natura negoziale/convenzionale diversamente modulati, organizzati e interpretati sul piano tecnico-giuridico, specialmente ad opera della giurisprudenza[6].

3. La legittimazione pubblica (e il dovere costituzionale) a intervenire nell’ambito sanitario…

Se questo è vero, mi sembra ad ogni buon conto tanto necessario quanto opportuno mettere a nudo un problema per così dire generale, e anzi preliminare: se, da un lato, non è immaginabile (né giustificabile, né costituzionalmente sostenibile, e dunque al di fuori di ogni logica che voglia interpretare il mondo reale)“espellere” gli operatori privati a ciò interessati dalla gestione delle attività sanitarie destinate alla persona, deprivandoli di ogni ruolo e legittimazione, per tutto quanto già constatato, sono davvero possibili e giustificate, dall’altro lato, sul terreno di una (effettiva) doverosità costituzionale, la creazione e la messa a regime di un apparato complesso e complicato, di derivazione e matrice pubblicistica, la cui mission consista proprio nell’erogazione di prestazioni sanitarie destinate alla persona?

In altre parole, sarebbe conforme alla nostra Costituzione un’organizzazione massicciamente (oppure esclusivamente ) privatistica delle attività volte a rendere effettiva la tutela del diritto alla salute, nel solco dell’art. 32 Cost., secondo quanto disvelano le scelte di diritto positivo di altri paesi (ad esempio, gli USA, specialmente prima della c.d. Obama Care), nel senso che ciò che davvero rileva è la cura della persona in quanto tale, in un contesto di piena e totale indifferenza circa le qualità soggettive (e la “ragione” giuridica) degli apparati e delle strutture di servizio abilitate e legittimate a conseguire questo fondamentale scopo?

Va da sé che il paziente, la persona in difficoltà vuole che gli atti medici, e comunque le prestazioni sanitarie che gli vengono erogate, siano idonee a risolvere il suo problema di salute e che, pertanto, potrà anche assumere un atteggiamento di totale indifferenza circa le qualità soggettive di chi gli salva la vita, gli evita il maggior danno, ecc.

E, tuttavia, a mio parere, il problema non è solo perdurante e sussistente, ma anche di notevole peso: perché la sanità muove mezzi e risorse ingenti, si incrocia e confronta pressoché ogni giorno con la Politica (anche con quella con l’iniziale decisamente minuscola!), e perché la gestione del personale che opera nel settore evoca problemi delicatissimi, talora quasi insolubili.

Last but not least: il PNRR stesso, nella Missione n. 6, che si focalizza sull’obiettivo Salute, mette in luce in modo assolutamente nitido la rilevanza e la corposità degli obiettivi e, ancor prima, degli interessi materiali – e dunque anche economici – effettivamente in gioco.

Sicché, da nessun punto di vista mi parrebbe possibile sfuggire all’interrogativo, generale e preliminare, al quale ho prima accennato, sulla base delle nostre norme costituzionali di riferimento: è possibile, e magari persino necessario, fondare in termini di doverosità costituzionale la legittimazione del nostro servizio sanitario nazionale, non di questo servizio in particolare, ma del servizio pubblico come modello paradigmatico, in quanto ganglio vitale dei contemporanei sistemi di Stato sociale?

Il diritto dell’UE sembra muoversi con una certa sovrana indifferenza a margine di questo problema, confidando nel “buon senso” e nella ragionevolezza degli Stati membri, cui viene conferita una certa libertà, come appena visto, ferma restando tuttavia l’obbligazione di risultato che deve essere comunque onorata, laddove l’evidente “spacchettamento” del servizio pubblico, e cioè il suo articolarsi in una potenziale pluralità di modelli positivi nei differenti sistemi regionali produce semmai il risultato di amplificare e moltiplicare (regione dopo regione) il quesito appena posto, come cercherò di meglio precisare[7].

