Democrazia elettronica, tecnica e politica: tre nozioni che non dialogano

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2/2022

Democrazia elettronica, tecnica e politica: tre nozioni che non dialogano

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Per mettere in questione le relazioni fra e-democracy, tecnica, tecnologia e politica occorre prima definire con precisione i contorni semantici dei termini. Definiti i termini, emerge che la democrazia elettronica solo in parte trascina con sé il nucleo essenziale della nozione di democrazia. Dato che la tecnica è l’ambiente entro il quale si dispiega la e-democracy, ciò cui essa tende non è più lo scopo principale, ossia lo scopo escludente altri scopi: il suo vero scopo è appropriarsi della tecnica, senza la quale essa neppure è pensabile. In analogo modo per le politiche, che sono poi insiemi di scopi particolari cui tende l’azione organizzata di gruppi di individui e di interessi. Anche i loro portatori nulla possono di efficace se non appropriarsi della tecnica. Ma quest’ultima vuole solo il proprio autopetenziamento e nulla di più. Queste sono le insanabili contraddizioni che appaiono a un’indagine condotta con un linguaggio attentamente sorvegliato. Tecnica, politica e e-democracy sono termini in contrasto inconciliabile fra loro. I pericoli della e-democracy sono evidenti: attuazione di forme di manipolazione degli individui; creazione di stratificazioni fra utenti del web; esclusione degli utenti “non capaci”; illusione della diffusione di maggiori tassi di democrazia attraverso vere e proprie inversioni delle categorie della qualità e della quantità dell’apporto delle persone.


E-democracy and its relations with technique and politics: three notions that do not talk to each other
In order to address the relationship between e-democracy, technique and politics, the meaning of each term must be identified. E-democracy only partly carries with it the essential core of the notion of democracy. Technique is the environment within which e-democracy unfolds. Its purpose is to appropriate technology. Politics are sets of particular aims at which the organised action of groups of individuals and interests tends. There are irreconcilable contradictions between e-democracy, technique and politics; and obvious dangers of e-democracy seen in the interactions between the three. These include manipulation of individuals; stratification between web users; exclusion of 'unable' users; the illusion of the spread of higher rates of democracy.

1. Annotazione introduttiva[1]

Talvolta cápita di imbattersi in affermazioni apparentemente seducenti: «il diritto deve appropriarsi della tecnologia» piuttosto che «la politica, attraverso il diritto che essa crea, deve appropriarsi della tecnica»[2], soprattutto quando è sub iudice il suo rapporto con l’impiego di tecnologie informatiche applicate alla tenuta dei sistemi democratici[3].

E ancóra, se la politica agisce entro un ordinamento democratico, allora è la democrazia che ha bisogno della tecnologia, la quale – in qualche senso del termine – deve essere oggetto di forme di controllo. La medesima istanza è avvertita quando la democrazia opera attraverso tecnologie informatiche. Che tali enunciati e codeste osservazioni siano accattivanti è fuor di dubbio. Che essi abbiano un senso è facilmente controvertibile[4].

Di qui la necessità di mettere in questione il rapporto fra e-democracy, tecnologia, tecnica e politica. L’analisi delle relazioni fra i quattro termini conduce a un vero e proprio “dis-velamento”[5] di un arcano. Già, perché le relazioni da analizzare sono semplici solo in apparenza: esse, infatti, presuppongono la preventiva chiarificazione del significato dei termini in gioco, cosa né semplice, né agevole.

Proprio per questi motivi, per rispondere all’assillante problema occorre intraprendere una breve digressione dai contorni apparentemente estranei al core della questione, e che, pur tuttavia, è autenticamente baricentrica e irrinunciabile concettualmente. Essa deriva dalla necessità non prorogabile di chiarire i contorni semantici del linguaggio impiegato nell’esposizione e nella trattazione della questione[6]: essa, infatti, è sì concettuale, ma non vi è chi non veda come nessun concetto – e a maggior ragione, ogni famiglia di concetti, soprattutto quando imparentati, – sia autenticamente ricostruibile senza aver prima definito con chiarezza i termini e i confini del linguaggio di volta in volta impiegato[7].

Il tutto, ovviamente, senza rinunciare a indagare la realtà e a interrogarla, avendo però presente che il linguaggio guida la ricerca e le investigazioni sul mondo.

2. Tecnica e tecnologia: evoluzione dei concetti

Innanzi tutto: cosa significa “tecnologia”? Senza volerci profondere in arcane analisi glottologiche che potrebbero apparire stucchevoli e odorare di muffa, “tecnologia” è termine di derivazione cólta, anzi, coltissima. Esso ha la propria duplice radice in “tékne” e in “logos”, due termini, anch’essi, non immediatamente facili da decifrare. Con “tékne” si fa usualmente riferimento ad almeno due evenienze: in primo luogo, la tecnica, in secondo luogo, l’arte. Con “logos”, la faccenda si complica un po’. E infatti, “logos” mette in questione nozioni e concetti quali il discorrere, e il prodotto del discorso; lo scrivere trattati, e il prodotto della relativa azione, ossia il trattato, per l’appunto. Ma “logos” significa anche “pensiero” (sia pure in senso traslato) e “ragione”, termini dall’opacità semantica che definire ampia è dire poco.

Senza impegnarsi troppo sull’esattezza degli explananda[8] “tecnologia” fa riferimento al dire intorno alla tecnica, col che si ritorna daccapo.

Ma “tecnologia” è sovente – e più esattamente – utilizzato per mettere in questione non tanto il mero discorso sulla tecnica, bensì l’insieme degli strumenti, spesso sofisticatissimi, di cui una data e determinata comunità dispone in un altrettanto dato e determinato momento storico[9], per provocare mutamenti, realizzare oggetti o, più in generale, prodotti, manufatti, et similia, ovvero per realizzare imprese, e dunque svolgere o portare a compimento attività. Insomma, il nome “tecnologia” rimanda a un insieme di strumenti di cui una determinata comunità dispone, e dunque a mezzi: mezzi tecnici, per l’appunto.

Ben diverso è il senso di “tecnica”, termine fortemente imparentato con “tecnologia”, ma che da esso deve essere accuratamente tenuto distinto. A questo proposito, non deve ingannare la comunanza delle derivazioni etimologiche. E infatti, come è stato acutamente fatto risaltare da Emanuele Severino (ex pluribus: Il destino della tecnica) e ripreso da Umberto Galimberti (in modo particolare, in Técne e Psiche), la tecnica non coincide affatto (o forse meglio sarebbe dire: «non coincide più») con gli strumenti tecnologici, ma è divenuta, da un lato l’ambiente entro cui si dispiega la vita dei mortali, e, dall’altro, lo scopo ultimo cui tendono e sono effettivamente protési tutti i sistemi di valori, di spiegazione, di conoscenza et coeteris paribus[10] .

L’evenienza rimanda al mito: al mito di Prometeo, il quale percorre l’intera parabola dello sviluppo della civiltà e del pensiero occidentale, così bene sottolineato nella sua tragicità nel Prometeo incatenato di Eschilo. Il mito è noto: con l’inganno, Prometeo ruba il fuoco agli dei e lo dona all’uomo, il quale, divenuto simile agli dei, proprio tramite il fuoco diviene in grado di trasformare la realtà tramite la metallurgia, forgiando oggetti e trasformando il minerale grezzo in nuovi prodotti. Di qui la punizione e il confinamento dell’ingannatore negli abissi[11].

Miti in disparte (ma mica tanto), è il pensiero contemporaneo ad aver acutamente sottolineato cosa la tecnica sia davvero e come il relativo dominio operi sull’uomo. Qui di séguito, il pensiero di due autori, differenti per formazione e provenienza, ma straordinariamente, e forse inaspettatamente, simili nelle conclusioni[12].

In Técne e Psiche il pensiero ricorre in modo esplicito e drammatico insieme[13]: la tecnica non coincide più con un apparato di strumenti, ma con l’ambiente entro cui l’uomo vive le proprie relazioni, ambiente trasformato dalla tecnica e dagli strumenti – le tecnologie – di cui essa si avvale. Altrettanto se ne fa menzione ne Il destino della tecnica[14]: la tecnica non è più mezzo, ma scopo degli scopi, della quale gli apparati vogliono appropriarsi per potenziare indefinitamente gli scopi particolari ed escludenti che essi vogliono perseguire e conseguire.

Che la tecnica intercettasse nozioni sovrapponibili a quella di strumento era particolarmente vero quando i mortali riuscivano a piegare la natura ai proprî scopi, costruendo ponti, strade o navigando per i mari: in definitiva, quando essi si limitavano ad attingere alle risorse della terra, senza pretendere di modificarla. Ma oggi la tecnica ha finito con l’interferire con l’ambiente entro cui essi dispiegano la loro vita, fino al punto di divenire essa stessa l’ambiente entro cui la parabola esistenziale dell’uomo e di ciò che lo circonda si dà.

Ma vi è di più: della tecnica hanno bisogno tutti i sistemi valoriali, ideologici, conoscitivi et simília, e dunque tutte le forze di volta in volta in campo. Ciascuno portatore di scopi proprî tipicamente egoistici, la massimizzazione dei quali presuppone l’appropriazione non tanto di tecnologie, ma della tecnica tout court.

Come si affermino il predominio della tecnica e la civiltà della tecnica, e cosa significa che i mortali abitano l’era del dominio della tecnica è molto ben compendiato in Técne di Emanuele Severino. La tecnica è intimamente legata e connessa al senso della cosa, o, più precisamente, al senso dell’essere tutte le cose e prima di tutto una cosa. Il concetto e la nozione della cosa rimandano direttamente al modo di intenderla nella filosofia greca, ove la cosa e dunque ogni ente (“to on”) appare al/nel mondo e nel tempo, manifestando tutta la sua disponibilità all’essere e al niente, ossia al venire in essere e al cessare di essere[15] in un processo continuo di produzione e distruzione[16].

Emblematica è la prima conclusione cui perviene il ragionamento, che qui vale la pena di trasportare per tabulas: «come disponibile all’essere e al niente la “cosa” è un’oscillazione infinita che percorre l’infinita distanza che separa l’essere dal niente. In questo senso essenziale, la “cosa” è la “preda” delle forze divine e umane che la conducono all’essere e al niente»[17] [18].

In questa dimensione mondana la tecnica si risolve nell’applicazione «dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria»[19], prendendo parte attiva nel processo di produzione e distruzione delle cose, con ciò attuando il senso dell’essere cosa, ossia il suo eterno oscillare fra essere e non-essere, ovvero fra il non-essere ancóra e il non-essere-più. Con queste premesse, «la tecnica è la capacità, scientificamente controllata, di produrre o distruggere le cose. In linea di principio, essa considera ormai la stessa totalità delle cose come producibile e distruggibile mediante operazioni scientificamente controllate. Al fondamento del progetto tecnologico del dominio di tutte le cose sta il senso che il pensiero greco ha assegnato alla “cosa”: proporsi la produzione-distruzione scientificamente controllata di tutte le cose significa innanzitutto pensare la “cosa” come ente, ossia come ciò che può uscire e rientrare nel nulla. Il tempo è appunto questo uscire e ritornare nel nulla da parte delle cose. Solo in quanto la “cosa” è pensata come ente, cioè come essere nel tempo, è possibile il dominio tecnico delle cose. La capacità tecnica di produrre e distruggere è infatti la capacità di guidare le cose dal nulla all’essere e dall’essere al nulla»[20].

In definitiva, nell’era della tecnica ciò che interessa non sono più gli scopi in vista dei quali si producono e si distruggono le cose, ma il processo di produzione/distruzione scientificamente e tecnologicamente organizzato, gestito e controllato tout court. E infatti, se è vero che «tutte le azioni dell’uomo sono determinate e guidate dal senso che le cose hanno per lui» [21], ne segue che «poiché tutto ciò che appartiene al mondo [… di ognuno] è una “cosa”, allora tutte le azioni che egli compie sono determinate e guidate dal senso che per lui ha una “cosa”»[22].

Il senso della cosa e la tecnica come ambiente entro cui avviene il continuo processo di produzione e distruzione delle cose guidano a loro volta le azioni dei mortali. Ecco perché la tecnica diviene scopo degli scopi e perché tutte le forze che perseguono scopi particolari, sovente in antitetico contrasto fra di loro, hanno quale scopo primario l’impossessamento della tecnica, in assenza della quale non possono potenziare gli scopi “egoistici” di cui sono portatori.

La richiesta è teorizzata in termini espliciti da Martin Heidegger. Se ne trova traccia anche in Herbert Marcuse. Di tecnica si occupa anche Walter Benjamin, sia pure entro un contesto affatto peculiare.

Il primo ne tratta in La questione della tecnica [23], ove sottolinea il timore che la tecnica sovrasti l’uomo, che ne diviene funzionario, oggi si direbbe “funzionario di apparati”. Qui la tecnica viene messa in stretta relazione al “pro-durre – la tecnica è, oltre che tékne anche e forse soprattutto póiesis, – dunque venire-in-essere in un contesto, o meglio uno scenario: l’apparato, del quale la persona è ed è destinato a divenire funzionario, nel senso che la sua attività rileva in quanto funzionale alla realizzazione degli scopi del primo[24]. Qui la tecnica è sostanzialmente “dis-velamento attuato tramite il “pro-durre”[25], ossia il realizzare un’azione intenzionale e voluta (“ducere”) preordinandola a uno o più scopi (è questo il senso della particella “pro”). La tecnica, inoltre, áltera il rapporto fra persona e mondo, perché abbatte duplicemente le dimensioni spaziale e temporale. Attraverso la tecnica, il “qui e ora” avvicinano gli eventi, che finiscono col diventare sincroni e a-spaziali[26]. E questo si riflette nelle/sulle relazioni intersoggettive, creando vere e proprie distorsioni comportamentali[27].

Il secondo ne discute in L’uomo a una dimensione[28]. Qui l’automazione, che è un sottoprodotto della tecnica intesa come ambiente nel quale si danno cambiamenti, è vista come evenienza che determina una vera e propria inversione fra categorie, e precisamente come passaggio dalla quantità alla qualità. La suggestione è ovvia: l’automazione, che si dà come conseguenza del dominio progressivo della tecnica nello svolgimento delle relazioni degli/fra uomini ha effetto soggiogante perché tutto ciò che essa determina è la sua elevazione a scopo e non più a mero strumento.

Un terzo indizio dell’estrema rilevanza della tecnica e della relativa era si ritrova in Walter Benjamin entro un contesto che appare prima facie estraneo a ciò che qui viene messo in questione: la riproducibilità dell’opera d’arte[29]. Qui la tecnica gioca un ruolo decisivo perché incide direttamente sulla contrapposizione antipodale fra autentico e falso. E infatti, l’opera che di per sé è riproducibile in série non ha esemplari autentici e esemplari che tali non sono; piuttosto il concetto di autenticità va declinato differentemente. La riproducibilità pone l’opera d’arte al cospetto di una differente modalità di fruizione, consentendone il trasporto entro contesti di quotidiano consumo potenzialmente di massa[30]. E la cosa in questione non finisce certo qui: l’opera cinematografica, ove la tecnica agisce in modo davvero pervasivo, abitua l’occhio del fruitore al suo prodotto, áltera il palcoscenico e lo spazio entro cui è veicolata ed è suscettibile di miglioramento continuo, pressoché infinito [31], differenziandosi dalla rappresentazione teatrale, che nella sua replica è sempre opera diversa dalla precedente[32].

Bastano queste tre sottolineature per evidenziare che tecnica e tecnologia non coincidono affatto, anche se sono accomunate da una medesima derivazione d’etimo. I due concetti devono essere tenuti accuratamente distinti per evitare errori epistemologici e per creare pericolosi fraintendimenti e, dunque, perniciosi oscuramenti della realtà entro la quale si dispiega la parabola esistenziale degli umani (ma non solo)[33].

Dopo aver trattato di tecnica e di tecnologia è ora possibile applicarne le acquisizioni all’e-democracy e al modo con cui essa viene intesa e agíta. Di qui la centralità della tripletta “tecnica-tecnologia-e-democracy”, alla quale non è affatto estranea qualche breve digressione sul concetto di democrazia tout-court. Prima di tutto occorre però mettere in questione la nozione e il concetto di democrazia con ciò che ne segue: le nozioni di sovranità e di popolo, semplici in apparenza, ma complesse e per nulla scontate.

3. Democrazia: evoluzione dei modelli

Dopo aver parlato di tecnica e di tecnologia è ora di mettere in questione il termine “democrazia”, nella piena consapevolezza della complessità dell’investigazione e della ricostruzione della sua nozione e del relativo precipitato concettuale.

Le modalità attraverso le quali indagare il significato di “democrazia” e quindi ricostruirne il concetto e la nozione sono varie. All’approccio squisitamente giuridico, infatti, si accostano quelli storici, antropologici, sociologici, politologici, glottologici et coeteris paribus. Parlare genericamente di democrazia non è possibile se non mettendo in questione concetti apparentemente irrelati, i quali – però – ne integrano il definiens in modo marcato e determinante. I termini in questione sono almeno tre: “sovranità”, “popolo”, “nazione”. Che ciò sia vero lo si ricava con tutta evidenza – ad esempio – dall’art. 1 Cost.[34], particolarmente eloquente sul punto: «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»[35].

