Corte costituzionale, 4 giugno 2024, n. 98

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La Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli art. 1, comma 2, lettera f) e 7, comma 2, lettera d), del d.lgs. n. 39/2013, nella parte in cui non consentono di conferire l’incarico di amministratore di ente di diritto privato – che si trovi sottoposto a controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a quindicimila abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione – in favore di coloro che, nell’anno precedente, abbiano ricoperto la carica di presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato controllati da amministrazioni locali.


The Court has ruled that the provisions of articles 1, paragraph 2, letter f) and 7, paragraph 2, letter d), of Legislative decree n. 39/2013 are unconstitutional, in so far as they do not allow the appointment of director of a private-law entity - which is subject to public control by a province, a municipality with a population of more than 15000 inhabitants or a form of association between municipalities with the same population - in favour of those who, in the previous year, have held the office of Chairman or Chief Executive Officer of private-law entities controlled by local government.

La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni normative [artt. 1, comma 2, lettera f), e 7, comma 2, lettera d) del d.lgs. n. 39/2013] che prevedevano il divieto di conferire incarichi di amministratore di enti privati sottoposti a controllo pubblico, da parte degli enti locali (province o comuni), a coloro i quali, nell’anno precedente, avessero svolto analoghi incarichi presso altre società.

Il giudice rimettente, ovvero il T.A.R. Lazio, era stato chiamato a decidere sulla legittimità della impugnata deliberazione dell’ANAC del 3 marzo 2021, n. 207 con la quale l’Autorità aveva dichiarato l’inconferibilità ad un manager dell’incarico di amministratore delegato presso una società controllata da un comune per aver ricoperto, nell’anno precedente, il medesimo incarico presso altra società partecipata.

Così succintamente ricostruiti i fatti, giova notare che la ratio della disciplina di cui al d.lgs. n. 39/2013 è quella di scongiurare il rischio di condizionamenti impropri dell’attività pubblicistica in grado di favorire interessi di natura privatistica o di alterare i principi di imparzialità. Tale disegno è da attuarsi mediante gli strumenti previsti nella legge delega (n. 190/2012). Più in particolare, nell’ipotesi di cui all’art. 7, comma 2, l’obiettivo è quello di evitare che un soggetto strumentalizzi un proprio potere/una propria funzione per ottenere un’altra carica, nell’ottica della prevenzione di potenziali scambi di favori illeciti. A tal fine, quindi, il legislatore delegato ha precisato quali sono gli incarichi di origine e di destinazione suscettibili di minare l’efficienza e l’imparzialità della PA. Tra questi rientra la fattispecie di cui all’art. 7, comma 2, lettera d), sottoposta allo scrutinio della Corte mediante quattro ordinanze di identico tenore, con riferimento agli artt. 3, 4, 5, 51, 76, 97, 114 e 118 della Costituzione.

Con riferimento a questa, elemento dirimente è consistito nel fatto che le situazioni di provenienza impeditive del conferimento di nuovi incarichi si caratterizzassero per la connotazione non politica. Veniva infatti in rilievo lo svolgimento – nel corso del tempo – da parte del manager, di funzioni gestionali. Pertanto, la disposizione in esame si distingueva nettamente dall’ipotesi di cui all’art. 7, comma 2, primo periodo, del citato decreto secondo cui non possono essere conferiti incarichi in società private a controllo pubblico a coloro che nei due anni precedenti abbiano rivestito le cariche politiche descritte dalla disposizione.

Si consideri – al riguardo – che, ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 165/2001, gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, così definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare, oltre a verificare la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione a quanto impartito. Diversamente, i manager pubblici sono preposti alla gestione e all’attuazione degli indirizzi ricevuti, a presidio – secondo costante giurisprudenza della Corte – dell’imparzialità dell’azione amministrativa (ex plurimis, Corte cost., n. 70/2022, e n. 304/2010). In particolare, la loro funzione si sostanzia nell’adozione degli atti e dei provvedimenti, nonché nella gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.

Al contrario, il legislatore delegato avrebbe impropriamente utilizzato – secondo il Giudice delle Leggi – la locuzione «componenti di organi di indirizzo politico» riferendola anche a quei soggetti che hanno preso parte ad organi privi di rilevanza politica all’interno di enti di diritto privato in controllo pubblico. In tal modo avrebbe così operato una commistione tra incarichi politici e di mera gestione, venendo meno ad una separazione funzionale presente anche nello stesso T.U.E.L. (art. 107).

Ciò posto, la Corte ha altresì rilevato che il legislatore delegato, nell’adottare la disciplina oggetto di scrutinio di costituzionalità, è incorso in un eccesso di delega. Invero, gli artt. 49 e 50 della l. n. 190/2012 si sono limitati ad indicare, quali incarichi di provenienza ostativi per il conferimento di altri incarichi in società private a controllo pubblico, solo quelli di natura politica, con esclusione di quelli amministrativo-gestionali. Tale scelta legislativa trova giustificazione nel fatto che la precedente posizione politica ricoperta minerebbe l’imparzialità dell’azione del manager di una società a controllo pubblico. Almeno in apparenza, infatti, si potrebbe creare una interferenza tra le pregresse funzioni svolte da questo (di indirizzo e controllo politico amministrativo) – tali da precostituire le condizioni finalizzate a garantire/perpetuare una continuità di potere sotto altre “spoglie” (c.d. revolving doors) – e quelle (di gestione) successive al conferito incarico.

Il Governo, nell’esercitare la delega, non può invero – ai sensi dell’art. 76 Cost. – introdurre ipotesi limitative che non siano quelle previste dal legislatore delegante. E tra queste non rientra l’incarico di amministratore di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico, posto che la l. n. 190/2012 non ha incluso tale fattispecie tra le “posizioni di provenienza” ostative.

Peraltro, il legislatore delegante – mediante le richiamate disposizioni – ha operato un bilanciamento in cui ha sacrificato l’accesso al lavoro di professionisti per tutelare l’imparzialità nella gestione degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico (e, quindi, i valori costituzionalmente protetti dall’art. 97 della Cost.). Tuttavia, un’ulteriore estensione di questa garanzia, priva di qualsivoglia collegamento con cariche o incarichi politici, è apparsa alla Corte contraria all’obiettivo della legge delega, così finendo per pregiudicarlo, data anche l’interpretazione estensiva (e non restrittiva) delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 39/2013.

Inoltre, sotto altro profilo, il non coerente sviluppo delle scelte di delegazione comportava rilevanti limitazioni all’accesso al lavoro, il quale costituisce – secondo i costanti insegnamenti della giurisprudenza costituzionale (da ultimo, significativa la Corte cost., sent. n. 7/2024, oltre a quelle citate nella stessa decisione) – un fondamentale diritto di libertà della persona umana.

La Corte ha quindi dichiarato illegittima la normativa in esame per contrasto con l’art. 76 della Carta. Ha altresì ritenuto assorbiti gli ulteriori parametri di legittimità costituzionale di cui alle ordinanze di rimessione del T.A.R. Lazio.

Riccardo Cabazzi

Dottore di ricerca in Diritto Pubblico e Istruttore direttivo nel Comune di Castelgomberto.