Dico subito che, a mio modo di vedere, non è tanto dall’art. 32 Cost. che è possibile trarre un principio di valore e forza generali capace di fondare la legittimazione, senza se e senza ma, di un servizio pubblico volto a rendere doverosa, e non declinabile, la costruzione di una “macchina” amministrativa la cui mission sia, per l’appunto, quella di erogare alla persona, in regime di parità, coeteris paribus, tutte quelle prestazioni riconducibili (oggi) ai livelli essenziali dei diritti sociali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Il nostro art. 32 Cost. è stato (e forse in parte ancora è) una norma eversiva, e anzi quasi rivoluzionaria, in relazione al contesto storico e politico-culturale nel quale veniva elaborata, per il semplice fatto che veniva emblematicamente affermata la rilevanza costituzionale di un diritto assunto come fondamentale in quanto situazione giuridica soggettiva della persona e interesse della collettività. Il che non è certamente poca cosa, e anzi è davvero tantissimo, solo che non viene espressamente formalizzata la necessità, e neppure la legittimazione, dell’intervento pubblico, soprattutto là ove si tratti di soddisfare le aspettative potenziali e le pretese della persona per come sono modernamente intese, ben diverso essendo invece il discorso in merito alle politiche ed alle attività (anche di “imperio”) che nei tradizionali comparti e settori della sanità pubblica erano già note e soprattutto messe in campo.

Mi sembra sufficiente un pur rapido confronto fra il nostro art. 32 Cost. e i successivi artt. 33 e 34 Cost., in materia di diritto all’istruzione, specialmente là ove si rimarca in modo forte il dovere repubblicano di istituire scuole statali di ogni ordine e grado, per cogliere ed apprezzare sino in fondo il diverso taglio e la diversità di regime che differenziano il diritto alla salute, del quale appena si comincia a parlare, e il diritto all’istruzione per la cui effettività viene formalmente introdotto un dovere costituzionale che si traduce (anche) nella irrinunciabile istituzione di soggetti pubblici (le scuole), di ogni ordine e grado, in quanto segno tangibile di un must (rectius, di un sollen, ossia di un imperativo categorico) che viene imputato alla Repubblica.

Del tutto ovviamente, come espressamente ci ricordano le stesse norme costituzionali in tema di istruzione, del pari rilevante, e non comprimibile, è il ruolo che può essere giocato dagli operatori privati nel settore dell’istruzione, anche in considerazione del principio di sussidiarietà orizzontale, nel momento stesso in cui viene comunque rimarcata la necessità (non di semplice opportunità infatti si tratta, a mio avviso) dell’intervento pubblico nella materia, in quanto l’istruzione è verosimilmente sussunta come una funzione in senso tecnico, e non come un servizio, e anzi come una funzione strategica e fondamentale dello Stato di diritto, quasi secondo un’ottica di virtuosa continuità con i principi e le regole di sistema degli ordinamenti di impianto e cultura liberali.

Ora, l’art. 32 Cost., soprattutto se ne viene privilegiata una lettura in chiave strettamente letterale, sembra introdurre una diversa narrazione.

Ad esempio, la gratuità delle cure è garantita soltanto a coloro che siano indigenti, sicché la stessa nozione di indigenza (ossia di povertà) deve essere decodificata, e pertanto storicizzata e relativizzata[8], onde poter ampliare il novero dei potenziali beneficiari delle prestazioni del servizio pubblico in regime di gratuità oppure subordinatamente al pagamento di un ticket. Soprattutto, quando ci si limiti ad una lettura meramente filologica e letterale della norma, allora non potrebbe esserne esclusa, secondo me, un’interpretazione così larga (e non impegnativa!), da rendere in qualche modo compatibile con la nostra Costituzione la messa in campo di un’organizzazione, e dunque di un servizio oggettivamente pubblico, per il tipo di interessi alla cui cura è preordinato, ma soggettivamente privatistico in quanto fondamentalmente conferito agli attori presenti sul mercato: e cioè alle imprese private che operano nel campo della sanità. Non mi parrebbe infatti risolutiva, sotto questo riguardo, la pur rilevantissima affermazione per cui è la Repubblica a tutelare la salute: il fine è pubblico, e così importante, in uno con l’istruzione, da connotare e qualificare i modelli contemporanei di Stato sociale, ma un risultato, anche positivo sul piano della gestione e della soddisfazione degli interessi in gioco, potrebbe essere forse ottenuto anche grazie all’attivazione degli opportuni sistemi assicurativi, con un’adeguata contribuzione pubblica, ove necessaria.