Ed effettivamente la disposizione normativa in questione è un po’ la sintesi del discorso che qui si vuole impostare: la forma di stato repubblicana, che si assume democratica per definizione, rimanda al concetto di sovranità popolare, il cui esercizio è, a sua volta, costituzionalmente determinato sia nei suoi contenuti, sia nei suoi limiti. Curiosamente, i contenuti dell’esercizio della sovranità sono ricondotti alle forme previste, e dunque al modo del loro esercizio e alle relative procedure[36].

Il che lascia intendere – e introduce insieme la relativa tematica – che il modello avuto presente dal legislatore costituzionale è – ma ciò non sarebbe potuto essere altrimenti – il modo dell’esercizio della sovranità, il quale presuppone in via generale la determinazione di un meccanismo conformativo della relazione fra rappresentato e rappresentante.

Ma dopo tutto, cosa significa “democrazia” e poi cosa è mai la democrazia[37]? L’interrogazione, come lascia intendere la sua formulazione, non è semplice, ma duplice: in primo luogo, essa intercetta un problema squisitamente semantico; in secondo luogo, essa innerva una ben più spessa problematica di natura ontologico-funzionale. E a questo punto occorre essere ben chiari: seguendo un approccio esclusivamente glottologico non si intercetta la realtà sottostante, talché si finisce col perderne i contorni; per contro, guardando al solo lato empirico della realtà, si perde l’orientamento e si finisce con lo smarrire lo scopo della ricerca[38].

Dal punto di vista glottologico, “democrazia” significa semplicemente governo del popolo, ossia kratos attuato dal demos. Detta così la questione è semplice: il popolo attua da sé il proprio autogoverno, ossia pone da sé e per sé le regole dell’agire del proprio essere collettività. Il precipitato di questo pensiero rimanda a una nozione intuitiva: quella di esercizio diretto e autoriflessivo della determinazione delle regole che fondano e rendono possibile la convivenza e la coesistenza di gruppi di persone entro un perimetro dato.

Il problema è che una tale forma di autogoverno totalizzante non si è mai data compiutamente nella storia del genere umano per l’ovvia ragione che mai tutti i soggetti di una collettività organizzata sono stati effettivamente coinvolti in condizioni di piena parità e equivalenza nel compimento di fatti di normazione, ossia in fatti di produzione normativa[39].

Ma vi è di più, ossia la tendenza a fare del nome “democrazia” il presupposto linguistico per la costruzione di un concetto con pretese meta-storiche, evenienza particolarmente evidente nel linguaggio dei mass media. Per convincersene è sufficiente riepilogare i termini di un breve excursus storico, il cui scopo è fare chiarezza sull’asserita introduzione delle democrazie a partire dall’esperienza di Atene e sulle sue sorti nel corso del tempo fino a oggi[40].

A questo proposito, va osservato che il potenziamento degli organi elettivi in Atene si deve alla riforma del 508-507 di Clistene, poi consolidata da Pericle, e che sia Platone, sia Aristotele consideravano la democrazia una forma degradata del potere perché esercitata per multos dal demos, come parte povera del tutto per i proprî scopi e non nell’interesse generale. Identico pensiero, nella sostanza, è stato sostenuto da Tommaso d’Aquino che fatto uso della medesima concettualizzazione osservando che «si vero iniquum regimen exerceatur per multos, democratia nuncupatur, id est potentatus populi, quando scilicet populus plebeiorum per potentiam multitudinis opprimit divites»[41]. Per non dire che il riferimento alla democrazia è stato pressoché soppiantato a tutto vantaggio del riferimento alla “respublica, che per due millenni è stata considerata la forma politica ideale, radicalizzandone l’opposizione perché modalità di esercizio del potere nell’interesse di tutti e non dei molti.

Idea portata a compimento da Kant quando parlando della forma di dominio (forma imperii) evidenzia che «ve ne sono tre soltanto possibili: quelle, cioè, in cui il potere è posseduto da una, da più fra loro uniti o da tutti quelli che compongono la società (Autocrazia, Aristocrazia o Democrazia – potere del principe, di nobili o di popolo)»[42]. E subito dopo soggiunge che «fra le tre forme di Stati, la Democrazia è, nel senso proprio della parola, necessariamente un Despotismo in quanto che essa fonda un potere esecutivo in cui tutti deliberano intorno e, dato il caso, anche contro uno che non è d’accordo cogli altri; ciò significa volontà di tutti, che tuttavia non son tutti; una contraddizione, cioè, della volontà generale con se stessa e colla libertà»[43].

Tralasciando in questa sede gli sviluppi ulteriori, il nome “democrazia” e il relativo concetto riemergono con forza solo con il consolidarsi progressivo delle democrazie liberali, ossia di quella forma di governo che si caratterizza per la combinazione del principio liberale dei diritti individuali e della loro tutela, anche nei confronti dello stato, con il principio della sovranità popolare[44] e con l’avvio del processo di estensione del suffragio elettorale a prescindere dalla situazione censitaria[45].

Questa breve annotazione introduttiva che si discosta dalla provvisorietà solo in parte, determina la necessità di guardare alle esperienze che si sono succedute nella storia.

In questo modo, partendo dal significato della parola “democrazia” è possibile orientare l’indagine nella direzione corretta, che è poi quella di accogliere il contenuto di quanto si è fin qui detto per fissare un primo punto di approdo: se pur a fronte del significato del nome “democrazia” non si rinvengono esperienze storiche nelle quali l’intero popolo partecipa direttamente sia all’attività di produzione normativa, sia all’attività di governo, e se dunque non si danno forme di autogoverno totalizzanti, allora il dato effettuale deve essere ricercato altrove[46].

E questo altrove è bene espresso nella dottrina della democrazia classica, che si è affermata solo alla fine del XVIII secolo. In quel contesto l’esigenza avvertita era quella di costruire formule mediante le quali far coincidere il più possibile i governanti con i governati, nell’ormai acquisita consapevolezza che i secondi mai avrebbero potuto coincidere con i primi[47] [48].

Detto in altri termini, la contrapposizione fra democrazia diretta e democrazia partecipativa non può che essere risolta a favore della seconda, anche perché la definizione di “popolo” che ne definisce uno degli aspetti essenziali è sempre stata storicamente assai fluida[49].

Così, in particolare, è sicuramente falso che quella greca – che è poi esperienza circoscritta alla sola Atene – fosse una democrazia diretta compiuta entro una città-stato. E ciò è falso per almeno due motivi. Il primo: Atene non era affatto una città-stato ove “stato” non ha un significato comparabile con le moderne esperienze della statualità[50]. Atene, per contro era una città-comunità, il cui destino era legato a doppio filo a quello dei suoi abitanti e viceversa[51].

Il secondo: il popolo ammesso all’amministrazione della città-comunità era una piccola parte della compagine sociale, formata dai soli cittadini adulti, maschi liberi e come tali affrancati dal lavoro. Stesso discorso per la Roma repubblicana, per le esperienze comunali caratteristiche dell’evo di mezzo, che peraltro ebbero vita effimera[52] e per le monarchie prima feudali e poi nazionali, queste ultime caratterizzate da un territorio unificato e da un monarca assoluto.

4. Sovranità: il concetto e il suo divenire

Lo scollamento fra governati e governanti determina e ha determinato da subito la necessità di rifarsi a un collante istituzionale, progressivamente rielaborato e messo in questione: la sovranità in sé considerata e, in un secondo momento, la sovranità popolare[53], tematiche che devono essere esposte, sia pure succintamente, perché strettamente imparentate con l’evoluzione delle forme di stato e di governo che si sono succedute fino ai giorni nostri.

Il tutto tenendo presente che parlare di sovranità significa mettere in questione due concettualizzazioni distinte, sebbene non irrelate: la prima tematizza la sovranità intesa come potere pubblico supremo, ossia quello che ha la capacità e il diritto di far prevalere in ultima istanza l’autorità del sovrano; la seconda ha a proprio oggetto l’individuazione del detentore ultimo della legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quest’autorità[54] e dunque al tema della legittimazione. Quando si parla di sovranità nazionale, definendola, in particolare, come il mezzo dell’indipendenza, ossia della libertà d’azione di una data collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, nella seconda. In questo modo, potere e legittimità si trovano associate alla nozione di sovranità tout court.

L’aggettivazione “rielaborato” è di per sé eloquente. La nozione di sovranità era presente in letteratura ben prima che fosse esplicitamente fatto ricorso alla sua denominazione, solo che essa non ammetteva aggettivazioni perché ultronee[55]: di sovranità non si parlava apertamente, ma i concetti sviluppati ne sottendevano la nozione e la caratterizzazione.

Era quello il tempo della messa in discussione della “plenitudo potestatis dell’imperatore a tutto vantaggio dei monarchi dei regni in corso di formazione, che avrebbero dato vita agli stati nazionali in epoche storiche successive[56].

Il ragionamento sviluppato era il seguente: l’imperatore è dotato di “plenitudo potestatis perché superior e come tale “superiorem non recognoscens”[57].

Quando il re non riconosce la superiorità dell’imperatore, la “plenitudo potestatis gli si trasferisce de iure, e così via per i feudatari e le libere città, che rivendicano la loro indipendenza dai poteri sovrani[58].

Ecco perché, estendendo il concetto non solo ai regni in corso di formazione, ma anche alle libere città in via di affermazione, acquistava senso la “formola” risalente a Bartolo da Sassoferrato, da cui derivò il carattere originario dei relativi sistemi giuridici: «civitas superiorem non reconoscens tantum iuris habet in territorio suo quantum imperator in suo imperio»[59] [60].

In termini di legittimità e di legittimazione, e dunque di fondamento dell’autorità, la nozione e il concetto di sovranità si sviluppano a partire da concezioni cosiddette “teocratiche della sovranità”, per le quali ogni forma di potere statuale è tale se e solo se di derivazione diretta o indiretta dalla volontà divina[61].

In una prima è più risalente fase, il fondamento teocratico della sovranità vuole che il sovrano sia considerato soggetto di natura divina[62]. In una seconda fase, l’intervento divino si risolve più semplicemente nella scelta della persona all’interno di una stirpe data, la quale per ciò stesso avrebbe dovuto ineluttabilmente ascendere al trono[63]. In entrambi i casi, l’“auctoritas” è localizzata a priori e come tale non può essere revocata in dubbio, né misconosciuta.

In un secondo tempo, la sovranità viene tematizzata lasciando la sua ascendenza divina sullo sfondo. Ne è un chiaro esempio il pensiero di Jean Bodin[64], cui si fa usualmente risalire la prima teorizzazione sistematica della sovranità e dell’assolutismo sovrano, per il quale la sovranità altro non è che un potere assoluto, perpetuo, indivisibile, intrasferibile e imprescrittibile, talché il sovrano non è sottomesso alle leggi, ma al contrario le promulga e le ábroga a suo piacimento[65].

Da ciò segue che la caratteristica fondamentale della sovranità è il conferimento al principe, che non ha altra regola che la propria volontà, del potere di non essere legato o dipendente da nessuno, non essendo il suo potere né delegato, né temporaneo, né responsabile di fronte a chiunque[66]. Perché se dipendesse da un altro, all’interno o all’esterno, non avrebbe più il potere di fare le leggi e di governare e dunque non sarebbe più sovrano. In questo senso, il monarca è legibus solutus[67].

Certo, il monarca deve rispettare le leggi di dio, di natura e, in particolare, la proprietà privata e le libertà individuali, in assenza di che si è in presenza non di una monarchia regia, ma di una monarchia dispotica o tirannica. Ma tutto ciò non è certo il fondamento primo della legittimazione del potere del re. Accanto alla nozione e al concetto di sovranità si sviluppano di pari passo la nozione e il concetto di stato e di statualità del potere, con l’avvertenza che entrambe le nozioni non sono affatto il precipitato di concetti universali, validi per qualsiasi epoca e per qualsiasi popolo, «ma un fenomeno storico concreto legato a un’epoca determinata»[68].

Tralasciando in questa sede ulteriori sviluppi, ma rimarcando che il più significativo dei quali tematizza per la prima volta la presenza di un contratto sociale fra sudditi e monarca[69], che resta sempre monarca assoluto, va solo accennato che la riforma protestante, il venir meno del monopolio religioso della chiesa cattolica e il precipitato culturale dell’umanesimo portano gradatamente all’emersione di valori laici prima rimasti sullo sfondo e al convincimento che gli uomini dovessero essere considerati tutti eguali fra loro, con la conseguenza che il fondamento del potere statale dovesse essere ritrovato negli stessi individui che compongono la compagine sociale, ossia nel popolo che si costituisce in stato.

Il punto di approdo di questa dottrina porta a ritenere che la sovranità, nella sua versione più radicale enunciata da Jean Jaques Rousseau, appartiene al popolo riunito in nazione, nella quale ogni cittadino è detentore di una frazione proporzionale di sovranità, avendo il diritto di concorrere all’esercizio del potere pubblico[70]. Ciò avrebbe dovuto condurre da súbito ad attribuire peso e rilevanza a ogni individuo, cosa che però non avvenne perché apertamente osteggiata dalla borghesia rivoluzionaria, la quale rivendicava il monopolio del suffragio elettivo[71], avversando qualsiasi forma di suffragio universale e di democrazia diretta.

A partire da questo momento, la teoria della sovranità nella sua aliquota che tratta della legittimazione è intimamente legata e connessa all’allargarsi del suffragio elettivo, che viene progressivamente esteso fino a diventare suffragio universale e diretto, come tale assegnato a tutti i cittadini, a prescindere dalle loro condizioni, purché non ne siano privati per cause direttamente ed esplicitamente previste dalla legge[72]. Che le moderne costituzioni enuncino il principio che la sovranità appartiene al popolo non significa però che il soggetto depositario della sovranità non sia lo stato.

A ben vedere, sovrano è proprio lo stato, con la conseguenza che «le locuzioni ‘sovranità popolare’ o ‘sovranità che spetta al popolo è intesa […] in uno di questi sensi: 1) si tratta di una locuzione politica più che giuridica: giuridicamente significa che lo Stato è democratico; 2) sta a significare che la normativa dello Stato deve riconoscere un meccanismo elettorale per i reggitori dello Stato stesso; 3) significa che al popolo deve riconoscersi il massimo possibile dei poteri negli istituti previsti dalla Costituzione; 4) è un’espressione a sé, del tutto distinta da quella di sovranità in senso proprio, attinente ad istituti diversi dalla sovranità in senso tradizionale»[73].

Come si può agevolmente notare, mettere in questione il significato e la realtà sottesa al nome “sovranità” significa, guardando al loro sviluppo storico, che la sovranità non ha alcuna relazione di corrispondenza necessaria né con la forma di stato, né con quella di governo, come del resto era già stato chiarito da Jean Bodin, per il quale la sovranità può risiedere nella moltitudine, in una minoranza o in un uomo solo, e allora si sarà in presenza di democrazia, di aristocrazia o di monarchia.

5. Popolo: la polisemia del termine

Per trarre le fila dal discorso in parola deve essere messo in questione quale sia il significato di “popolo” e cosa in una prospettiva non solo empirica il popolo sia. Il perché è ovvio: quando si parla di democrazia il riferimento d’obbligo va proprio al nome “popolo”, con la conseguenza che i due nomi sono indisgiungibili e che i loro significati si rimandano l’un l’altro in modo particolarmente stretto. Il che vale a maggior ragione quando alla democrazia rappresentativa si vuole accostare quella riedizione di democrazia diretta che qui interessa, ossia la e-democracy.

Adeguando l’analisi all’economia del presente lavoro, si può evidenziare che “demos” è termine polisemico, di volta in volta riferito a “plethos”, ossia all’intero corpo dei cittadini liberi, agli “hoi polloi”, ossia ai molti, agli “hoi pleiones”, ovvero i più, piuttosto che a “ochlos”, e dunque alla folla indistinta. Fatta la debita eccezione per le nozioni di popolo inteso come “tutti” – che poi non sono mai proprio i tutti – piuttosto che come “i più”, “i membri delle classi inferiori” (il cosiddetto “populace”), ovvero “la totalità”, con ciò volendo fare riferimento a un insieme organico e indivisibile di soggetti, le nozioni operative di “popolo” sono due: popolo come principio maggioritario assoluto e popolo come principio maggioritario temperato[74].

A questo proposito, è particolarmente eloquente quel pensiero per il quale in queste due accezioni «il popolo viene trasformato in una unità operativa qualificata dalle sue regole decisionali. Il popolo sub specie di principio maggioritario assoluto (illimitato) decide secondo il criterio che i più contano per tutti, i meno per nessuno. Invece il popolo sub specie di principio maggioritario temperato (limitato) decide secondo il criterio che i più prevalgono sui meno nel rispetto dei meno»[75].

Il tutto con l’avvertenza che nell’accezione di “popolo” qui in questione rileva non tanto il dato letterale, quanto piuttosto quello decisionale, dato che eleggere su base popolare dei rappresentanti da parte dei rappresentati secondo regole che determinano il rapporto rappresentativo è cosa ben diversa dal decidere da parte dei primi.

Proprio per evitare che la “maggioranza che prende tutto” riduca all’impotenza una “minoranza che perde tutto”, il principio maggioritario sub specie assoluto deve essere accantonato, per garantire la minoranza[76].

La democrazia altro non è che un sistema entro cui l’attuale compagine di maggioranza degli eletti può divenire minoranza secondo il principio dell’alternanza; il che impone che l’alternanza sia non solo possibile, ma anche che il relativo meccanismo sia fornito di protezione giuridica. La democrazia non è più un valore assoluto, ma misurabile entro una logica che valorizza non gli opposti perché contraddittorî, ma gli opposti perché solamente contrarî[77], con la conseguenza che acquista senso parlare e mettere in questione il tasso di democraticità di una democrazia data[78].