Non intendo procedere oltre su questo terreno, ma soltanto rammentare che si tratta di una problematica controversa e tutto sommato aperta, secondo quanto disvela il dibattito in merito ai modelli di organizzazione e gestione dei servizi sanitari che si svolge nei paesi di Common Law, e non solo[9].

Se questo è vero, io continuo a pensare che gli interrogativi che ho prima cercato di evidenziare non possono trovare risposte adeguate sulla base di una semplice esegesi letterale della nostra norma costituzionale e, anzi, ritengo persino che un approccio meramente filologico sia non soltanto riduttivo ma addirittura fuorviante.

E per un duplice quanto semplice motivo: il nostro art. 32 Cost. è norma di straordinaria bellezza e di grande rilevanza, anche sul piano etico, ma certo il nostro costituente non poteva farsi carico di immaginare, e quindi di suggerire e ipotizzare, in qualche modo vincolando il legislatore ordinario, le forme concrete (organizzative) grazie alle quali il diritto alla salute sarebbe stato effettivamente tutelato; in secondo luogo, una norma costituzionale – l’art. 32 Cost., nel caso di specie – non vive di per se stessa in una condizione di splendido isolamento ma fa parte, al contrario, di un sistema che è, innanzitutto, un coerente sistema di valori di cui è parte integrante, e soprattutto essenziale.

È in questo senso che, soltanto leggendo e interpretando l’art. 32 Cost. in una sorta di combinato disposto con altre norme costituzionali, soprattutto se collocate tra i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale, si possono verosimilmente trarre conclusioni meno approssimative ed affrettate, nel solco di un’autorevole ed insuperata dottrina[10]: la norma costituzionale che introduce, per la prima volta e in modo forte, la tutela del diritto alla salute come fondamentale diritto della persona nel nostro sistema costituzionale non può non rinviare alle norme della Carta costituzionale che mettono al centro del sistema di valori del nostro ordinamento proprio i diritti (e i doveri) della persona.

In altre parole, è il combinato disposto di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost. che ci consente, a mio modo di vedere, di rispondere alla domanda che prima ponevo, e senza nulla togliere al ruolo, centrale e strategico, giocato dall’art. 117, secondo comma, lettera m) Cost., circa «… i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»[11].

E mi sembra, in questo quadro, davvero necessario sottolineare l’importanza, a tutto tondo, a 360 gradi, proprio di quest’ultima disposizione, sebbene non sia collocata tra i principi fondamentali della Carta costituzionale, giacché l’art. 120 Cost. configura alla stregua di un vero e proprio dovere costituzionale l’intervento sostitutivo del governo nei confronti degli organi delle regioni, delle province, delle città metropolitane e dei comuni allorché lo richiedano la tutela dell’unità giuridica oppure economica e «… in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali».

Ovverosia: l’obiettivo, assunto come irrinunciabile, di garantire su tutto il territorio della Repubblica i livelli essenziali delle prestazioni dei diritti sociali, se, da un lato, parrebbe confermare il carattere universale del servizio sanitario nazionale, fornendo anche un più forte zoccolo di legittimazione costituzionale alla disciplina dei LEA, rappresenta, a mio avviso, dall’altro lato, un principio di chiusura del sistema costituzionale, di sua messa in sicurezza, e cioè la pietra angolare e il punto di non ritorno del nostro modello di Stato sociale.

Non mi dilungherò sul valore degli artt. 2 e 3, spec. secondo comma, Cost., e sul ruolo da essi giocato per fondare ed ampliare l’area delle pretese giuridicamente qualificate della persona (oltre che degli inderogabili doveri di solidarietà) anche nel campo dei diritti sociali: il collegamento dell’art. 32 Cost. con gli artt. 2 e 3 si risolve quasi in una relazione di reciproca presupposizione e integrazione e l’art. 117, secondo comma, lettera m) Cost., definisce e completa, dal suo lato, il quadro di principi di maggior rilievo, ai fini del discorso fin qui fatto.

Soprattutto, mi sembra assolutamente provata e fondata non solo la legittimazione della “mano pubblica” ad intervenire, direttamente e in modo importante, nel settore della sanità ma addirittura costituzionalmente doverosa e necessaria la creazione e l’organizzazione di un servizio sanitario pubblico, in quanto volto ad agevolare il conseguimento dei livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale.

4. …e quella del privato, nell’oscillante moto del pendolo del SSN

Ci troviamo pertanto al cospetto di una doppia legittimazione, anche alla luce delle norme, originarie e derivate, del diritto dell’UE: da un lato, il diritto di chi vuole fare impresa, operando come soggetto collettivo nel campo della sanità oppure come professionista (medico, farmacista, infermiere, ecc.); dall’altro lato, sulla base di fondamentali norme della nostra Costituzione, la naturale tensione verso la creazione di modelli organizzati di servizio pubblico capaci di soddisfare le aspettative di prestazione delle persone (dei malati, dei fragili, degli anziani come dei bambini, di tutti i potenziali utenti, insomma), capacità che si materializza come un vero e proprio dovere costituzionale o anzi, per meglio dire, come un punto di non ritorno in quanto si tratta di garantire i livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale. È la “mano visibile dello Stato”[12], in altre parole, che è chiamata a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno riconoscimento e alla migliore soddisfazione di un diritto che la nostra Costituzione proclama come fondamentale e che, conseguentemente, seppur fra luci ed ombre, viene costruito come assoluto e irrefragabile[13]; ed è pertanto, su questo crinale, spesso scivoloso e non sempre agevolmente percorribile, che vengono ad evidenza le complesse relazioni fra il mondo dei privati, degli operatori privati della sanità, e la realtà oggettiva del servizio sanitario nazionale.

Vale a dire che la doppia legittimazione, alla quale ho fin qui accennato, non vale ad eliminare conflitti oggettivi e ragioni di contrasto che quasi naturalmente rendono molto spesso difficili e problematiche le relazioni pubblico/privato, con un’avvertenza, tuttavia, di un certo rilievo, almeno a mio parere: il principio di sussidiarietà in senso orizzontale non gioca nessun ruolo in questa “materia”, quantomeno sul piano del diritto, in quanto la suddetta doppia legittimazione opera per così dire oggettivamente in quanto la doverosità del servizio pubblico, alla luce del combinato disposto di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost., ha il suo contraltare nella libertà di impresa ex art. 41 Cost., anche nella sua versione più aggiornata[14].

Tutto ciò spiega, in qualche misura, la periodizzazione che prima ricordavo, ossia il timing scandito da un vero e proprio moto del pendolo: il rapporto pubblico-privato viene in un primo momento, ossia nella fase “eroica” di costruzione del servizio sanitario nazionale ad opera della sua legge istitutiva, plasmato e conformato da una logica decisamente pubblicistica, laddove successivamente, nella fase per così dire intermedia rappresentata dal d.lgs. n. 502/1992, sembra affermarsi la regola ordinante della pari dignità e della parità delle armi fra gli operatori pubblici e quelli privati, con la dichiarata, manifesta approvazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per giungere ad un terzo step, con il d.lgs. n. 229/1999, così come successivamente modificato e integrato, contrassegnato dal parziale recupero dei principi e delle opzioni di fondo del primo periodo.

È anche possibile rinvenire una certa logica in siffatto moto del pendolo, nel senso che me ne pare proponibile una certa interpretazione, di larga massima e con scontati margini di approssimazione: l’intervento degli operatori privati si rivela in qualche misura necessario onde porre rimedio alle insufficienze – ossia al deficit di risultato – che contrassegnano le esperienze gestionali del servizio pubblico nel periodo immediatamente successivo alla legge n. 833/1978; da ciò il coinvolgimento degli operatori privati in regime di sostanziale parità delle armi nella seconda fase, facendosi ricorso al modulo giuridico del convenzionamento (ossia della concessione), supponendosi verosimilmente che i privati avrebbero anche supportato il servizio pubblico ogniqualvolta fosse apparso necessario a tutela del diritto alla salute degli utenti; tutto ciò comporta tuttavia costi crescenti, non facilmente gestibili, con il conseguente, parziale ritorno, nella terza ed ultima fase, ad un modello in qualche misura meno sbilanciato in favore della medicina privata convenzionata.