Quanto alla nozione e al concetto di popolo, da non confondere con quello di popolazione[79], a connotazione più tagliata dal punto di vista giuridico, si può osservare che «soltanto la comune, stabile e generale sottoposizione ad un potere effettivo ed indipendente costituisce una qualsiasi collettività in popolo propriamente detto: non bastando, di per sé il manifestarsi di interessi comuni, più o meno intensi, né la presenza di fattori unificanti di natura etnica o razziale o culturale o territoriale, poiché tutte queste circostanze, o talune di esse, possono ricorrere, e non di rado ricorrono nella storia, senza che ci sia l’unità statale»[80].

La conseguenza è che «sono membri del popolo coloro soltanto che siano sottoposti in modo ‘permanente’, ‘necessario’ e ‘generale’ ad un potere tendenzialmente illimitato ed esclusivo. Ciò significa, in parole più semplici, ed esprimendo il medesimo concetto in forma negativa, che non fanno parte del popolo coloro che siano sottoposti al potere limitatamente a singoli e determinati rapporti o per fini e motivi contingenti e particolari, né coloro la cui sottoposizione al potere dipende esclusivamente dallo loro libera scelta»[81].

Terminata la rapida carrellata sull’evoluzione della nozione e dei concetti di democrazia, sovranità, e popolo, e riprendendo le fila del discorso sulla democrazia – che è governo del popolo in senso ben più che traslato – deve essere osservato che la democrazia è anche altro.

Essa, proprio perché governo attuato da una maggioranza, ha quale logica conseguenza che quest’ultima attua il proprio governo decidendo e imponendo le proprie scelte non solo ai rappresentanti che l’hanno sorretta e la sorreggono, ma anche ai proprî naturali antagonisti. Questa circostanza si esprime dicendo che la maggioranza impone la propria decisione anche alla minoranza, di fatto limitandone la libertà. Il che impone a sua volta che le minoranze siano adeguatamente tutelate nei confronti delle maggioranze.

Come si può agevolmente osservare, mettere oggi in questione la democrazia è tutt’altro che agevole, il che impone l’utilizzazione di un linguaggio sorvegliato e accudito. Sorvegliato e accudito perché in questione, in definitiva, è la libertà degli individui, ossia, dopo la salute, il bene più prezioso che un umano può rivendicare e che ha diritto di pretendere.

6. Tecnica, tecnologia ed e-democracy

E ora, la questione cruciale: che significa che la politica deve appropriarsi della tecnologia per attuare un’efficiente e-democracy? Ma dopo tutto, cos’è mai questa e-democracy? Come si applica l’“e-” alla democrazia, osservato che tale prefisso nominale è applicabile un po’ a tutto, salvo declinarlo o almeno menzionarlo?

In via di prima approssimazione, si può dire che la nozione e il relativo precipitato concettuale rimandano al rafforzamento dei sistemi cosiddetti “democratici” attraverso il ricorso alle tecnologie informatiche. Ma anche qui, meglio sarebbe dire «entro un ambiente tecnico nel quale si danno tecnologie»: tecnologie informatiche, per l’appunto. Con “e-democracy” una fonte particolarmente autorevole intende «la partecipazione dei cittadini alle attività delle pubbliche amministrazioni locali ed ai loro processi decisionali attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione. L’impiego innovativo delle ICT consente l’apertura di nuovi spazi di dialogo tra cittadini e amministrazione che integrano e rafforzano le forme tradizionali di partecipazione».

Il tutto preordinando tale auspicio a non meno di tre scopi: «migliorare la qualità delle politiche pubbliche», «aumentare la fiducia nell’amministrazione» e «contribuire al rafforzamento della democrazia»[82], cui si aggiunge il favorire la partecipazione dei cittadini alle decisioni che li riguardano.

In via di seconda approssimazione, la definizione di “e-democracy” rimanda alle più recenti acquisizioni del Parlamento europeo, il quale insiste sul concetto di inclusività, volendo significare che ai fini dell’accesso alla rete deve essere neutralizzata la differenziazione fra utenti in funzione della loro capacità tecnologica. A questo punto, dovendo – o volendo – garantire effettività al principio di eguaglianza sostanziale, divengono elementi caratterizzanti dell’e-democracy i seguenti momenti: l’“e-consultation”, l’“e-petition”, l’“e- deliberation”, l’ “e-budgeting” e, dulcis in fundo, l’ “e-voting”, tutte variamente definite dalla letteratura specialistica in materia.

In questo modo è definitivamente superata la suggestione che la e-democracy si risolva nel mero ricorso a tecnologie informatiche, ipotesi e tesi insieme che appare ictu oculi súbito per quel che è: ingenua e mistificante[83].

Le conseguenze positive di tale impostazione balzano all’occhio: maggior quantità di dati prodotti, maggiore circolazione di dati, maggiore conoscibilità e diffusione dei dati prodotti, maggior percezione di trasparenza, maggiore eguaglianza della persona al cospetto di chi produce i dati. Nonostante la dichiarata nobiltà degli scopi, il ricorso alle tecnologie informatiche applicate alla democrazia determina conseguenze non propriamente positive, che meriterebbero un’indagine più approfondita: la mole dei dati in circolazione ottunde e non ne facilita il reperimento, non tutte le persone sono in grado di padroneggiare gli strumenti informatici in uso, l’utente dei dati deve essere prima di tutto un “utente capace”, la mole dei dati in circolazione determina il livellamento dei loro contenuti, la vulnerabilità della struttura non garantisce la sicurezza dei dati, la loro rapida circolazione consente nuove forme di manipolazione delle persone, la raccolta dei dati avviene in modo sovente incontrollato [84] e così via. Evenienze, queste, cui si aggiunge la pratica impossibilità che il cittadino possa davvero partecipare alla formazione delle scelte che lo riguardano: impossibilità che è insieme falsità e utopia[85]. Al che si aggiunge il rischio che questa modalità di intendere la democrazia si trasformi in una vera e propria teatrocrazia[86] o teatralizzazione della democrazia, nella quale il caos, il pressapochismo e la demagogia determinano disordine politico[87].

D’altronde, l’e-democracy ha come obiettivo l’incremento illimitato della partecipazione della persona al processo decisionale che la riguarda. Ma l’e-democracy è prima di tutto un modo di intendere il funzionamento della democrazia, nella quale le decisioni sono assunte non dai rappresentati, che sono poi i soggetti incisi direttamente dalle decisioni, ma dai rappresentanti, i quali, per giunta, non hanno vincolo di mandato imperativo nei confronti dei primi.

Ecco dunque che – e questa è l’obiezione davvero decisiva – per volere più partecipazione della persona ai processi decisionali che la riguardano, l’e-democracy, proprio e perché essa è prima di tutto democrazia, deve anche volere che il luogo della decisione sia quello istituzionalmente e ordinamentalmente deputato ad assumerle. Ed è qui che tecnica e e-democracy entrano fatalmente in conflitto, proprio perché l’e-democracy è possibile solo entro un ambiente nel quale la tecnica esercita il proprio dominio. La volontà della tecnica di accrescere indefinitamente la propria potenza è incompatibile con la volontà della e-democracy di lasciare che sussista quel bisogno che consiste nella conservazione del luogo istituzionale nel quale sono assunte le decisioni che riguardano le persone. Il che è palesemente una contraddizione in termini[88] [89].

Tutto ciò, beninteso, sempre che non si pretenda di creare forme inedite di democrazia, il che, però, impone che le si definisca, connoti e denoti con precisione prima di intraprendere percorsi a senso unico dalle conseguenze inesplorate e non adeguatamente messe in conto.

Il tutto, senza che sia davvero messo in questione se ciò che è autenticamente propedeutico all’accesso alla rete informatica sulla quale circolano i dati sia o meno un vero e proprio diritto soggettivo, e come tale azionabile in via diretta innanzi al giudice e quindi ne sia o possa essere sanzionata la negazione in un modo purchessia: il diritto alla connessione alla rete informatica[90].

Sul diritto alla connessione devono essere fatte alcune considerazioni.

In primo luogo, il diritto alla connessione dovrebbe essere visto e considerato sia come un diritto in sé, sia come un diritto che condiziona l’effettività del godimento e dell’esercizio di altri diritti[91], quasi sempre di rilevanza costituzionale[92], al punto da ritenere auspicabile un riconoscimento esplicito nell’art. 21 Cost.[93] per renderlo davvero effettivo.

Sul tema ha agito la Commissione dell’Unione Europea, che ha prodotto la “Dichiarazione dei diritti in Internet” del 28/07/2015.

Di questo documento è utile richiamare l’art. 2, per il quale: «l’accesso ad Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale. Ogni persona ha eguale diritto di accedere a Internet in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e aggiornate che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale. Il diritto fondamentale di accesso a Internet deve essere assicurato nei suoi presupposti sostanziali e non solo come possibilità di collegamento alla Rete. L’accesso comprende la libertà di scelta per quanto riguarda dispositivi, sistemi operativi e applicazioni anche distribuite. Le Istituzioni pubbliche garantiscono i necessari interventi per il superamento di ogni forma di divario digitale tra cui quelli determinati dal genere, dalle condizioni economiche oltre che da situazioni di vulnerabilità personale e disabilità».

Nella medesima direzione si è sospinta la risoluzione approvata dall’Assemblea ONU del 27/06/2016, per la quale «[…] Considering the key importance of government engagement with all relevant stakeholders, including civil society, private sector, the technical community and academia, in promoting and protecting human rights and fundamental freedoms online, 1. Affirms that the same rights that people have offline must also be protected online, in particular freedom of expression, which is applicable regardless of frontiers and through any media of one’s choice, in accordance with articles 19 of the Universal Declaration of Human Rights and the International Covenant on Civil and Political Rights; […]».

Peccato che entrambe le enunciazioni abbiano tutta l’aria di essere norme meramente programmatiche e non già precettive. La conseguenza di ciò è immediata: nessuna possibilità di reazione giurisdizionale, ma solo indirizzi ai legislatori affinché si attivino per dare attuazione al diritto sancito ad pompam[94].

In secondo luogo, il diritto alla connessione deve essere effettivo e riscontrabile. Questo tema ne introduce un altro e riguarda il livello di alfabetizzazione informatica delle persone che necessitano di interfacciarsi con la rete, ovvero – e questo è propriamente il caso che viene in questione quando si parla di e-democracy – che vengono coinvolti in processi decisionali pubblici[95].

A ben vedere, il tema del livello di alfabetizzazione informatica si aggiunge alla questione della disponibilità della rete e riceve attualità e sottolineatura dalle conseguenze determinate nella vita di relazione dalla pandemia da covid-19[96].

Qui hanno assunto specifico rilievo sia lo svolgimento del lavoro a distanza, meglio noto col solito e fastidioso anglismo “smart working”[97], sia la didattica a distanza, nota con l’acronimo “d.a.d.”, sia l’amplificazione dei contatti da remoto con gli uffici della pubblica amministrazione, non potendo più accedervi di persona[98]. E l’informazione in tempi di covid-19 ha toccato punte di parossismo nelle quali su dati tecnici e non solo è stato detto tutto e il contrario di tutto[99].

A questo proposito, è evidente che la possibilità di utilizzare la rete informatica è una diretta conseguenza del possesso delle relative conoscenze, capacità e competenze degli individui, le quali, stando alle rilevazioni statistiche sono preoccupanti per carenza, differente distribuzione sul territorio e sovente inattuabili proprio per mancanza di rete e collegamenti informatici[100].

Il terzo luogo, una rete deve esservi, e lo deve essere in modo uniforme sul territorio e secondo i medesimi canoni di efficienza. In aggiunta a ciò, l’accesso alla rete deve poter avvenire in modo eguale per tutti e soprattutto senza discriminazioni economiche o di reddito. Qui sono in questione la gratuità dell’accesso, l’efficienza della rete, la stabilità delle connessioni e quant’altro integri forme di par condicio fra le persone[101].

E ora la domanda cruciale, da cui prende spunto l’intitolazione di questo breve lavoro: ha davvero senso chiedersi e interrogarsi se il diritto debba o possa appropriarsi non della tecnologia (questione scontata, ma errata sotto il profilo epistemologico), ovvero, più propriamente, se il diritto, o meglio se la politica attraverso il diritto che conia ed esprime (ricordiamo che l’esercizio delle attività politiche nei luoghi istituzionalmente a ciò deputati ha autentica capacità e attitudine nomopoietica), possa mai realmente appropriarsi della tecnica per conformarla?

Per svelare l’arcano è bene disambiguare da subito un’evenienza che riveste i caratteri dell’urgenza. Parlare di politica tout court non ha il benché minimo senso, perché farlo pone al mero cospetto di una generica categoria del pensiero[102]. Meglio sarebbe discettare non di politica al singolare, ma di politiche, ossia di assetti valoriali di cui sono portatori gruppi ben determinati di individui più o meno organizzati[103], che, in quanto tali, esprimono valori condivisi e quindi scopi comuni da realizzare[104]. Il tutto con l’avvertenza che ogni assetto valoriale in gioco persegue scopi proprî, che sono differenti, e dunque che si escludono a vicenda perché squisitamente egoistici.

E con questo si torna fatalmente al punto di partenza. Già perché le politiche altro non sono che insiemi di fini da conseguire, le quali hanno bisogno, per poterne massimizzare la capacità di realizzazione e di conseguimento (qualcuno potrebbe dire a buon titolo “di performance”), non della tecnologia, ma della tecnica, di cui debbono appropriarsi proprio per autopotenziarsi. Il tutto con l’avvertenza che la tecnica non esprime valori, ma solo funzionalità[105].

Ecco allora che chiedere alla politica – rectius: “alle politiche” – di appropriarsi della tecnica per piegarla ai proprî scopi è un po’ come pretendere di flettere l’inflessibile. Il che suona oltre che errato, anche patetico. A parte la circostanza secondo cui sarebbe bene mettere in questione una buona volta per tutte se le politiche sono (siano) o meno espressione di valori in sé ovvero di utilità di apparati che le trascendono[106], andare in quella direzione è un po’ come chiedere “a-chi-può, di-voler– (meglio: dover-) non-potere”. Il che è, diciamocelo con franchezza, stucchevole per non dire altro o ben altro.

Le politiche non possono che subire la tecnica e tutte le sue implicazioni, per l’ovvia ragione che esse si danno entro un ambiente dato: l’ambiente della tecnica, per l’appunto, della quale le tecnologie sono nulla di più che strumenti. È questa la straordinaria eterogenesi dei fini che caratterizza l’era della tecnica. Ciò che era strumento diviene scopo e ciò che era scopo è degradato e dequotato a strumento: se tutti i portatori di scopi egoistici hanno bisogno della tecnica per massimizzare la propria potenza, allora la tecnica diviene fatalmente scopo di scopi, che rispetto a essa degradano a meri strumenti. Un po’ come il danaro nella dinamica danaro-merce-danaro: da strumento di scambio il danaro diviene fine da conseguire e scopo del capitalista. Il quale altro non vuole che il danaro ne produca altro e di più attraverso l’intermediazione della produzione e la circolazione delle merci[107].

7. Ancóra e infine sulla e-democracy

A queste annotazioni, già di per sé dirimenti e paradigmatiche, se ne aggiungono altre.

Da mettere in questione – e occorre farlo con elementi di segnalata urgenza e preoccupazione – sono, in primo luogo, le modalità del coinvolgimento globale delle persone nei processi di formazione delle decisioni pubbliche. Ciò che occorre tematizzare sono i modi attraverso i quali viene assicurata l’informazione del contorno – ambiente, contesto – entro cui è calata la richiesta di apporto partecipativo e i termini entro i quali si svolge l’acquisizione dei giudizî e/o delle manifestazioni di volontà dei soggetti coinvolti. È noto, infatti, che la comunicazione diffusa, il cui protagonista indiscusso è oggi la rete dei mass media, richiede quasi sempre forme di semplificazione dei contenuti, attesa la generalità dei destinatari e quindi la caratterizzazione del loro target medio. La quale, quando è eccessiva, li annulla e trasforma la comunicazione in un insieme di parole prive di referente (Bedeutung, Denotation) piuttosto che in vere e proprie parole-valore[108]. Al che si aggiunge che raramente la comunicazione diffusa diffonde nozioni, preferendo diffondere semplici informazioni allo scopo di formare e cristallizzare consenso attraverso la formazione di opinioni[109].

Ma vi è di più. Le forme di democrazia diretta, sia pure nella loro riedizione di e-democracy, sono destinate fatalmente al fallimento proprio nell’era della tecnica, nella quale al soggetto cui si chiede di partecipare attivamente ai processi di formazione delle decisioni pubbliche mancano le necessarie cognizioni tecniche per poter decidere in modo pienamente informato e dunque consapevole, ossia le conoscenze e le competenze[110]. Ecco allora che le valutazioni e le espressioni di giudizio rese avvengono non su base conoscitiva, ma meramente retorica proprio perché non tecnicamente informate. E, com’è facilmente intuibile, tutto ciò si presta a forme di manipolazione di straordinaria potenza, con effetti falsanti davvero stravolgenti[111].

A ciò si assomma il rischio, tutt’altro che inattuale, che i processi di partecipazione alle decisioni siano eteropilotati attraverso l’utilizzazione di forme artate nella formulazione dei quesiti ovvero il ricorso a tecniche manipolatorie ben note alla letteratura e alla prassi specialistica[112].