A questo punto è tuttavia indispensabile una precisazione: ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 229/1999 il servizio sanitario nazionale viene fatto constare della pluralità dei servizi sanitari regionali, pur nel quadro di alcuni fondamentali, comuni principi di ordine generale, ed è soprattutto sul terreno dei rapporti, giuridici e fattuali, tra la sanità pubblica e quella privata convenzionata che si registrano approcci e soluzioni di differente segno e impatto, con la messa in campo di originali, e comunque differenziati, modelli organizzativi e gestionali, nei quali è per l’appunto il ruolo giocato dagli operatori privati in regime di convenzionamento a rappresentare il fattore di maggiore qualificazione di un certo modello regionale[15].

La pur sintetica descrizione delle diverse tappe che hanno scandito e connotato le relazioni giuridicamente rilevanti fra il servizio pubblico e gli operatori privati nel settore della sanità e, segnatamente con quei soggetti privati legati all’amministrazione pubblica da un rapporto di convenzionamento, appaiono dunque davvero orientate da una sorta di “moto del pendolo”.

E, tuttavia, il movimento pendolare presentava una sua coerenza sistemica: l’attività sanitaria si materializza invero (anche) come attività d’impresa, nel solco dell’art. 41 Cost., ed i singoli operatori possono decidere di stare sul mercato esclusivamente come liberi professionisti; per altro verso, il servizio pubblico può trovarsi nella necessità di dover coinvolgere, per gli adempimenti degli obblighi di servizio pubblico (i LEA, in sintonia con l’art. 117, secondo comma, lettera m) Cost.), i professionisti privati, singoli o associati in forma imprenditoriale, ferma restando la sua legittimazione ad assicurare, se possibile, direttamente, in prima persona, tutte le prestazioni (i LEA) che debbono essere garantite sull’intero territorio nazionale, visto il carattere universale del servizio.

Se questo è vero, e senza nulla togliere agli innumerevoli profili critici messi in luce negli ultimi decenni dalla nostra dottrina, mi sembrerebbe corretto supporre che, magari con “un colpo al cerchio ed un colpo alla botte”, ossia con infinite e defatiganti operazioni di tipo transattivo, si sia (quasi sempre) cercato di pervenire ad un risultato di mediazione, onde coniugare le ragioni (ottime e sicuramente fondate) del servizio pubblico e quelle (certamente degne della massima attenzione e considerazione) degli operatori privati nel campo della sanità.

Senza che mi sia in alcun modo possibile esprimere un qualche giudizio compiutamente ragionato e definitivo sul momento attuale, ancora segnato dalla nota vicenda pandemica di cui è stata or ora dichiarata la fine, mi limiterò ad alcuni semplici spunti.

Il primo dato di fatto, che è sotto gli occhi di tutti, è verosimilmente questo, a mio parere: la gestione del Covid-19 ha messo in crisi l’intero sistema, e non soltanto sul versante delle relazioni, giuridiche e fattuali, tra il servizio sanitario nazionale, pur spacchettato nelle sue diversificate varianti regionali, e gli operatori privati nel settore della sanità. Tutto sembra essere rimesso in discussione oggi, anche sotto l’impatto del nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), Piano che nella Missione n. 6 si focalizza sulla Salute, declinandosi obiettivi molto ambiziosi quali: le reti di prossimità, la telemedicina per l’assistenza sanitaria di base, le case della comunità e gli ospedali di comunità per l’assistenza sanitaria intermedia, il fascicolo sanitario elettronico (FSE) e, più in generale, l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del servizio sanitario nazionale[16].

Sicché davvero, secondo l’avviso di un’acuta dottrina[17], il mondo della sanità si presenta in questa fase di indefinita transizione come un cantiere aperto, con i lavori perennemente in corso, in costante fibrillazione, per la cui riforma si propone tutto ed il contrario di tutto.

5. Considerazioni conclusive: la centralità del principio della doppia legittimazione (pubblica e privata) nel diritto alla salute

Viene da chiedersi, a mio avviso, se lo spirito, riformistico e riformatore, che sembra ispirare il nostro legislatore andrà oltre il minimo contingente, e cioè non si limiterà all’adozione di misure tampone capaci di fronteggiare le emergenze che via via si presentano (pochi medici e mal distribuiti, liste d’attesa troppo lunghe, ecc.), e se cercherà invece di sciogliere i nodi strutturali che rendono più macchinosa e solo relativamente performante l’attività del nostro servizio pubblico.

E sotto questo riguardo penso davvero che un capitolo di peso rilevantissimo, forse in larga parte da riscrivere anche alla luce di ciò che è successo, sotto gli occhi di tutti, in occasione e in conseguenza della pandemia da Covid-19, sia proprio quello della relazione funzionale tra il pubblico e il privato nel mondo della sanità, ossia tra il servizio pubblico e gli operatori privati della sanità al primo legati da un rapporto di convenzionamento che possiamo ancora inquadrare nello schema concettuale della concessione di servizio pubblico.

È ben vero che ogni riforma nel campo della sanità rischia sempre, per una perversa eterogenesi dei fini, di risolversi in una più o meno vasta operazione di sistemazione del personale, quando non sia addirittura un episodio (certo non positivo ma spesso inevitabile) del conflitto endemico che contrappone la Politica e la Scienza, ossia il personale sanitario e parasanitario e il mondo della politica “politicante”.

Si tratta certamente di un rischio reale il quale, tuttavia, non deve impedirci di cogliere il carattere essenziale e strategico del problema che ho cercato di mettere in luce, soprattutto per due buone ragioni, a mio parere: la preoccupazione, a suo tempo manifestata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, circa il rispetto dei principi del diritto dell’UE in materia di concorrenza e di mercato interno[18]; lo spacchettamento del servizio sanitario nazionale in una pluralità di servizi regionali, diversamente organizzati e costruiti proprio in relazione ad una differente percezione e soluzione del problema del rapporto che deve essere instaurato fra il servizio pubblico e gli operatori privati convenzionati.

In altri termini, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, non presenta invece particolari problemi e criticità che non siano già noti il sistema c.d. delle tre A (autorizzazione, accreditamento istituzionale e accordo contrattuale) e neppure il tema (connesso) della libera professione intra moenia dei professionisti sanitari legati al servizio pubblico da un rapporto di pubblico impiego privatizzato. Il problema è semmai la fuga dal settore pubblico per approdare ai lidi più accoglienti e suggestivi della sanità privata, convenzionata o meno che sia con il servizio sanitario nazionale!

Mi preme invece riprendere in parte un aspetto del discorso che forse merita d’essere rimarcato: la doppia legittimazione che ho prima cercato di mettere in luce, ossia del servizio pubblico in conformità del combinato disposto di cui agli artt. 2, 3, 32 e quasi a fortiori dell’art. 117, secondo comma, lettera m) Cost., e delle imprese e dei professionisti che operano in quanto soggetti privati nel campo della sanità, in sintonia con l’art. 41 Cost., suggerisce, intuitivamente, scelte ed opzioni strategiche ispirate al criterio della massima prudenza, anche in considerazione, come già visto, dei principi e delle regole del diritto dell’UE.

Il che mi spinge a constatare che il dibattito – e così le soluzioni concrete che si mettono in campo – è troppo spesso condizionato (e dunque viziato!) da veri e propri pregiudizi “ideologici”: la preferenza per un modello pubblicistico di gestione della sanità in antitesi ad un modello di stampo privatistico oppure ad un sistema misto, come pare essere, tutto sommato, quello oggi vigente di fatto nel nostro paese, non può schermare, o peggio ignorare e dunque occultare, i principi costituzionali dai quali è invece necessario prendere le mosse. E, anzi, per meglio definire il problema e la soluzione che ad esso può essere data, le norme costituzionali di riferimento fondano sicuramente, a mio avviso, la doppia legittimazione alla quale ho più volte accennato, ma impongono anche risposte ed opzioni strategiche che siano apprezzabili ed affidabili, in primo luogo, sul piano tecnico, ossia su di un terreno che non è quello dell’ideologia ma quello della loro piena compatibilità con i principi, le regole ed i valori dell’ordinamento euro-unitario.