A questo proposito, non può essere certo sottaciuto che le democrazie oggi conosciute sono democrazie di opinione[113], meglio sarebbe dire “opinione pubblica”[114], nelle quali l’opinare delle persone e dei gruppi è sottoposto a flussi di informazione continua che provengono dai mezzi di comunicazione di massa, attuando forme di eteroformazione ed eterodirezione sempre più spinte[115], rese possibili soprattutto dall’avvento dell’era della televisione. Quale sia la potenza del mezzo è ampiamente risaputo, così come pure lo è l’effetto che essa genera, al punto che «non importa che le immagini possano ingannare ancor più delle parole […]. Il punto resta che l’occhio crede in quel che vede; e quindi che l’autorità cognitiva più creduta diventa la cosa vista. Ciò che si vede appare “reale”, il che implica che appare vero»[116].

A fare la differenza è quindi la somministrazione organizzata di informazioni e non il trasferimento di nozioni [117], con la conseguenza che le opinioni non sono necessario veicolo di conoscenza, ma di valutazione, che sono effimere perché esposte alle tecniche della comunicazione e alla mutevolezza dei suoi contenuti[118] [119].

Un modello utile per comprendere che le democrazie di oggi – ossia le democrazie rappresentative di stampo occidentale – sono democrazie di opinione fa riferimento a cinque momenti logicamente, ma anche fattualmente, distinti, ciascuno dei quali caratterizzato da proprî elementi caratteristici. Ciò può essere mostrato osservando che la formazione delle opinioni avviene secondo un modello a cascata, nel quale i processi di opinione sono assimilati a vasche a caduta progressiva. Il bacino di carico è dato dalle idee delle élite economiche, finanziarie e sociali[120]. A questa prima stratificazione ne seguono altre quattro: le forze politiche e di governo, i mass media, i leader di opinione e infine il popolo[121], la seconda e la terza delle quali interessate da forme di instabilità interne[122].

A ciò si aggiunge altro. Le forme di democrazia elettronica creano una modalità inedita di duplicazione dei mondi. Il mondo al quale si accede con un clic è a tutti gli effetti un mondo virtuale, che spesso – per non dire mai – non coincide con il mondo reale. Affacciarsi sul mondo virtuale significa aderire senza saperlo a una rappresentazione del mondo tout court, che finisce per obliterare il mondo reale, non solo affiancandolo, ma potendo pergiungere ad annullarlo. La nozione e il concetto di mondo virtuale non negano, ma anzi presuppongono le modalità della sua rappresentazione, il che desta almeno due perplessità.

In primo luogo, le immagini del mondo virtuale e la sua rappresentazione sono scelte da chi le costruisce, evenienza tutt’altro che aproblematica, con la conseguenza che la consistenza e i contenuti del mondo virtuale sono il prodotto di scelte individuali, il più delle volte consapevolmente organizzate e orientate a scopi ben precisi e spesso, per non dire sempre, sottaciuti.

In secondo luogo, il “contenuto di verità” del mondo virtuale così creato non si presta a essere messo in discussione. Esso, infatti, poggia interamente sulla tecnica, il cui funzionamento ne costituisce a tutti gli effetti la cifra e lo specifico valore di verità. La tecnica diventa in tal modo il fondamento di un vero e proprio argumentum ex autoritate, che non si presta più a essere messo in discussione e revocato in dubbio.

E ancóra. Il coinvolgimento dei tutti – ossia della pletora – vuole avvicinare il modello della e-democracy alla democrazia diretta, facendo di essa una riedizione tecnologicamente avanzata. A tanto si può obiettare che le forme di democrazia diretta – come mostrato in precedenza – hanno funzionato per circa un secolo e mezzo e che la loro funzionalità era possibile per due ragioni: l’esiguità dei soggetti che vi partecipavano e il loro costante interfacciamento, necessario per formare la pluralità delle opinioni e determinare quale fra esse dovesse prevalere[123]. Nulla di tutto ciò è possibile nelle forme di e-democracy conosciute, perché manca almeno uno dei due prerequisiti segnalati: la riconoscibilità e il costante interfacciamento dei soggetti, che oggi non sono più i pochi che decidono per tutti, ma i tutti che potenzialmente decidono per tutti.

Ovviamente anche questo precipitato è a sua volta criticabile, ma – a ben vedere – l’unica critica possibile non regge alla prova dei fatti. E infatti, all’obiezione per cui la rete è il luogo nel quale avviene l’interfacciamento potenziale dei tutti per la formazione dell’opinione prevalente è facile obiettare che tale interfacciamento è fra assenti, condizionati dal contesto entro il quale avviene lo scambio di informazioni, in completa assenza di componente para ed extra verbale, entro un palinsesto predeterminato e per giunta con forti condizionamenti emotivi che portano a fornire risposte al rialzo o puramente e semplicemente adesive alle prospettazioni di chi formula l’oggetto della consultazione (“e-consultation”) o dell’oggetto su cui decidere (“e-decision”).

In definitiva, la e-democracy si presta fatalmente alla manipolazione del consenso, creandolo artificiosamente e senza evocare forme di controllo, di coazione e, a maggior ragione, di ricorso alla violenza[124], il che rende lo strumento particolarmente insidioso e subdolo. Il risultato di tutto ciò è la benedizione della piazza virtuale, alla quale si affaccia dal mondo reale il “leader”, che diviene tale se e in quanto si trasforma il “leader performer” che parla per “slogan”. La partecipazione alle decisioni entro il mondo virtuale è pura utopia, perché l’accesso a tale forma inedita di mondo non avviene mai per semplice impatto, ma seguendo protocolli, percorsi e modalità eteroimposte[125].

8. Conclusione

Che dire a questo punto? A ben vedere almeno due cose.

In primo luogo, che per parlare di e-democracy occorre mettere in questione nozioni e concetti di ampio spessore, e che nel farlo deve essere utilizzato un linguaggio particolarmente accudito e sorvegliato. Le investigazioni sul tema devono essere condotte in duplice direzione: la prima di tipo glottologico; la seconda esperienziale, poiché entrambe sono l’antidoto più efficace contro chi si accosta a questi argomenti in modo non pienamente consapevole[126].

Più in dettaglio, la democrazia elettronica, soprattutto nella sua versione di e-consultation e, a maggior ragione, di e-deliberation si porta appresso il rischio tutt’altro che marginale di vere e proprie forme di plagio dell’opinione pubblica, irretita con domande talvolta capziose, formulate in modo da indurre la risposta auspicata, la cui comprensione presuppone cognizioni sovente fortemente specialistiche che mai sono presenti nella medesima forma diffusa che si pretenderebbe di conseguire con il coinvolgimento della popolazione. A questo proposito, vale la pena di ricordare quanto sia potente l’influenza della propaganda applicata alla politica, quanto scarsi siano gli antidoti a disposizione di chi la subisce[127] e quanto siano pericolosi gli opinion leader che oggi occupano con costanza preoccupante trasmissioni televisive che definire urlate è davvero poca cosa[128].

In secondo luogo, che le politiche possono appropriarsi solo degli strumenti di volta in volta sviluppati entro gli apparati tecnologici in cui essi si danno in un dato momento storico. Giammai però le politiche possono appropriarsi della tecnica, vero e proprio dominio e ambiente entro cui le politiche agiscono. Pensare di poterlo fare è pura utopia. Ipotizzare un luogo nel quale ciò possa accadere è distopia[129]. Certo, le politiche possono darsi dei limiti nell’uso degli strumenti tecnologici, ma questa è altra cosa.

Limiti etici in primo luogo, anche se nei casi cruciali, ossia quelli del fine e dell’inizio vita le politiche mostrano tutto il loro limite e tutta la loro soggezione nei confronti del mondo entro cui agiscono: il mondo della tecnica. Che, oltre tutto, finisce fatalmente con l’azzerare la rilevanza del tempo, che è oggi prevalentemente tempo scopico[130], ossia tempo nel quale se da una causa non segue l’effetto hic et nunc, allora la causa cessa di essere tale per divenire altro.

Queste sono in breve le ragioni per le quali le politiche e la tecnica non dialogano. Men che meno quando si parla di democrazia e di e-democracy.

Oggi occorre rassegnarsi a ben altro: le politiche – non la politica – agiscono e sono agíte entro un ambiente che le trascende. E questo è proprio l’ambiente della tecnica; ambiente che è e resta ciò che rimane della parabola entro cui è iscritto quell’occidente che ne ha enucleato e caratterizzato la portata e i valori[131] e che oggi pare intravvedere il proprio inesorabile tramonto[132] proprio come l’etimo di “occidente” sembra – purtroppo – suggerire.

  1. Questo lavoro è lo sviluppo e l’approfondimento di un precedente articolo dal titolo E-democracy fra tecnologia, tecnica e politiche: il disvelamento di un arcano, in Rivista delle risorse umane, Maggioli, Rimini, 2/2018, pagg.41-48.

  2. Di ciò si è parlato nel convegno organizzato dalla Facoltà di scienze politiche – Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Statale di Milano il 12/02/2018. L’occasione è stata la presentazione del libro di G. Vilella, Introduzione alla E-Democracy, Pendragon, Bologna, 2018, nel quale sono state messe in questione proprio talune delle tematiche oggetto di questo breve lavoro. Da quel momento il nostro interesse per la relazione a tre membri “democrazia elettronica – tecnica – politic[che]”.

  3. È ampiamente noto che l’introduzione delle tecnologie informatiche a disposizione della pubblica amministrazione ha avuto un’accelerazione davvero impressionante, né poteva non essere altrimenti.

    La prima vera e propria rivoluzione informatica applicata all’attività amministrativa si è avuta all’inizio degli anni ’90. In quel torno di tempo essa era limitata all’introduzione dei primi sistemi di scrittura e all’utilizzazione dei primi programmi di gestione automatizzata dei bilancî e dei sistemi di produzione documentale. Essa fu agevolata anche a livello legislativo con la previsione della deroga al principio dell’evidenza pubblica attuato con l’art. 1 della l. n. 770/1986 dell’11 novembre1986. Oggi la situazione è radicalmente mutata: l’ordinamento sta attuando, e con forza, la progressiva e irreversibile sostituzione di tutta la documentazione amministrativa con la documentazione informatica. Ne sono prova, il d.lgs. n. 82/2005 del 7 marzo 2005, di recente aggiornato con il d.lgs. n. 217/2017 del 13 dicembre 2017, n. 217.

  4. Come sarà ampiamente mostrato e dimostrato insieme, ciò deriva dalla confusione fra due veri e propri termini-chiave: “tecnologia” e “tecnica”. Ma di ciò si dirà amplius.

  5. Il nome “disvelamento”, qui riprodotto nella forma “dis-velamento” ha una chiara attinenza e derivazione con la verità. Lo mostra l’ètimo: l’essere velato, sconosciuto, nascosto rimanda a “letheia” e, di conseguenza, al verbo “lanthanein”; il togliere il velo, ossia il rendere evidente, rendere riconoscibile, può essere reso con “aletheia”, che significa proprio verità, e dunque dis-velatezza, dis-occultamento. Su tutto ciò, U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente, Feltrinelli, Milano, 2005, pag. 16. Qui è tematizzato quanto espresso in M. Heidegger, La dottrina platonica dell’essere, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 184 e ss. Ovviamente, in questo lavoro non si ha certo la pretesa di mostrare verità, ma solo di esprimere un’opinione. Giudichi il lettore se accettabile o meno.

  6. C. Belacchi, B. Benelli, Il significato delle parole. La competenza definitoria nello sviluppo tipico e atipico, Il Mulino, Bologna, 2007. L’opera tratta della tematica in questione in differente ámbito. Ciò nondimeno se ne possono trarre utili spunti di riflessione a livello metodologico generale.

  7. La centralità autenticamente baricentrica del linguaggio è sempre stata valorizzata dal pensiero occidentale. Solo due richiami: il primo è al Cratilo di Platone. Il secondo all’intera parabola filosofica di Wittgenstein.

    Nel Cratilo, Platone mette in questione il rapporto fra linguaggio, pensiero e realtà. Il linguaggio contiene in sé infinite saggezze. Esso nasce per imitazione, ma da essa presto si emancipa. La discussione fra Socrate, Cratilo e Ermogene è nota: i nomi nascono da convenzioni e rappresentano oggetti in termini di necessarietà? Da qui il bivio fra due teorie sul linguaggio mutuamente esclusive e congiuntamente esaustive: il linguaggio nasce da convenzioni o esprime contenuti di necessarietà? Su tutto ciò, ex pluribus, F. Aronadio, I fondamenti della riflessione di Platone sul linguaggio: il Cratilo, Storia e letteratura, Roma, 2011.

    Ma è soprattutto in L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1980, che al linguaggio e alla sua importanza viene restituita la cifra fondamentale gli è propria in quanto tale. Il linguaggio non ha più solo funzione di rappresentare la realtà sulla base dell’asserito isomorfismo fra pensiero-linguaggio-realtà, ma assolve a ben più complesse funzioni. Linguaggio significante (“logos semantikos”, avrebbe detto Aristotele) non è più solo il linguaggio apofantico (logos apophantikos), ma anche altro: in questo modo, il linguaggio dell’etica, dell’estetica, dell’arte, della religione e anche il linguaggio della politica recupera lo statuto di linguaggio pienamente significante. Questo, in termini, il pensiero espresso nel Perì Ermeneías (Dell’espressione) libro II dell’Organon, trad. it. Dell’espressione, Laterza, Bari, pag. 55: «ogni discorso è poi significativo, non già alla maniera di uno strumento naturale, bensì, secondo quanto si è detto, per convenzione. Dichiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera, né falsa. Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal momento che l’indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla poetica. Il discorso dichiarativo spetta invece alla presente considerazione».

  8. Di “explanans” ed “explanandum” parla e discetta ex pluribus G. H. von Wright, Explanation and Understanding, Cornell University Press, Ithaca, New York, 1971, trad. it. Spiegazione e comprensione, Il Mulino, Bologna, 1977: “explanans”: è ciò attraverso cui viene fornita una spiegazione (mezzo); “explanandum”: è ciò di cui viene fornita una spiegazione (realizzazione intenzionale dello scopo).

  9. Il riferimento alla contestualizzazione è di diretta derivazione heideggeriana. Nel pensiero dell’autore, è centrale non tanto l’essere (“Sein”), quanto l’esserci (“Dasein”) e dunque “l’esserCI” dell’essere. Anche qui, è del tutto inutile affrontare la complessa problematica, trasportandola a una categoria generale del pensiero, ma occorre calarla nel più proprio contesto in cui essa si dà; certo, impiegando categorie, ma senza farne abuso. Il luogo dello sviluppo del pensiero risale al 1927 ed è contenuto in Sein und Zeit, Niemeyer, Tubinga, 2006, trad. it. Essere e Tempo, Mondadori, Milano, 2006.

  10. N. Cusano, Sulla “tecnica”. La “nuova morale” e le “foglie secche sui rami”, Mimesis, Milano, 2013, pagg.15 e 16: «Che cos’è la “tecnica”? Rispondere a questo interrogativo significa rispondere anche all’obiezione per cui non sarebbe legittimo parlare di un essente “tecnica”, ma solo di competenze tecniche specialistiche, “tecnicismi”, “tecnologie”, meri strumenti creati e usati in contesti diversi per perseguire gli scopi più disparati. Per togliere il (debole) argomento all’obiezione è sufficiente questo rilievo: che la tecnica sia utilizzata da forze politiche, economiche, sociali, religiose ecc., non significa che non esista, accanto a tali forze, una diversa volontà di rivolgersi alla capacità di realizzare scopi. E tale volontà è appunto la “tecnica”, di cui teniamo ferma la definizione severiniana di “volontà di potenziare indefinitamente e incondizionatamente la capacità di realizzare fini». E ancóra, «“Capacità di realizzare fini” significa colmare le mancanze, risolvere problemi, eliminare bisogni. La tecnica non è dunque un mezzo incosciente, ma un vero e proprio “sistema” che, a differenza degli altri sistemi che usano la tecnica per realizzare i loro scopi specifici, non ha scopi particolari ma un unico scopo: l’indeterminato potenziamento della potenza. Senza nessuna limitazione Proprio per questi motivi, la tecnica altro non è che un “sistema di sottoinsiemi” che ha “come obiettivo il potenziamento indefinito della capacità di realizzare scopi. I “sottoinsiemi” sono, per esempio, il sistema economico, finanziario, giuridico, militare, sanitario, scolastico, religioso ecc. Ogni sottoinsieme (di cui la tecnica è sistema) ha come scopo la realizzazione di un obiettivo particolare, in lotta con gli altri sistemi per imporre i propri scopi su quelli degli altri»

  11. Ecco i passaggî più salienti della vicenda: «[…] a rupi vertiginose quest’uomo costringi con ceppi infrangibili di catene adamantine. Egli sottrasse il tuo fiore, il bagliore del fuoco, ch’è padre di tutte le arti, e l’offerse ai mortali. Di tale misfatto bisogna che paghi le pene agli dèi, e impari a rispettare la signoria di Zeus abbandonando il suo amore eccessivo per gli uomini». E ancóra: «Un dono largito agli uomini piega al giogo di questo destino me, un miserabile: chiusa nel cavo d’una canna furtiva sottraggo la sorgente della fiamma, che si rivelò ai mortali maestra d’ogni arte e formidabile risorsa»

  12. U. Galimberti, Tecne e Psiche, Feltrinelli, 1999, pag. 34: «per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è piú oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi».