Da ultimo, sospinge in questa stessa direzione, ossia a privilegiare un approccio cauto, e quasi “freddo”, di stretto diritto positivo, questa semplice considerazione: lo spacchettamento, e quasi la frammentazione, del servizio nazionale in una pluralità di modelli organizzativi e gestionali regionali mette a nudo non solo la difficoltà oggettiva di far “quadrare i conti”, visti i costi crescenti determinati dal ricorso massiccio alla sanità privata convenzionata, in sostituzione piuttosto che ad integrazione di quella pubblica, ma, in qualche caso, quasi il ritiro in un cono d’ombra del servizio pubblico. E cioè, anche a voler descrivere il fenomeno in termini soltanto descrittivi, talora sembra consolidarsi un modello concreto nel quale le strutture operative del servizio pubblico (le ASL, in buona sostanza) più che soggetti attivi con la mission di erogare le prestazioni a vantaggio dei pazienti, sono stazioni di finanziamento e di pagamento di attività e prestazioni erogate dai soggetti della sanità privata convenzionata[19].

Si tratta forse di una privatizzazione di fatto del servizio pubblico (rectius, di un determinato servizio sanitario regionale), destinato comunque a convivere con altri modelli e sistemi regionali diversamente organizzati, e connotati, ad esempio, da un più equilibrato rapporto fra la sanità pubblica e quella privata, convenzionata oppure no? E, in che modo si risolverà il contrasto, non solo potenziale, fra le strutture del servizio pubblico (le ASL) che sono sia attori, erogatori di prestazioni, che controllori degli operatori privati, anche di quelli non convenzionati?

Impossibile, soprattutto in questo momento, assumere un punto di vista affidabile e conclusivo perché la sanità è davvero un cantiere aperto, secondo quanto si evince anche dal vivace dibattito in corso presso tutte le sedi istituzionali della politica.

E forse possibile soltanto formulare un auspicio, e cioè confidare che il principio della doppia legittimazione, della “mano visibile” dello Stato e della libertà degli operatori privati, possa trovare una rinnovata, piena applicazione, in vista del fondamentale obiettivo di assicurare più elevati standard di tutela della salute della persona su tutto il territorio nazionale.