  13. U. Galimberti, Tecne e Psiche, Feltrinelli, 1999, pag. 34: «per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi».

  14. E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 1988, pagg. 34 e 35: «[…] la tecnica mira non a uno scopo specifico e escludente, bensì all’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, che è insieme incremento indefinito della capacità di soddisfare bisogni […]. È inevitabile quindi che tali forze […] rinuncino progressivamente allo scopo che pur intendono realizzare, e vi rinuncino appunto per non frenare, limitare, indebolire l’indefinito potenziamento degli strumenti – l’apparato scientifico-tecnologico con cui intendono realizzare tale scopo. In rapporto alla realizzazione dello scopo, il perfezionamento del mezzo che deve realizzarlo è infatti limitato e frenato. Altrimenti, il vero scopo diventerebbe tale perfezionamento. E se si vuole evitare questa limitazione (nell’illusione che potenziando indefinitamente il mezzo venga favorita la produzione dello scopo), è necessario che il perseguimento dello scopo non intralci il perfezionamento del mezzo, e dunque venga subordinato a tale perfezionamento – che così diventa il vero scopo primario».

  15. E. Severino, ult.op.cit., pag. 222.

  16. Sulla cosa e sulla semantica di “cosa” è utile ricordare che alla cosa è proprio il senso della competizione e della tensione dialettica e lacerante. A questo proposito, può essere di aiuto ricordare che “cosa” deriva la propria provenienza da “res”, la quale rimanda alla cosa in contesa, ossia alla lacerante tensione che è sempre presente nel processo fra opposte rappresentazioni della realtà. Se ne trova il riferimento in Platone, La Repubblica, trad. it. Laterza, 1997, pag. 369 nel noto dialogo fra Sacrate e Glaucone, dove della cosa – ti – si dice, con una parafrasi, «che essa né è, né non è, né è entrambi, né è alcuno dei due», con ciò volendone significare il continuo “oscillare” fra essere e non-essere. Questo è quanto è racchiuso nell’“epanfoterizein”, ossia nel continuo oscillare di ogni ente fra l’essere e il non-essere e dunque del loro “metaxu”. Sulla cosa e sulle sue caratterizzazioni ontologiche e funzionali, M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kant Lehre von den transzedentalen Grundsadzen, Klostermann, 1962, trad. it. La questione della cosa, Mimesis, 2011, pagg. 11 e ss.

  17. E. Severino, ult.op.cit., pag. 222.

  18. Sinonimo per similitudine di “cosa” è il nome “roba”. Curiosa è la sua derivazione etimologica. “Roba” deriva dal germanico “rauba”. Come acutamente osserva E. Severino, ult. op.cit., pag. 219, «ancor oggi, in tedesco Raub significa preda (noi, diciamo “rubare”)». “Cosa”, “roba”, “oggetto” sono sinonimi per similitudine, o forse addirittura per identità. Anche “oggetto” ha un ètimo quanto meno interessante: esso risale al latino medievale “obiectum”, neutro sostantivato di obiectus, participio passato di obicĕre “porre innanzi”; propriamente “ciò che è posto innanzi (al pensiero o alla vista)”. Il collegamento con il pro-durre è particolarmente evidente. Sul punto, R. Nobile, Pubbliche amministrazioni, organizzazione e progettazione: concetti, prodotti e norme, in www.lexitalia.it, 2019. Il lavoro è monotematico, ma sviluppa interessanti assonanze, consonanze ed evita dissonanze cognitive.

  19. E. Severino, ult.op.cit., pag. 19.

  20. E. Severino, ult.op.cit., pag. 226.

  21. E. Severino, ult.op.cit., pag. 215.

  22. E. Severino, ult.op.cit., pag. 218.

  23. M. Heidegger, Die Frage nach der Tecnik in Vorträge und Aufsätze, Verlag Gunter Neske, Pfuffigen, 1954, trad. it., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, 1991, pagg. 5 e ss.

  24. Proprio questo è l’inevitabile destino della tecnica: trasformare e riconformare l’uomo, che cessa di essere persona per divenire risorsa, ossia ente in rapporto di servaggio con l’apparato che ne definisce l’identità. Ciò, a ben vedere ha effetti stravolgenti sulla connotazione dell’uomo-risorsa che cessa di essere uomo persona: l’uomo-risorsa si consuma, e quando si è consumato cessa di vivere en e pour l’apparato e dunque cessa di esistere. Risonano qui come monito le parole di M. Heidegger nella conferenza di Brema dal titolo Das Ding, trad it. La cosa, in F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 20002, pag. 36: «i mortali sono gli uomini. Essi si chiamano “i mortali” perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet)». Proprio come lo è la natura, intesa non più come ambiente, ma come cumulo di risorse da padroneggiare e signoreggiare e sfruttare a piacere perché riserva di energia e di materia

  25. “Pro-durre” è termine caro a Heidegger (M.), Die Frage nach der Tecnik in Vorträge und Aufsätze cit., il quale ne fa il baricentro della sua concettualizzazione della tecnica.

  26. Per rendersene conto basta riflettere sulle conseguenze indotte dall’invenzione del telefono, del telegrafo, della radio e poi della televisione. Questi apparecchî (dispositivi, Device, Gestell) álterano pesantemente la percezione della spazialità e della temporalità, incidendo sul concetto di prossimità. Per non dire di quel che accade con le comunicazioni via web fra due o più soggetti: qui la distanza spaziale è azzerata così come pure lo è il tempo di risposta. La questione è tematizzata e lumeggiata da Martin Heidegger in die Angabe, trad. it. L’indicazione, in F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002, pagg. 19. Ecco i passi più salienti e drammatici insieme: «tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano […] Sennonché, la precipitosa eliminazione di tutte le distanze non porta alcuna vicinanza, giacché la vicinanza non consiste nella minore distanza […]. Che cosa accade se con l’eliminazione delle grandi distanze ogni cosa si trova ugualmente lontana e vicina? Che cos’è questa uniformità in cui tutte le cose non sono né lontane né vicine, e sono, per così dire, senza distacco (ohne Abstand)? Tutto si confonde nell’uniforme senza-distacco (das Abstandlose). Come? Questo compattarsi nel senza-distacco non è forse ancora più inquitante di un frantumarsi di tutto? […] Che cosa ancora aspetta questa paura sgomenta, se il terrificante (das Entsetzliche) è già accaduto? Esso [il terrificante] si mostra e si cela nel modo in cui ogni cosa è presente, nel fatto cioè che, malgrado ogni superamento delle distanze, la vicinanza di ciò che è rimane assente». Ecco il senso dello spaesamento, qualora ve ne fosse il bisogno.

  27. Ne tematizza U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, pag. 228 e ss. Si veda, in particolare, pag. 243 al § 6, Le psicopatologie da internet, del quale si raccomanda l’attenta e meditata lettura.

  28. H. Marcuse, One-Dimensional Man. Study in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston Press, Boston. 1964, trad. it. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1964, pag. 51 e ss.: «col progresso tecnico come strumento, la non-libertà – intesa come soggezione dell’uomo al suo apparato produttivo – vien perpetuata e intensificata sotto forma di molte piccole libertà e agi. […]. L’automazione pare davvero essere il grande catalizzatore della società industriale avanzata. È un catalizzatore esplosivo o, a seconda, non esplosivo, che opera un mutamento qualitativo nella base materiale, strumento tecnico del salto dalla quantità alla qualità».

  29. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Zeitschrift für Sozialforschung, 1936, trad it. F. Desideri, M. Montanelli, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Donzelli, Roma, 2019.

  30. Anticamente l’unica forma di riproduzione tecnica era il conio della moneta attraverso stampi. Oggi l’opera in unico esemplare è fatto raro e forse recessivo: basti pensare alla fotografia, e prima alla serigrafia, alla xilografia. Un discorso a parte va fatto per l’opera cinematografica, ove essa è la risultante della scelta di fotogrammi, che fissano più e più volte un’immagine che pare la medesima, ma che, in verità, è di volta in volta diversa.

  31. W. Benjamin, op.cit. – prima stesura (1936), pag. 23: «con il film l’opera d’arte ha acquisito una qualità che i greci le avrebbero probabilmente o che avrebbero probabilmente concesso in ultima istanza e che avrebbero considerato come la più inessenziale: si tratta della sua capacità di miglioramento. Il film compiuto è tutt’altro che una creazione in un sol getto, esso è montato a partire da numerosissime immagini singole tra cui il montatore può scegliere, immagini che, del resto, sin dal principio, nella successione delle riprese del film e fino alla riuscita definitiva, potevano essere migliorate a piacimento».

  32. W. Benjamin, op.cit., pag. 20: «Una ripresa cinematografica […] offre una visuale che mai e in nessun luogo era stata pensabile. Essa rappresenta un processo a cui non si può più assegnare nessun punto di vista dal quale l’apparecchiatura da ripresa, che non appartiene all’azione come tale, non cada nel campo visivo dello spettatore».

  33. L’uomo, che ha sviluppato tecnologie, che sono insiemi di strumenti, è dunque immerso nell’era della tecnica, che è divenuta dominio, ambiente e scopo ultimo. Di qui la domanda: ma dopo tutto qual è lo scopo della tecnica? È forse il miglioramento delle condizioni della vita, dell’ambiente, delle relazioni interpersonali e dunque della democrazia? La risposta è no: la tecnica è un po’ come la volontà di potenza di Nietzsche: transvalutati tutti i valori, all’uomo non resta che la propria volontà di autorealizzazione. Ma la volontà di autorealizzazione, che è poi volontà di potenza, vuole solo incrementarsi, perché questo è il suo scopo. Proprio come la tecnica: la tecnica persegue il solo scopo del proprio autopotenziamento. Sullo sviluppo del pensiero di Nietzsche non resta che far riferimento all’autore, tenendo conto che tutto prende le mosse dall’annunciata morte di dio, che Nietzsche riserva al folle, e questo non è un caso. A questo proposito, si veda il § 125 di La Gaia Scienza, Adelphi, Milano, 1986, pag. 129.

  34. Il riferimento alla sovranità è presente nella Costituzione in almeno tre momenti ben distinti, differentemente tematizzati: l’appartenenza della sovranità – art. 1, comma 2 Cost. –, il suo riferimento allo Stato – art. 7, comma 1 Cost. – e le sue possibili limitazioni – art. 10, comma 1 Cost..

  35. Sull’art. 1 Cost. la letteratura è ampissima. I limiti di questo lavoro suggeriscono il rinvio alla manualistica gius-costituzionalista. Per un esame più approfondito della materia, AA.VV. in G. Branca (ed.), Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali – articoli 1-12, Vol. 1, Zanichelli, Bologna, 1975.

  36. Parlando di forme di esercizio della sovranità popolare il rimando più pertinente e immediato è alla legge elettorale, ossi al modo attraverso il quale è costituito ordinamentalmente il rapporto fra rappresentante e rappresentato. Nell’ordinamento attuale la legge elettorale e la suddivisione del territorio nazionale in collegî sono determinati dalla legge ordinaria: esse, a differenza di quel che accade in altri stati di democrazia avanzata, non sono dunque disciplinate dalla fonte di regolazione costituzionale e quindi non sono caratterizzate dalla stabilità nel tempo. Proprio questa è la ragione per la quale la legge elettorale, sostanzialmente stabile nei suoi contenuti fino al termine degli anni ’80 è oggi oggetto di continui rimaneggiamenti, sui quali transeamus.

    Transeamus, mica poi tanto”, verrebbe da dire. Il perché è presto detto e si rifà direttamente ai contenuti della sentenza della Corte costituzionale 13/01/2014, n. 1, che ha colpito importanti segmenti della legge elettorale nota col nome, tutt’altro che lusinghiero – di “porcellum”. Essa ha gravemente delegittimato il parlamento che ne è scaturito, e ha dovuto affrontare il delicato problema della legittimità degli atti legislativi – ma non solo – pósti in essere da un parlamento eletto all’esito di una legge elettorale dichiarata incostituzionale. Vale la pena riportare per tabulas il rescritto della Corte costituzionale in parte qua: «È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere. Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984). Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti. Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali. Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finché non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.)».

  37. Sulla questione di cosa sia mai la democrazia, il rimando d’obbligo è a G. Sartori, Democratic Theory, Wayne University Press, Detroit, 1962; The Theory of Democracy Rivisited, Chatam House Publisher, New York, 1987, voll. I e II; Democrazia. Cos’è? Rizzoli, Milano, 2007, passim. Del medesimo autore, The Theory of Democracy Revisited, Chatham House, Chatham N.J., 1987, passim. Per un primo inquadramento della materia, P. Biscaretti di Ruffia, Democrazia, voce in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1964, vol. XII, pagg.110 e ss. Emblematica per concisione e chiarezza è l’approccio dell’autore: «volendo, frattanto – sul piano strettamente giuridico – tradurre in una concisa definizione tele genericissima nozione della democrazia, pare potersi affermare ch’essa “sussiste quando, in un ordinamento statale, si riscontrino degli organici sistemi d’istituti e di norme atti a garantire giuridicamente la rispondenza dell’azione governativa alla concreta volontà della collettività popolare”».

    Sulla democrazia non può essere tralasciato il riferimento al pensiero sviluppato nel tempo da Norberto Bobbio. Dell’autore si possono utilmente consultare Democrazia, in N. Bobbio, N. Matteucci, Dizionario di politica, U.T.E.T., Torino, 1976, pagg. 296 e ss; Il futuro della democrazia, in “Nuova civiltà delle macchine”, 1984, II, num. 3, pagg. 11 e ss.; La democrazia dei moderni paragonata a quella degli antichi (e a quella dei posteri), in “Teoria politica”, 1987, III, num. 3, pagg. 3 e ss.; Democrazia e dittatura, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1978, IV, pagg. 535 e ss.; L’età dei diritti, in P. Polito (ed.), Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, Sonda, Torino, 1989, pagg. 112 e ss.; Le ragioni della tolleranza, in AA.VV. (ed.), L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, Mulino, Bologna, 1986, pagg. 234 e ss.; Tutte le opere citate sono ora raccolte in N. Bobbio, Etica e politica, Mondadori, Milano, 2009 per i tipi Meridiani. Dalla voce Democrazia, op. cit. è utile citare l’incipit del lavoro: «nella teoria contemporanea della democrazia confluiscono tre grandi tradizioni di pensiero politico: a) la teoria classica, tramandata come teoria aristotelica, delle tre forme di governo, secondo cui la democrazia, come governo di popolo, di tutti i cittadini, ovvero di tutti coloro che godono dei diritti di cittadinanza, viene distinta dalla monarchia, come governo di uno solo, e dall’aristocrazia, come governo di pochi; b) la teoria medioevale, di derivazione romana, della sovranità popolare, in base alla quale si contrappone una concezione ascendente a una concezione discendente della sovranità secondo che il potere supremo derivi dal popolo e sia rappresentativo o derivi dal principe e venga trasmesso per delega dal superiore all’inferiore; c) a teoria moderna, nota come teoria machiavellica, nata col sorgere dello Stato moderno nella forma delle grandi monarchie, secondo cui le forme storiche di governo sono essenzialmente due, la monarchia e la repubblica, e l’antica democrazia non è che una forma di repubblica (l’altra è l’aristocrazia), onde trae origine lo scambio caratteristico del periodo pre-rivoluzionario tra ideali democratici e ideali repubblicani, e il governo genuinamente popolare viene chiamato, anziché democrazia, repubblica».

  38. Sul punto, in modo esemplare, G. Sartori, Democrazia. Cos’è?, op cit, pagg 11 e ss. A ben vedere, la cosa in questione rimanda a un approccio più generale, i cui termini sono la doppietta “senso” e “riferimento”. Senza scomodare la tradizione filosofica e le dispute che l’hanno caratterizzata, basta qui rammemorare la contrapposizione che ha caratterizzato la dottrina degli universali, che ha contrapposto l’approccio sostanzialista a quello nominalista. Ex nomine substantiam non sequitur, con la conseguenza che Entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem, secondo il chiaro insegnamento di Guglielmo di Ockham. Per venire ai giorni nostri, della questione si è occupato Gottlob Frege, che ha distinto fra Sinn e Bedeutung, ossia fra senso e riferimento. Dell’autore si veda Frege, in Über Sinn und Bedeutung, in Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, C, 1892, pag.25, trad. it. Senso e significato, in Mangione (ed.), Aritmetica e logica, Milano, 1970.

  39. Sul concetto di “fatto di produzione normativa” si rimanda a R. Orestano, I fatti di normazione dell’esperienza romana arcaica, Giappichelli, Torino, 1967, e alla sua lucidissima esposizione della questione. A questo proposito è emblematico il pensiero dell’autore: “[…] dottrine giuridiche più recenti – anziché di fonti di produzione (del diritto) – preferiscono parlare di fatti di produzione normativa, di fatti normativi, di procedimenti normativi, di modi di produzione normativa, di fatti di produzione giuridica, intendendo con queste – o con altre simili espressioni – i fatti e gli avvenimenti concreti e tipici idonei a produrre norme giuridiche positive”, op. cit. pag. 5.

  40. Per l’excursus sull’evoluzione del pensiero e dei modelli politici si veda M. Bassani, A. Mingardi, Dalla polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino, 2017; N. Bobbio, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino, 1976;

  41. Lo si veda in De regimina Principium, al paragrafo 2 che riguarda la varietà delle modalità di esercizio del potere: «Si igitur regimen iniustum per unum tantum fiat qui sua commoda ex regimine quaerat, non autem bonum multitudinis sibi subiectae, talis rector tyrannus vocatur, nomine a fortitudine derivato, quia scilicet per potentiam opprimit, non per iustitiam regit: unde et apud antiquos potentes quique tyranni vocabantur. Si vero iniustum regimen non per unum fiat, sed per plures, siquidem per paucos, oligarchia vocatur, id est principatus paucorum, quando scilicet pauci propter divitias opprimunt plebem, sola pluralitate a tyranno differentes. Si vero iniquum regimen exerceatur per multos, democratia nuncupatur, id est potentatus populi, quando scilicet populus plebeiorum per potentiam multitudinis opprimit divites».

  42. E. Kant, Per la pace perpetua, Sonzogno, Milano, 1883, pag. 33.

  43. Ult. op.cit, pag. 34.

  44. G. Sartori, Democrazia. Cos’è?, op. cit. pag. 208.

  45. D. Cofrancesco, La democrazia liberale (e altre), Rubettino, Soveria Mannelli, 2003; C. Calabrò, M. Lenci, La democrazia liberale e i suoi critici, Rubettino, Soveria Mannelli, 2017; N. Bobbio, Liberalismo e democrazia, Simonelli, Milano, 2006.

  46. Il termine “democrazia” compare in letteratura assai prima. Ne parla Platone nella Repubblica, che la riconduce a una delle forme mediante le quali attuare il governo della polis. È noto che per Platone tali forme si risolvono nel movimento ciclico che le avvince: monarchia, timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide. Ne parla Aristotele nella Politica e nella Costituzione degli Ateniesi. Ne parla anche Polibio di Megalopoli nelle Storie. Ne parlano anche i tragici, fra cui, per tutti, Euripide, nelle Supplici e nell’Oreste, soprattutto per rimarcare i tratti della deriva distruttiva che caratterizza la democrazia cosí come la intendevano i greci. Particolarmente eloquente è quanto fatto dire all’Araldo nell’Oreste: «ed alcuni, tra plausi alti, gridarono che ben parlato avesse, altri negarono. E a questo punto, un uomo si levò, di lingua senza fren, che l’impudenza ha ognor per arma, Argivo e non Argivo, fra i cittadini intruso, uso a fidare nella ciancia ignorante e nel subbuglio, persuasivo a spinger chi l’ascolta in qualche danno, o prima o poi. Ché, quando un uom soave di parole, e tristo di cuor, la folla persuade, è grave il mal della città: quanti con senno invece, ognor buoni consigli porgono, utili alla città, pur se non súbito, riescono. Convien volgere gli occhi su questi, quando scegliere si vuole chi regga la città: ché sono in simili condizïoni l’oratore e l’uomo di governo»

    Qui va sottolineato che la Grecia antica non conosceva forme di democrazia come quelle odierne, ma solo modelli oligarchici entro i quali operavano votazioni dei soli cittadini liberi, con esclusione di tutti i soggetti che tali non erano, primi fra tutte le donne. La situazione è irrisa da Aristofane ne Le donne al parlamento, che è una succulenta sottolineatura del fallimento del governo degli uomini.

  47. In termini succinti, ex pluribus, P. Biscaretti di Ruffia, op. cit., pag. 114.

  48. In questo senso, già in H. Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, J.C.B. Mohr, 1929, trad. it. Essenza e valore della democrazia, in Barberis (ed.), La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, pag. 58 qui riportato per tabulas «Democrazia significa identità di governanti e di governati, di soggetto e di oggetto di potere, governo di popolo sul popolo»; il passaggio preso a sé stante ricalca quanto pronunciato da Abramo Lincon nel discorso di Gettysburg ove si ricorda che la democrazia è «government of the people, by the people, for the people».

    Il problema realmente in questione è identificare e definire a questi fini il concetto di popolo. Vi provvede Kelsen in modo esemplare: «in verità, il popolo appare uno, in un senso più o meno preciso, dal punto di vista giuridico; la sua unità, che è unità normativa, risulta, in realtà, da un dato giuridico: la sottomissione di tutti i suoi membri al medesimo ordine giuridico statale in cui si costituisce […] l’unità dei molteplici atti umani, la quale rappresenta il popolo come elemento dello Stato, di uno specifico ordine sociale» ibidem.

  49. Sulla plurisemia di “popolo” infra.

  50. Il primo pensatore a introdurre il termine “stato” in un’accezione evocativa è Niccolo Macchiavelli nel suo Principe: «tutti li Stati, tutti li dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini sono o repubbliche, o principati», Einaudi, Torino, 2014, pag. 5.

  51. Emblematico è quanto compare nelle Eumenidi di Eschilo, ove Athena dice esplicitamente agli ateniesi che Atene sarà salva se e fino a quando avrà rispettato le norme della civile convivenza e le leggi della città.

  52. G. Sartori, Democrazia. Cos’è?, Rizzoli, Milano, 2001, pag. 142.

  53. Sulla sovranità la letteratura è vastissima. La nozione rimanda a quella di sede originaria nella quale risiede il potere e dunque a quella della sua scaturigine prima. Per una panoramica necessariamente contenuta sull’importante concetto e sulla sua evoluzione si possono vedere, fra i molti, F. Tuccari, G. Borgognone, La sovranità, Carocci, Roma, 2021; E. Cannizzaro, La sovranità oltre lo stato, Il Mulino, Bologna, 2020; J.F. Frosini, Dalla sovranità del parlamento alla sovranità del popolo, CEDAM, Padova, 2020; C. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna, 2019;A. Carrino, Il problema della sovranità nell’età della globalizzazione. Da Kelsen allo Stato-Mercato, Rubettino, Soveria Mannelli, 2014; L. Ventura, Sovranità. Da J. Bodin alla crisi dello Stato sociale. Autorità, libertà, eguaglianza, diritti fondamentali, dignità della persona, Giappichelli, Torino, 2014; Raymond Carré De Malberg, Della sovranità, Herrenhaus, Seregno, 2009; D. Quaglioni, La sovranità, Laterza, Bari, 2004; F. Rossolillo, Appunti sulla sovranità, in Il federalista, 2001, III, pag. 165; S. Rodotà, La sovranità nel tempo della tecnopolitica: democrazia elettronica e democrazia rappresentativa, in Pol. Dir., 1993, IV., pagg. 569 e ss.

  54. Ecco perché quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolare come il mezzo dell’indipendenza, ossia della libertà d’azione di una data collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, ci si situa nella seconda. Le nozioni di potere e di legittimità si trovano così associate di primo acchito a quella di sovranità.

  55. Un accenno alla questione si rinviene ex pluribus in M. S. Giannini, Sovranità (diritto vigente), voce in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1990, vol. XLIII, pagg. 225 e ss.

  56. Anche in questo caso deve essere prestata particolarissima attenzione alla polisemia di “stato” e ai suoi usi improprî. I cosiddetti stati nazionali erano monarchie patrimoniali, nelle quali il patrimonio del regno coincideva nella sostanza col patrimonio privato del sovrano. È solo in tempi successivi che il patrimonio personale del sovrano viene separato dal patrimonio della corona, peraltro riservando al sovrano il diritto di battere moneta.

  57. L’idea che l’imperator fosse legibus solutus viene da lontano. Se ne rinviene esplicita menzione in Ulpiano, Digesto, I, 3, 31: «princeps legibus solutus est: augusta autem licet legibus soluta non est, principes tamen eadem illi privilegia tribuunt, quae ipsi habent». La tesi portò Giustiniano a ritenere che Dio avesse assoggettato non già l’imperatore alle leggi, bensì le leggi all’imperatore. La fonte si rinviene nella Novella giustinianea 105, 2 che tratta dello status dei Consoli. C.f.r. E. Cortese, Sovranità (storia), in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano, 1990, vol. XLIII, pag. 208.

  58. Tutto ciò è molto ben tematizzato da F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità. Studi di diritto comune pubblico, Giuffrè, Milano, 1957, passim. A questo proposito, è irrinunciabile la consultazione di R.W Carlyle, A.J. Carlyle, A History of mediaeval political theory in the West, Blackwood, Edinburgh, 1950 trad. it. Il pensiero politico medievale, Laterza, Bari, 1957.

    Per una bibliografia ragionata dal punto di vista storico, Merriam (C.), History of the Theory of Sovereignty since Rousseau, Columbia University Press, New York 1990; Anderson (P.), Lineages of Absolute State, New Left Books, London 1974; Bartelson (J.), A Genealogy of Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge 1955; de Jouvenel (B.), De la souveraineté, Génior 1955]; Stankiewicz (W.J.) (ed.), In Defense of Sovereignty, Oxford University Press, London 1969; Camilleri (J.) Falk (J.), The End of Sovereignty?, Elgar, Aldershot, 1992; Chayes (A.H.), The New Sovereignty, Harvard University Press, Cambridge 1995; Biersteker (T.J.), C. Weber (C.) (ed.), State Sovereignty as Social Construct, Cambridge University Press, Cambridge 1996; Badie (B.), Un monde sans souveraineté. Les États entre ruse et responsabilité, Fayard, Paris, 1999.

  59. Guardando alla sovranità nelle relazioni fra realtà date nella storia di allora (regni, città, comuni, et coeteris paribus) nei reciproci rapporti, e quindi valorizzandone il profilo esterno, è di tutta evidenza che il disconoscimento del superior determinava che ogni singolo ordinamento particolare fosse originario ed esclusivo.

  60. Questo è punto di arrivo nel diritto intermedio. È utile rammemorare i passaggî salienti che hanno condotto al termine “sovranità”. In primis lo stupore dei primi re barbari al cospetto dell’universalità dell’ordinamento e della legislazione della Roma imperiale, sia pure in corso di disfacimento. Poi, la consapevolezza del potere del re, peraltro proteso verso l’idealità dell’universalità, e dunque l’omaggio del potere reale ed effettuale a un simbolo che è insieme una tensione verso l’idealità (ne sono segno il lustro dato al re dall’attribuzione del titolo di patritius piuttosto che l’utilizzazione dell’appellativo Flavius. Infine la consapevolezza che è re solo e soltanto colui al di sopra del cui potere non si colloca altri. In questo senso la formola attribuita a Bartolo da Sassoferrato civitas superiorem non reconoscens tantum iuris habet in territorio suo quantum imperator in suo imperio: ecco perché rex in regno suo princeps est. Per una miglior comprensione del fenomeno, F. Cortese, op. cit, , loc. cit., pag. 212: «[…] si diede ad approfondire la valenza storica della formula e, risultando com’essa fosse composta di due parti che avevano origini diverse, si soffermò soprattutto sulla prima: derivata da una decretale d’Innocenzo III, essa implicitamente chiedeva a re di non riconoscere sopra di sé alcun ‘superior’. La cosa da un canto metteva in risalto il dato politico dell’indipendenza, dall’altro rivelava il perdurar d’agganci col mondo medievale: qui infatti, dal Duecento, la parola ‘superior’ si era venuta affiancando al tradizionale ‘senior’, aveva quindi presto generato nel linguaggio volgare il termine ‘superanus’; questo, infine, sia era successivamente svolto sia nel francese ‘suzerain’, dal valore tutto feudale, sia nel ‘souverain’ di diritto pubblico, il nostro sovrano, dando l’avvio a un uso terminologico ch’è quello moderno».

  61. Tutto ciò è sostenuto apertis verbis da Carl Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 1972, pag. 61: «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione [si ricordi che per Carl Schmitt è sovrano quel potere che decide sullo stato di eccezione] ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli».

  62. Qui è d’aiuto l’iconografia: il monarca veniva spesso rappresentato col capo aureolato, con ciò trasponendo simbolicamente «l’antica ‘maiestas populi romani’, che aveva trasformato la ‘major dignitas’ originaria in un piedistallo posto fra cielo e terra, e che era cosa ben diversa dal complesso di poteri, li si voglia considerare assoluti o legalitari», in termini, E. Cortese, op. cit., loc. cit., pag. 209.

  63. P. Biscaretti di Ruffia, op. cit., loc. cit..

  64. J. Bodin, op. cit.. A questo proposito non deve essere dimenticata l’ascendenza storica e quindi la perimetrazione dell’ambiente entro il quale matura il pensiero di Jean Bodin, ossia quello delle guerre di religione, culminate con la strage degli Ugonotti nella notte di san Bartolomeo, per porre fine alle quali vien teorizzato che la forma di governo più appropriata è quella che più di tutte accentra il potere in capo al principe. Né, ovviamente, l’approccio giusnaturalista che ne anima gli intenti e il lavoro di sistemazione organica del proprio pensiero.

  65. È quanti meno curioso che nella teorizzazione di Jean Bodin non compaia mai il riferimento allo stato così come oggi lo intendiamo. La spiegazione di ciò è però assai semplice: qui il riferimento allo stato è del tutto atecnico, perché se di stato di deve proprio parlare, allora il riferimento è allo sto patrimoniale retto dal sovrano assoluto, munito di diritto di comandare e assistito da un apparato ridotto ai minimi termini e supportato dall’esercito che egli riusciva a pagare.

  66. Non è difficile vedere il fondamento religioso di questa dottrina: il modo in cui viene concepito il potere politico non è che una trasposizione profana del modo in cui Dio esercita il suo, e in cui il papa regna sulla cristianità, e questo quand’anche rifiutasse la concezione medievale che faceva del potere una semplice delegazione dell’autorità di Dio. Qui il monarca non si accontenta più di detenere un potere di diritto divino. Attribuendosi il potere di fare e disfare le leggi a proprio piacimento, il monarca agisce come Dio. Egli forma da solo un tutto separato, che domina il corpo sociale proprio come Dio domina il cosmo. Lo stesso dicasi del tema dell’assoluta rettitudine del sovrano, che non è che una trasposizione nell’ambito politico del Dio cartesiano che può tutto ciò che vuole, ma non può volere il male. Dalla sovranità, si passa allora surrettiziamente all’infallibilità.

  67. La sovranità è potere assoluto che fonda lo stato come entità politica a sua volta unico e assoluto. Lo stato è necessariamente uno e indivisibile, poiché dipende interamente dal monopolio legislativo detenuto dal sovrano. Le autonomie locali possono essere ammesse solo nella misura in cui non riducono l’autorità del principe. Lo stato diventa così una monade, mentre il principe si trova “separato dal popolo”, ossia posto in una situazione di isolamento.

  68. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, Dunker & Humbolt, Berlin, 1974, trad it. Il Nomos della Terra, Adelphi, Milano, 2006, 142, ove si soggiunge, riprendendo quanto già anticipato in teologia politica, op.cit., loc. cit. che «la particolarità storica, unica e del tutto incomparabile, di quel fenomeno che viene chiamato ‘Stato’ consiste nel fatto che esso è il veicolo della secolarizzazione».

  69. Il riferimento è a T. Hobbes e al suo Leviathan or the matter, forme and power of a Common-wealth ecclesiastical and civill, trad.it. Il Leviatano, U.T.E.T., Torino, 1955, e risulta da una riflessione sul carattere distruttore dello “stato di natura”. Hobbes, sostiene che gli individui entrano in società e si pongono sotto l’autorità di un principe per mettere fine alla “guerra di tutti contro tutti” che si presume caratterizzare lo stato di natura. Per Hobbes, «[…] il proposito degli uomini […] è la preoccupazione di garantire la propria conservazione e di assicurarsi migliori condizioni di vita, cioè il desiderio di trarsi fuori da quel miserabile stato di guerra che rappresenta la necessaria conseguenza delle passioni naturali degli uomini quando manca un potere visibile capace di tenerli soggetti e di far loro rispettare i patti con la minaccia di un castigo […]» (op.cit. pag.205). Ecco perché «se non esiste un potere costituito, od almeno abbastanza forte da garantire la nostra sicurezza, ognuno vorrà e potrà legalmente far affidamento sulla sua sola forza ed abilità per difendersi da tutti gli altri uomini» (ibidem, pag. 206). Lo stato di guerra che ne segue – il celeberrimo homo ominis lupus ratione naturae – può essere evitato solo attraverso ciò che «è più di un consenso o di un accordo”, il quale dà vita a “una concreta unità di tutti i componenti dello stato in una sola e medesima persona, resa possibile da un patto di ciascuno con l’altro […] Questa è la fondazione di quel grande Leviatano, o piuttosto, per parlare con più reverenza, di quel Dio mortale, a cui al di sotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace e difesa» (ibidem, 210). Hobbes fa dunque intervenire il consenso dei primi socî, ma le conclusioni che ne trae vanno oltre quelle di Jean Bodin. Mentre quest’ultimo conservava una certa dualità tra il sovrano e il popolo, Hobbes la fa completamente sparire. Entrando in società, gli individui accettano, infatti, di abbandonare ogni sovranità per trasferirla interamente al principe, divenendone sudditi. Pagando la propria sicurezza al prezzo dell’obbedienza, il popolo si dissolve così nel sovrano, la cui autorità si trova assimilata alla somma delle volontà individuali di cui è investito. In buona sostanza, la dialettica hobbeseiana intercetta l’endiadi “protezione della vita” e “cessione della sovranità”, nella cui relazione risaltano i poteri, le potestà e le prerogative proprie del sovrano, che Hobbes descrive con particolare puntiglio nel cap. XVIII del Leviatano.