  1. Si tratta della versione scritta, rivista ed ampliata, della relazione presentata in occasione dell’Incontro di studio organizzato a tre anni dalla nascita di CERIDAP (Milano, 15-16.12.2022). Per un più nutrito corredo di riferimenti bibliografici mi permetto di rinviare, per le tematiche affrontate nel lavoro, a R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Giappichelli, Torino, 2020, passim, spec. 115 ss. Di rilievo, e a tali contributi faccio egualmente rinvio: C. Bottari, La tutela della salute: lavori in corso, Giappichelli, Torino, 2020; B. Gagliardi, La libertà di circolazione dei dirigenti pubblici europei, in Dir. amm., 2020, 163 ss. nonché Id., Il sindacato del giudice costituzionale sull’organizzazione sanitaria tra autonomia regionale e diritto alla salute, in Dir. e società, 2020, 477 ss. Di interesse i seminari e convegni organizzati dal CeSDirSan, fra i quali si segnala M.A. Sandulli (a cura di), L’assistenza domiciliare integrata, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021.
  2. Per tutti cfr. già I. Cavicchi, Sanità. Un libro bianco per discutere, Dedalo, Bari, 2005, passim.
  3. Interessanti, in questa direzione, le relazioni tenute al seminario Modelli sanitari a confronto (Università di Roma 3-7 marzo 2023), con Introduzione di M.A. Sandulli e interventi di F. Aperio Bella, di C. Fraenkel-Haeberle, in riferimento all’esperienza tedesca, e di L. Busatta, in relazione al sistema americano.
  4. L. n. 197/2022 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025). Non mi paiono possibili diverse considerazioni esaminando il c.d. decreto milleproroghe, d.l. n. 198/2022, n. 198, conv. in l. 24 febbraio 2023, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi) (spec. artt. 4 e ss.), prevalentemente preoccupato di risolvere alcune questioni di sistemazione del personale (e su cui v. le riflessioni dell’Anaao, in www.quotidianosanità.it del 27 febbraio 2023) oppure passando in rassegna la precedente l. n. 40/2020 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, recante misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali), e la l. n. 77/2020 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, recante misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19). V. comunque anche infra, nel prosieguo del lavoro.
  5. Sia consentito rinviare in materia a R. Ferrara, Agricoltura e ambiente: è solo un problema di sostenibilità?, in M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini, M. Ricciardo Calderano (a cura di), Studi in onore di Carlo Emanuele Gallo, Giappichelli, Torino, 2023, 297 ss.
  6. Mi permetto di rinviare ancora a R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, cit. nonché a M. Consito, Accreditamento e terzo settore, Jovene, Napoli, 2009 e a C. Bottari, op. loc. cit.
  7. Su ciò cfr., più diffusamente, infra, alle pagine che seguono, e comunque, del tutto esaustivamente, B. Gagliardi, Il sindacato del giudice costituzionale sull’organizzazione sanitaria tra autonomia regionale e diritto alla salute, cit.
  8. Sia consentito il rinvio, anche per altri riferimenti bibliografici, a R. Ferrara, Il diritto alla salute: i principi costituzionali, in Id. (a cura di), Salute e sanità, in S. Rodotà, P. Zatti (diretto da), Trattato di biodiritto, Giuffrè, Milano, 2010, 3 ss. nonché, significativamente, A. Giorgis, La costituzionalizzazione dei diritti all’eguaglianza sostanziale, Jovene, Napoli, 1999.
  9. Cfr. nuovamente, per un’introduzione al tema, L. Busatta, op. loc. cit.
  10. Ovviamente: C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. Infortuni e malattie professionali, 1961, I, 1 ss.
  11. Esaustivamente, e per tutti, V. Molaschi, Introduzione allo studio dei rapporti di prestazione nei servizi sociali, Giappichelli, Torino, 2006 e C. Tubertini, Pubblica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, Il Mulino, Bologna, 2008.
  12. Per tutti, G. Amato, Bentornato Stato, ma…, Il Mulino, Bologna, 2022, passim.
  13. Sia ancora consentito rinviare, anche per l’esame della giurisprudenza, a R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, cit., passim, ma spec. 64 ss. e 219 ss. cui adde, Id., Il diritto alla salute: i principi costituzionali, cit.
  14. Così come essa risulta a seguito della l. cost. n. 1/2022 (Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente). Di interesse, sotto questo riguardo, è la sentenza di Corte cost. 9 maggio 2022, n. 113, proprio in materia di accreditamento di strutture private operanti nel settore della sanità, decisione che si caratterizza per una visione che non esito a definire come ultraliberista.
  15. Cfr., per tutti, B. Gagliardi, Il sindacato del giudice costituzionale sull’organizzazione sanitaria tra autonomia regionale e diritto alla salute, cit., nonché, se si vuole, R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, cit., spec. 115 ss.
  16. In argomento, del tutto esaustivo è il volume M.A. Sandulli (a cura di), L’assistenza domiciliare integrata, cit., cui adde gli Atti del convegno organizzato on line il 28 aprile 2021 su Next Generation UE. Proposte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, al sito dell’AIPDA (Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo).
  17. C. Bottari, La tutela della salute: lavori in corso, cit., passim.
  18. Faccio con ciò riferimento ai rilievi critici a suo tempo formulati dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nei pareri AS n.145/1998 ed AS n. 175/1999, (in www.agem.it), il primo in relazione al d.lgs. n. 502/1992 e il secondo in merito allo schema di decreto legislativo che sarebbe poi sfociato nel d.lgs. n. 229/1999.
  19. Ancora B. Gagliardi, op. ult. cit., soprattutto in riferimento al modello lombardo, così come delineato dalla l. Regionale della Lombardia n. 33/2009 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità).

Rosario Ferrara

Professor Emeritus of Administrative Law, University of Turin.