  70. Di Jean Jaques Rousseau si veda, a questo proposito Du contract social, ou principes du droit politique, trad. it, Il contratto sociale, Rizzoli, Milano, 2005. Ai fini in questione vale la pena di riportare i tratti essenziali della sua impostazione, per la quale «ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte indivisibile del tutto» (op. cit. pag. 67) con la conseguenza che «al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà» (ibidem, pag. 68).

  71. In questo senso, Biscaretti di Ruffia, op. cit, pag. 115: «la dottrina della “sovranità nazionale – per cui solo la Nazione, nel suo indivisibile complesso, avrebbe goduto di siffatto potere sovrano, concedendone l’esercizio a quei suoi soli componenti che ne avrebbero potuto fare avveduto e buon uso – rappresentò, infatti, in quel primo periodo, un abile espediente per ostacolare l’estensione immediata ed indiscriminata dei diritti politici a tutti i cittadini».

  72. Può essere utile ricordare che la Svizzera ha esteso il voto alle donne solo nel 1975.

  73. M.S Giannini, op. cit., loc. cit., pag. 228.

  74. La polisemia di “popolo” entro la pluripartizione appena evidenziata si deve a G. Sartori, Democrazia. Cos’è? op. cit. pag. 21.

  75. G. Sartori, op. cit., pag. 22.

  76. G. Sartori, op. cit., pag. 23.

  77. “Contrarî” e “contraddittorî” sono aggettivazioni o nomi il cui significato è spesso confuso, generando equivoci di ogni specie. E infatti, sia gli uni, sia gli altri sono opposti, ma lo sono in modo differente. Contraddittorî sono due opposti che si escludono vicendevolmente, talché tertium non datur in base al principium firmissimum della βεβαιοτάτη ᾀρχή di cui discetta già Aristotele nella Metafisica. Contrarî sono due opposti per i quali non vige il principio della congiunta esaustività e della mutua esclusività. A esempio: “vero” e “falso” sono predicati contraddittorî, cosí come pure lo sono “giusto” e ingiusto”. “Chiaro” e “scuro” sono predicati contrarî, perché i termini dell’accoppiata ammettono gradazione, talché ha senso parlare di “piú chiaro” e “meno scuro” senza incappare in una contraddizione, con la conseguenza che tertium datur.

  78. A questo proposito, si vedano le belle pagine di Sartori, op. cit. pagg. 118 e ss..

  79. Per una differenziazione fra “popolo” e “popolazione”, è preliminare la verifica delle ricorrenze nel testo della costituzione. Ebbene, “popolo” ha quattro ricorrenze; “popolazione” cinque. Quanto al primo, se ne trova traccia nell’art. 1, comma 2 (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”), nell’art. 71, comma 2 (“Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”), nell’art. 101, comma 1 (“La giustizia è amministrata in nome del popolo”) e nell’art. 101, comma 3 (“La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia”). Quanto al secondo, i riferimenti sono all’art. 56, comma 3 con due ricorrenze, all’art. 57, ultimo comma, e alla IV disposizione transitoria. Qui la popolazione è strettamente legata ai dati del censimento come presupposto per l’attribuzione dei seggi all’esito delle elezioni. Un utile riferimento va fatto all’art 51, commi 1 e 2 Cost., in materia di accesso ai pubblici ufficî e alle cariche elettive: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica»

    Quel che emerge dall’accostamento dei due termini è chiaro: la nozione di popolo è strettamente connessa a quella di cittadinanza; quella di popolazione ha valenza sia giuridica, sia sociologica. Giuridica quando connessa al censimento della popolazione. Valenza sociologica, quando riferito all’insieme dei soggetti che vivono comunque sul territorio statale.

  80. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale I, Giuffrè, Milano, 1970, pag. 59.

  81. V. Crisafulli, op. cit., pag, 60.

  82. La fonte è Formez PA, in http://qualitapa.gov.it/customer-satisfaction/ascolto-e-partecipazione-dellutenza/e-democracy/

  83. Per rendersi conto del rischio in parola è sufficiente scorrere l’índice di una recentissima collettanea, G. Ziccardi, P. Perri, Tecnologia e diritto. Fondamenti d’informatica per il giurista, Giuffrè, Milano, 2018, che si riporta per tabulas: «La ricerca d’informazione giuridica nelle banche dati private; Il reperimento d’informazioni giuridiche nelle banche dati pubbliche e in Internet; Gli errori più comuni commessi durante l’attività di ricerca; L’uso degli strumenti di videoscrittura in un contesto giuridico: la redazione di un atti, di un articolo scientifico e di una tesi di laurea; Il lavoro cooperativo, le revisioni e il backup; Il formato PDF, l’XML, l’interoperabilità e la protezione da virus; la protezione del dato sul dispositivo personale e nell’attività professionale quotidiana; Le minacce più comuni; difendersi da malaware e da altri attacchi; Fondamenti di cloud computing; Il cloud computing tra sicurezza e responsabilità; Le problematiche giuridiche dell’Internet delle Cose; Le misure di sicurezza, l’analisi dei rischio e la privacy by design e by default nel GDPR; La presenza del professionista sui social network e le regole deontologiche; La netiquette e l’importanza dei comportamenti in rete; L’attività dell’avvocato tra software di intelligenza artificiale e robotica; Il processo civile telematico; Il processo penale telematico; Alcune riflessioni sulle notificazioni e i dispositivi a mezzo PEC dell’avvocato nel processo penale telematico; Il processo tributario telematico; Il Codice dell’Amministrazione Digitale e i sistemi di gestione delle identità; La posta elettronica certificata (PEC), i registri d’indirizzi e le forme elettroniche; Le investigazioni digitali; la Social Network Analysis; I principali reati informatici oggetto d’indagine; Alcuni crimini correlati alla rete: il Cyberstalking, revenge porn; grooming online e sextortion; Reati “tradizionali” commessi in rete: sostituzione di persona, diffamazione e molestie; Il bullismo online e l’educazione digitale degli adolescenti; I profili di responsabilità dei provider, il diritto all’identità personale e la tutela della web reputation; Alcune considerazioni circa l’uso responsabile delle piattaforme di social network».

  84. L’incontrollabilità della raccolta dei dati e la sua concentrazione in capo a pochi operatori, quasi sempre soggetti non istituzionali, determina la profilazione – per non dire la schedatura – della persona, e questo favorisce forme di manipolazione del pensiero fino a oggi inesplorate, anche se facilmente intuibili.

  85. Su tutto ciò, in tempi non sospetti, N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, pagg. 34 e ss., del quale è utile rammemorare il pensiero: «Se per democrazia diretta s’intende alla lettera la partecipazione di tutti i cittadini a tutte le decisioni che li riguardano, la proposta è insensata. Che tutti decidano su tutto in società sempre più complesse come sono le società industriali moderne è materialmente impossibile. Ed è anche umanamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo etico e intellettuale dell’umanità, non auspicabile. […] Ma l’individuo rousseiano chiamato a partecipare dalla mattina alla sera per esercitare i suoi doveri di cittadino sarebbe non l’uomo totale ma il cittadino totale. E il cittadino totale non è a ben guardare che l’altra faccia non meno minacciosa dello stato totale. […] Il cittadino totale e lo stato totale sono le due facce della stessa medaglia, perchè hanno in comune, se pur una volta considerato dal punto di vista del popolo, l’altra volta dal punto di vista del principe, lo stesso principio: che tutto è politica, ovvero la riduzione di tutti gli interessi umani agli interessi della polis, la politicizzazione integrale dell’uomo, la risoluzione dell’uomo nel cittadino, la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica, e via dicendo». Sull’evoluzione del pensiero di Norberto Bobbio in materia, E. Grosso, Democrazia rappresentativa e democrazia diretta nel pensiero di Norberto Bobbio, in Rivista AIC, 2015.

  86. La nozione e il concetto di teatrocrazia risale a Platone e si ritrova ben esplicitato nel § 701 di Nomoi, trad it. Leggi, Laterza, Bari, 1993, pag. 116. La teatralizzazione della democrazia è il rischio oggi più marcato; essa, a ben vedere, si fonda sul principio aberrante della valorizzazione dell’incompetenza. Un’utile rappresentazione di ciò che la teatrocrazia è si rinviene in de J. Romilly, M. Trédé, Petites leçons sur le grec ancien, Stock, Parigi, 2008, trad it. Elogio del greco antico, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2017, 62: «d’altronde, un’altra creazione platonica ingiustamente dimenticata, la “teatrocrazia”, potrebbe forse ritrovare vita e senso nel nostro mondo contemporaneo, definito a volta una “società dello spettacolo”. La teatrocrazia corrisponde, nell’evoluzione democratica, a quello stadio in cui tutti si credono competenti su tutto, senza aver nulla appreso, inizialmente a teatro, e poi negli altri campi del sapere. Ciascuno acquista allora una sicurezza che si trasforma ben presto in impudenza, rifiuta qualsiasi autorità e finisce col disobbedire alle leggi, non rispettando più né giuramenti, né impegni». Il quadro è davvero edificante, non v’é che dire.

  87. La situazione non è nuova. Essa è molto ben descritta da Polibio di Megalopoli nelle Storie. Anch’egli – come Platone nella Repubblica – sviluppa una sorta di ciclicità del divenire delle forme di governo, la più perniciosa delle quali è l’oclocrazia. Durante l’oclocrazia il popolo, danneggiato dal disordine politico e dalla corruzione, svilupperà il sentimento della giustizia e sarà spinto a credere nel populismo e nei demagoghi, che porteranno lo Stato al caos da cui si uscirà quando emergerà un unico, e a volte virtuoso, demagogo che instaurerà il potere assoluto.

  88. A questo proposito, lo ribadiamo, si veda il lucidissimo pensiero di Bobbio (N.), Il futuro della democrazia, loc. cit.: «Se per democrazia diretta s’intende alla lettera la partecipazione di tutti i cittadini a tutte le decisioni che li riguardano, la proposta è insensata».

  89. Quanto evidenziato ricalca l’insanabile incompatibilità che sussiste, a esempio, fra tecnica e capitalismo, su cui N. Cusano , op. cit. loc. cit: «Il capitalismo ha come obiettivo l’incremento illimitato del profitto; ma poiché tale incremento è direttamente proporzionale all’efficacia dello strumento, volere l’incremento del profitto significa anche volere il potenziamento dell’efficacia dello strumento” […] “e tale strumento oggi è appunto, per tutte le forze in campo, la tecnica guidata dal sapere scientifico». E ancóra, «e qui viene a galla l’incompatibilità essenziale di tecnica e capitalismo, contrariamente a quello che si è soliti ritenere. La prima, infatti, è volontà di potenziamento incondizionato e illimitato della capacità di realizzare fini, mentre il secondo, volendo “più profitto”, deve anche volere la “scarsità media” delle merci, indispensabile alla circolazione delle merci e di conseguenza all’incremento del profitto. La volontà della tecnica di accrescere indefinitamente la potenza, cioè l’eliminazione di ogni impotenza, è incompatibile con la volontà del capitalismo di non eliminare ogni impotenza, cioè di lasciare che sussista quel bisogno che consiste nella scarsità media delle merci. Tecnica e capitalismo vengono erroneamente accomunati, come fossero un tutt’uno, mentre sono essenzialmente incompatibili».

  90. Se accedere alla rete è la precondizione per l’esercizio di diritti, allora accedere alla rete non può che essere un vero e proprio diritto soggettivo. Sarà la progressiva maturazione dell’ordinamento nell’andamento della giurisprudenza della Corte costituzionale a ricondurlo e a conformarlo quale diritto ex art. 2, 3 e 97 Cost. Sulla questione vale la pena evidenziare che il Consiglio di stato ha avuto modo di interessarsi della vicenda. Vi ha provveduto con il parere espresso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi 07/02/2005, n. 11995/2005, i cui contorni in materia sono però insoddisfacenti. Differente per contenuti e chiarezza enunciativa è l’art. 1, comma 1 della legge della Regione Umbria 13/12/2013, n. 31, di cui è bene riportare il testo: «la Regione riconosce il diritto di tutti i cittadini di accedere a internet quale fondamentale strumento di sviluppo umano e di crescita economica e sociale e promuove lo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazione al fine di assicurare la partecipazione attiva alla vita della comunità digitale».

  91. E infatti, l’effettività dell’accesso alla rete è oggi il presupposto di numerosi altri diritti, sino a diventare precondizione per l’esercizio di una piena cittadinanza attiva, consapevole e tecnologicamente digitale, come dovrebbe condurre e ritenete la lettura del d.lgs. 07/03/2005, n. 82.

  92. In questo senso, si era espresso in tempi non sospetti S. Rodotà, Rodotà e la democrazia elettronica, per il quale è evidente che il diritto all’accesso e alla connessione alla rete informatica è il prerequisito per l’effettività di altri diritti: il diritto alla salute (art. 32 Cost.), diritto all’istruzione (art. 34 Cost.), diritto al lavoro (art. 1 Cost.), diritto alla cittadinanza attiva (art. 2 Cost.)

  93. La modifica costituzionale proposta dal prof. Stefano Rodotà consisteva nell’inserimento nella Carta Fondamentale dell’art. 21-bis: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire le violazioni dei diritti di cui al Titolo I della parte I». Si veda in proposito il Disegno di legge costituzionale n. 2485 -Senato della Repubblica- XVI Legislatura, in www.senato.it

  94. Sulla distinzione fra norme programmatiche e norme precettive, si veda ex pluribus la sentenza della Corte costituzionale 24/01/1969, n. 1: «secondo il reiterato insegnamento della Corte costituzionale, […] la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche “non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche” posto che, a parte quelle norme costituzionali che “si limitano a tracciare programmi generici di incerta e futura attuazione”, non può contestarsi l’esistenza di norme programmatiche “le quali fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sulla intera legislazione» (Corte cost., 14 giugno 1956, n. 1)”.

  95. L’evidenza della disalfabetizzazione informatica è emersa con tutta evidenza in tempi di pandemia da COVID-19.

  96. C. Mele, Il diritto di accesso ad Internet a seguito della pandemia, in https://www.diritto.it/emergenza-sanitaria-ed-emergenza-costituzionale-covid-19-e-diritto-di-accesso-ad-internet/

    Piú in generale, sul tema evocato e sul linguaggio utilizzato nella redazione dei testi legislativi si rimanda a R. Nobile, COVID-19. Dpcm del governo e problemi di sorveglianza linguistica: la tecnica e l’igiene del linguaggio non sono un optional. Spunti per un’analisi linguistica delle misure di contrasto al virus, in CERIDAP, III, 2021, pagg. 102 e ss. Nella medesima direzione, R. Nobile, Il sabba del “dpcm fotocopia” al cospetto dell’emergenza igienico-sanitaria da COVID-19 e le asimmetrie in tema di responsabilità, in http://www.lexitalia.it/a/2020/124745

  97. Sul tema, si rimanda a R. Nobile, Lavoro agile nella pubblica amministrazione, prossimità e temporalità, in “Risorse Umane”, 2020, III, pagg. 16 e ss.

  98. È di tutta evidenza che la questione sollevata tocca da vicino il modo delle relazioni interpersonali, il loro mutamento e la loro evoluzione (o involuzione, secondo le sensibilità).

  99. Sul punto, si veda F. Lerrazzoli, G. Maga, Pandemia e infodemia, Zanichelli, Bologna, 2021.

  100. L’Istat ha registrato, nel periodo 2018-2019, che il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet in casa; inoltre, dai dati pubblicati, viene evidenziata la discrasia tra le varie Regioni d’Italia in quanto nel Mezzogiorno il 41,6% delle famiglie è senza computer in casa rispetto ad una media del 30% nelle altre aree del Paese, c.f.r. dati ISTAT del 06/04/2020 in www.istat.it. E ancóra, «in Italia solo il 21 % degli individui in età compresa tra i 16 e i 65 anni possiede un buon livello di alfabetizzazione e capacità di calcolo. L’Italia è ultima in Europa e si posiziona dopo Paesi quali Turchia e Cile. Sono gli “analfabeti digitali”, i quali non hanno le competenze minime necessarie per accedere ad Internet. Questo ritardo digitale rispetto ad altri Paesi può essere ricondotto principalmente a tre fattori: l’età media della popolazione italiana, il livello culturale, nonché il ritardo infrastrutturale», F. Cerquozzi, Introduzione al “Diritto di accesso ad Internet”, in Costituzione (2020), in https://www.iusinitinere.it/diritto-di-accesso-ad-internet-e-costituzione-31496

  101. Non richiede dimostrazione particolare la prova che la rete internet è disomogeneamente diffusa sul territorio e per giunta efficiente a macchia di leopardo.

  102. Cosa sia la politica è molto ben evidenziato da Aristotele nel Peri Politike. Politica è unione dei plures, ossia dei gruppi che si aggregano per condurre una vita comune secondo regole: le regole di Dike, ossia della giustizia. Politica è anche separazione: separazione della comunità da altre comunità, pure politicamente organizzate piuttosto che dagli oi barbaroi. Politica è anche rispetto del nomos, che assicura stabilità e protezione. Ne parla Eschilo nelle Eumenidi, dove il rispetto della giustizia è posto come precondizione della protezione assicurata dagli dei, nello specifico da Athena, che interviene nel processo dinanzi all’Aerophago a Oreste col proprio voto e lo salva. La conseguenza è ovvia: Atene godrà del favore degli dei fino a quando avrà rispettato Dike.

  103. A questo proposito è particolarmente emblematica l’osservazione per la quale «una candidatura è sempre l’opera di un gruppo di persone riunite per un intento comune, di una minoranza organizzata che, come sempre, fatalmente e necessariamente s’impone alle maggioranze disorganizzate», in G. Mosca, Sulla teorica dei governi e del governo parlamentare, Tipografia dello Statuto, Palermo, 1884, pag. 295.

  104. Il passaggio dalla politica alle politiche è davvero cruciale. La politica rischia di essere vista – ma è fatale che sia così – alla stregua di una categoria generale del pensiero. Che ciò sia errato è sicuramente falso. Vero è però che agirla in questo senso oscura il dato fattuale che qui pare davvero dirimente. Parlare di politiche non disancora il discorso dalla realtà e dal suo rapporto con la parabola esistenziale degli umani. Fermi il significato, la nozione e il concetto di politica, le politiche appaiono súbito per quel che sono: evenienze non necessarie, ma contingenti, ossia insiemi di scopi da perseguire e da conseguire. Ecco, le politiche sono evenienze storiche, e, come tali, mutevoli. Ciò che le caratterizza è la tensione verso finalità, per conseguire le quali occorrono strumenti. Ma quando le politiche agiscono nell’era della tecnica, quest’ultima le trascende, perché tutte esse per autopotenziarsi devono appropriarsi della tecnica, che diventa in tal modo il loro scopo ultimo. Ciò vale in particolare per le ideologie, per le religioni, per i sistemi conoscitivi e scientifici e così via.

  105. La tecnica non è né vera, né falsa; né giusta, né ingiusta. La tecnica o funziona o non funziona: tertium non datur.

  106. Il richiamo alle dottrine delle élite sviluppata da Gaetano Mosca si spreca, e vale in sé e per sé, ad archiviare la grossolanità del pensiero di chi fa qui questione di mero complottismo. Partendo dalla premessa che «in ogni governo regolarmente costituito la distribuzione di fatto dei poteri politici non è sempre d’accordo con quella di diritto», (Mosca 1882, I, pagg. 365-366) egli osserva che accanto ai detentori dei ruoli istituzionali espressamente previsti dal diritto pubblico, che quindi esercitano un potere formale sancito da norme costituzionali e legislative, vi sono i detentori di un potere sociale non meno importante di quello giuridico e di cui sono portatori tutti coloro che godono di rilevanti posizioni sul piano economico delle professioni, della finanza, dell’industria et coeteris paribus. Insomma, tutti coloro che, pur non ricoprendo cariche previste dall’ordinamento, esercitano una rilevante capacità di influenza sul corso della vita pubblica e quindi sulle condizioni concrete dell’esistenza dei singoli individui appartenenti ad una determinata società.

  107. Detto incidentalmente, questa è la genesi del tramonto del capitalismo descritta da Emanuele Severino ne Il declino del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1993. Da un lato, il capitalista ha quale proprio scopo la massimizzazione del profitto il che impone la massima circolazione delle merci per la produzione di un quantitativo di danaro maggiore di quello investito; dall’altro, il capitalista deve attuare la rarefazione delle merci per mantenere alto il loro prezzo. È evidente che il potenziamento della produzione confligge con la rarefazione delle merci, il che segna l’inizio della fine del modello.

  108. Cosa sia una parola-valore è noto, ma è ben rammemorarlo: essa è un nome o una locuzione la cui funzione non è descrivere la realtà e quindi produrre contenuti di conoscenza, ma solo orientare il destinatario verso direzioni precostituite e sovente inanalizzate per non dire abborracciate. Le parole-valore appartengono al dominio del linguaggio persuasivo, per la cui caratterizzazione si può vedere ex plurimus C.L. Stevenson, Persuasive definition, in Mind, 1938, pagg. 331 e ss.: «a “persuasive” definition is one witch gives a new conceptual meaning to a familiar word without substantially changing its emotive meaning, and witch is used with a conscious or unconscious purpose of changing, by this means, the direction of people’s interest».

    Il linguaggio attraverso cui si esprime la politica – rectius, si esprimono le politiche – è prevalentemente linguaggio persuasivo, e della peggior specie. Per convincersene, è sufficiente analizzare i contenuti dei programmi elettorali, sui quali transeamus. Qualora ve ne fosse bisogno, questo è uno dei copioni preferiti dai demagoghi travestiti da politici. Che più che tali sono politicanti da strapazzo. Il guaio è che attecchiscono e incantano le folle. Proprio come gli oclocrati di cui parla Polibio di Megalopoli nelle sue Storie. La cosa in questione è ampiamente drammatizzata da George Orwell in Politics and the English Language e in The Principles of Newspeak, trad it. La neolingua della politica, Garzanti, Milano, 2021.

  109. La differenza fra nozioni e informazioni è dirimente. Le nozioni sono vere o false, ossia o spiegano la realtà o non lo fanno. Le informazioni sono espressione di opinioni e di valutazioni, e come tali non spiegano alcunché. Esse hanno piuttosto forza persuasiva più o meno forte, e questo dipende dalla forza argomentativa di chi le diffonde e da come viene percepito chi le propala. Quando si parla di informazione, meglio sarebbe esprimersi in termini di in-formazioni. Ciò renderebbe al meglio il prodotto atteso dall’informatore: formare-in, ossia dare forma per uno scopo.

  110. Sul punto, R. Nobile, Management pubblico e semantica: prassi, significati ed etimi, in Ris. Umane, 2019, III, pagg. 28 e ss.

  111. Si pensi, a esempio, alla proliferazione dei referendum su questioni nelle quali la tecnica è sovrana. Per esprimersi compiutamente su quesiti che riguardano il ricorso agli OGM occorre essere almeno ingegneri molecolari o genetisti; per potersi esprimere compiutamente sull’utilizzazione dell’energia nucleare, ingegneri atomici o fisici delle particelle, et coeteris paribus. Quanto alla logica interna del referendum, va osservato che il suo esito è sempre a somma-0; e infatti, chi vince prende tutto, ossia si appropria del suo esito, mentre chi perde tutto, ossia non si appropria di alcunché. Ma dopo tutto, come bene osserva U. Galimberti, I miti del nostro tempo, op. cit., pag. 218, «La tecnica potrebbe determinare la fine della democrazia (il condizionale è motivato dal fatto che siamo tutti affezionati alle democrazie, ma in realtà si potrebbe dire che essa è già venuta meno) […] In tutti questi casi [quelli menzionati nella nota] si possono giudicare con competenza i termini dei problemi, solo se si è rispettivamente un biologo, un fisico nucleare o un genetista. Le persone prive di queste specifiche qualità prenderanno posizione su basi “irrazionali”, quali sono l’appartenenza ideologica, a un partito, la fascinazione di chi è maggiormente persuasivo in televisione, la simpatia per un politico. Platone avrebbe definito questo sistema, che oggi potremmo chiamare telecrazia, in termini di retorica o sofistica”. E chi sono i retori e i sofisti per Platone? “Coloro che ottengono il consenso non con argomenti razionali, non insegnando come vanno le cose, non distribuendo competenza, non argomentando le loro tesi, ma sulla base della mozione degli affetti, della sofisticazione dei paralogismi, dell’appello all’autorità, della persuasione emotiva. Secondo Platone, costoro devono essere espulsi dalla città perché non può nascere un sistema democratico finché ci sono tali mistificatori del linguaggio e del consenso». A chi obietta che Platone era tutto fuorché un democratico è facile rispondere in almeno due modi: cercare di screditare un’opinione mettendo in questione la qualità di chi la enuncia è meschino e del tutto inutile. Chi imbroglia le carte è un imbroglione e merita proprio il trattamento che Platone riserva ai falsarî della comunicazione.

  112. Per l’analisi delle modalità di formazione del consenso, e dunque organizzare opinioni tramite la propaganda applicata alla politica, si possono utilmente consultare gli ormai classici della materia W. Lippman, Public Opinion, Macmillan, New York, 1922, trad it. L’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 2018; E.L. Barnays, Crystallizing Public Opinion, Liveright Publishing Corporation, New York, 1923; E.L. Barnays, Propaganda, Liveright Publishing Corporation, New York, 1928, trad. it. Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Lupetti, Milano, 2008; J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft, Suhrkamp Verlag, Berlin, 1962, trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1971; Price (V.), Public Opinion (Communication Concepts), Sage Publications, Inc, Thousand Oaks, 1992, trad. it. L’opinione pubblica, Il Mulino, Bologna, 2004; G. Gilder, Life after Television, Norton, New York, 1992, trad. it. La vita dopo la televisione, Castelvecchi, Roma, 1997. Ciò che davvero deve far riflettere è che i precipitati delle riflessioni degli autori citati sono confluite nelle modalità di attuazione della propaganda politica di Joseph Goebbels. Sulla questione, G. Magi, Goebbels. 11 tattiche di manipolazione occulta, PianoB, Prato, 2021.

    Un riferimento a parte va fatto al geniale G. Le Bon, Psychologie des Foules, Alcan, Paris, 1895, trad. it. La psicologia delle folle, TEA, Milano, 2004, ampiamente conosciuto da Lippman e Barnays, ma stranamente dimenticato in Italia.

  113. G. Sartori, Democrazia. Cos’è?, op cit, pagg. 72 e ss..

  114. “Pubblico” ha qui un duplice significato: “pubblico” in quanto contrapposto a “privato”, e qui i due termini dell’accoppiata contrappongono la sfera entro il quale ciascuna delle due aggettivazioni qualifica il proprio oggetto; “pubblico” in quanto riferito alla cosa pubblica, e allora l’aggettivazione è l’argomento interessato dall’opinione. Sulla plurivocità di “pubblico” riferito all’opinare per tutti si veda J. Habermas, op. cit., pag. 4, ma anche pagg.225 e ss.

  115. In questo senso, G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Bari, 1997, pag. 44, il quale evidenzia con lucidità che con l’avvento della televisione le modalità di etero-formazione delle opinioni sono state notevolmente amplificate, in ragione della primazia dell’immagine sulla parola: «finché prevale la comunicazione linguistica, i processi di formazione dell’opinione non avvengono direttamente dall’alto al basso; avvengono “a cascata”, o meglio come in una successione di cascate interrotte da vasche nelle quali le opinioni si rimescolano. Inoltre alla cascata si affiancano e contrappongono ribollimenti dal basso, e anche resistenze e vischiosità di varia natura. Ma la forza travolgente dell’immagine rompe il sistema di riequilibramenti e di retroazioni multiple che ha progressivamente istituito, nel corso di circa due secoli, gli stati di opinione diffusi che vengono identificati, dal settecento in poi, dalla dizione “pubblica opinione”. La televisione è dirompente perché scavalca i cosiddetti leader intermedi di opinione, e perché spazza via la molteplicità di “autorità cognitive”, che variamente stabiliscono, per ciascuno di noi, a chi credere, chi sia fededegno e chi no. Con la televisione l’autorità è nella visione stessa, è l’autorità dell’immagine».

  116. G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Bari, 1997, pag. 45.

  117. G. Sartori, ult.op.cit, 46: «alla democrazia rappresentativa basta, per funzionare, che esista una opinione pubblica che sia davvero del pubblico. Ma è sempre meno così, dato che la videocrazia sta fabbricando una opinione massicciamente etero-diretta che in apparenza rinforza, ma in sostanza svuota, la democrazia come governo di opinione. Perché la televisione si esibisce come portavoce di una pubblica opinione che è in realtà l’eco di ritorno della propria voce».

  118. Quando sono particolarmente consolidate le opinioni trapassano in credenze. Le due evenienze non devono essere confuse. Le credenze sono il fondamento del carattere delle popolazioni e sono definite dalla loro stabilità e quindi dalla rarefatta propensione al mutamento. Sovente le credenze sono ciò intorno a cui sono organizzati i gruppi, le popolazioni e le società, definendone l’identità.

  119. Talvolta capita di imbattersi nella tesi per la quale la televisione è strumento di democrazia, perché dà ai suoi utenti quel che essi vogliono, a prescindere dai contenuti del prodotto somministrato. A questo proposito, è utilissimo fare riferimento alla critica spietata contenuta nel pamplet di K.R. Popper, Una patente per fare tv, in G. Bosetti (ed.), Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia, 2002, pag. 72.

  120. Economia e finanza agiscono nell’ambiente della tecnica, con la conseguenza che le relative scelte sono scelte tecniche, nelle quali l’unico paradigma ammesso è la massimizzazione del conseguimento dello scopo con il minor dispendio di mezzi possibile.

  121. Il modello delle cinque vasche è stato elaborato da K. Deutsch, The Analysis of International Relations, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1968, pagg. 101 e ss., trad. it. Le relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 1970.

  122. Il modello non interseca né è intersecato dalla maggior diffusione della cultura nel popolo: la cultura non crea competenze settoriali, ma dà solo l’illusione di configurarle. La verità è che le opinioni continuano a essere formate su base retorica e in generale irrazionale e raramente su nozioni e conoscenze precise e argomentabili. Su tutti ciò, B. Berelson(ed.), Voting: A Study of Opinion Formation in a Presidential Compaign, Chicago university press, Chigcago, 1954, pag. 311.

  123. In questo senso, espressamente Sartori, Democrazia. Cos’è?, op cit. pag. 86.

  124. Queste considerazioni si rinvengono nella pregevolissima opera di A. Barbano, Troppi diritti, Mondadori, Milano, 2018, pagg. 30 e ss.

  125. Barbano (A.), op. cit, passim.

  126. Qui risuonano le parole di G. Orwell, op. cit. pag. 41 proprio a proposito di cosa la democrazia sia e cosa “democrazia” significhi: «nel caso di democrazia, non solo non esiste una definizione condivisa, ma il tentativo di trovarne una viene avversato da tutti i fronti. È quasi universalmente universalmente riconosciuto che intendiamo elogiare una nazione definendola democratica; di conseguenza, i difensori di qualunque regime sostengono che il loro è una democrazia, e temono di essere costretti a rinunciare a quella parola se venisse inchiodata a un qualche significato. Parole simili sono spesso usate in modo consapevolmente disonesto: la persona che le usa ha la propria definizione privata, ma permette a che ascolta di pensare che intenda qualcosa di molto diverso».

  127. Si vedano le considerazioni sviluppate nel penultimo paragrafo del lavoro e la bibliografia richiamata.

  128. Il fenomeno è sotto gli occhî di tutti, ma non preoccupa abbastanza e rafforza il convincimento che il tema della formazione dell’opinione pubblica sia il problema baricentrico di ogni democrazia, al punto da essere l’indicatore più significativo del relativo tasso di democraticità. Il quale non è certo garantito quando gli opinion leader appartengono a schieramenti differenti: le sciocchezze fuoriescono tutte dal medesimo calderone, e non fa differenza chi le propala.

  129. Di distopia si rinviene un utile assaggio nel noto romanzo di A. Huxley, Brave new World, Chatto e Windus, Londra, 1932, trad. it. Il mondo nuovo, Mondadori, Milano, 2007, rispetto al quale 1984 di Orwell (G.) appare, sia pure con tutta la sua drammatica attualità, un mero canovaccio anticipatorio di ben altro. Tutti i concetti in questione sono stati anticipati da Corrado Alvaro, L’uomo è forte, Bompiani, Milano, 1938.

  130. I greci parlavano di tempo in almeno quattro modi: “kronos”, “kairos”, “aiòn” e “scopos”. Il cristianesimo ha aggiunto la nozione di eschaton e dunque di tempo escatologico. Il primo è il tempo misurato per succedersi di intervalli regolari e uniformi, ossia ciò che Aristotele come “una proprietà del movimento secondo il prima e il poi”; il secondo è il tempo nel quale assumere la scelta migliore di cui discetta Platone ne Le leggi; il terzo allude alla vita come durata, nelle intermittenze e anacronie dell’esistenza personale; il quarto è il tempo dell’immediato, che poi è il tempo della tecnica. Il tempo escatologico è quello dell’ultimo giorno, ignoto ai greci per i quali la storia aveva andamento circolare e non rettilineo e progressivo, concezione introdotta dal cristianesimo, per il quale il tempo è il luogo della redenzione propedeutica alla salvezza nell’accezione introdotta da Agostino di Ippona. È quanto meno curioso notare che il tempo scopico e il tempo escatologico si escludono a vicenda e che la progressiva affermazione della primazia del primo sul secondo preordina quest’ultimo al tramonto, trascinando con sé tutti i sistemi nei quali esso troneggia, primi fra tutti i sistemi religiosi.

  131. È invero quanto meno curioso che la filosofia che innerva la cultura dell’occidente abbia pósto al proprio centro il concetto di verità epistemica, sovrastante e quindi non soggetta a flessione e che nella civiltà odierna essa sia tramontata e oltrepassata a vantaggio di concetti più deboli, che fanno dell’interpretazione un comodo surrogato della realtà entro una prospettiva nichilista che è diventata il baricentro attorno al quale sono organizzate le società della contemporaneità.

  132. La parabola entro cui è iscritto il tramonto dell’occidente ha in O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, Verlag C. H. Beck, Monaco, 1923, trad it. Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano, 2008. La parabola è completata dall’interessante saggio di U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente, Feltrinelli, Milano, 2005, passim. Per un riferimento alla letteratura, per tutti, R. Musil, Der Mann ohne Eingenschaften, trad it. L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1972. Sul c.d. “sottosuolo” attorno al quale ruota la società della contemporaneità, si veda l’interessantissima investigazione di E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano, 1990, il quale colloca nel sottosuolo del pensiero dell’occidente autori quali Leopardi, Musil, von Hofmannsthal e Dostoevskij.

Riccardo Nobile

General Secretary of the Municipality of Pavia. Publicist journalist