2/2024

Anticorruzione e regimi di veridificazione. Una traccia

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Il contributo si propone si esaminare con approccio critico le nuove modalità di regolazione che la disciplina dedicata al contrasto alla anticorruzione ha introdotto nel nostro ordinamento. Il tema è affrontato sfruttando la dialettica tra i concetti di conoscenza e potere pubblico, assumendo come punto di partenza dell’indagine la posizione di Michael Foucault, il quale identifica il potere con un rapporto di forza. Sulla scorta di queste premesse viene esaminato il rapporto tra attività amministrativa e saperi tecnico-scientifici, approfondendo specifici istituti caratterizzanti la disciplina nazionale in tema di contrasto alla corruzione, con particolare riferimento al delicato settore dell’affidamento dei contratti pubblici.


Anti-Corruption regulatory instruments and truth certification
The paper aims to examine, with a critical approach, the new regulatory methods that anti-corruption mechanisms have introduced into our legal system. The topic is assessed by exploiting the dialectic between the concepts of knowledge and public power, drawing inspiration from Michael Foucault, who identifies power with a relationship of force. Building on these premises, the study delves into the relationship between the activities of public administration and technical-scientific assessments, specifically focusing on anti-corruption regulatory instruments, particularly in the context of public procurement.
Sommario: 1. Introduzione.- 2. Strumenti di indagine.- 3. Anac, soft law (e crisi) del modello regolatorio.- 4. L’anticorruzione: oltre il disciplinamento?- 5. Il progressivo link del modello anticorruzione con l’evaluative state.- 6. Trasparenza e regimi di veridificazione.- 7. Gli ambigui rapporti con la concorrenza e il progressivo rilievo dei “saperi” tecnici.- 8. Alcuni esempi.- 8.1. Il caso del whistleblowing.- 8.2 Il caso della check list.- 8.3. Il ruolo dell’intelligenza artificiale quale strumento di analisi predittiva dei comportamenti anomali: il Mepa Watch.- 8.4. Il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti.- 8.5. I meccanismi di rating.- 9. Conclusioni.

1. Introduzione[1]

Scopo di queste riflessioni è tracciare una breve genealogia critica della disciplina dedicata al contrasto alla corruzione e del ruolo di Anac nel nostro ordinamento.

Si tratta di un vero e proprio «sistema»[2] che, soprattutto a partire dall’ultimo decennio[3], è penetrato in via trasversale nel nostro diritto pubblico, dettando regole per l’integrità e codici di comportamento, doveri di astensione, meccanismi di controllo e gestione dei conflitti di interesse, piani di prevenzione del rischio, misure di trasparenza, soluzioni per la legalità nei contratti pubblici, criteri per la formazione e la selezione del personale, disposizioni sulle incompatibilità e sulle revolving doors, etc.

Siamo dinanzi a un disegno ciclopico di riforma dell’amministrazione all’insegna dell’etica pubblica, considerato tuttavia “da completare” anche dai suoi sostenitori più convinti[4], che invocano: un approccio per principi più che per regole, più sistemico, integrando l’anticorruzione con altre politiche (es. uguaglianza e non discriminazione di genere), più semplice, alla ricerca di una legalità efficiente, come attesta il passaggio al – seppur discutibile – nuovo strumento del p.i.a.o.)[5]. Più in generale, si è in questi anni spesso criticata l’illusione di un’amministrazione ideale che crea al contrario maggiore inefficienza e burocrazia difensiva[6].

A nostro avviso, tuttavia, in queste pur attente osservazioni manca, o è parziale, un diverso sguardo critico, rappresentato dall’analisi delle nuove modalità di regolazione che l’anticorruzione ha introdotto nel nostro ordinamento. Tale strada può portare a una più ampia collocazione della questione, che chiama in causa le attuali declinazioni della coppia concettuale sapere/potere.

Il tema è legato all’approfondimento dei rapporti fra conoscenza e potere pubblico e nella nostra dottrina, sulla scia del modello weberiano[7] del potere moderno legale/razionale. Il ragionamento è stato declinato secondo il profilo della conoscenza come strumento di controllo democratico delle amministrazioni o della conoscenza come presupposto di legittimazione del potere, a garanzia della oggettività delle decisioni[8].

2. Strumenti di indagine

Ci si atterrà in questa sede ad uno specifico approccio, quello dell’analitica delle relazioni tra potere e verità messa in luce da Michael Foucault, il quale sostiene che il potere non sia un oggetto ma un rapporto di forza, una relazione. Ciascuno è preso all’interno di molteplici relazioni di potere e «nelle sue maglie gli individui non solo circolano, ma sono sempre posti nella condizione sia di subirlo che di esercitarlo». Il potere, peraltro, è costantemente correlato a un sapere, a un ordine del discorso: «non c’è esercizio del potere senza una certa economia dei discorsi di verità che funzioni in – a partire da e attraverso – questo potere. Siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità (…) Siamo sottomessi alla verità anche nel senso che la verità fa legge; è il discorso vero che almeno in parte decide; esso trasmette, spinge avanti lui stesso degli effetti di potere»[9]. Alla tradizionale e moderna antitesi tra verità (critica) e potere, perno del liberalismo moderno, Foucault contrappone il reciproco coinvolgimento della verità e del potere[10].

Il tema biopolitico inizia ad avvicinarsi al diritto e ai suoi problemi nella misura in cui tende a farsi indagine sulle tensioni presenti all’interno del liberalismo[11].

Su queste tensioni basti pensare alla riflessione di Karl Polanyi, che ha dimostrato come lo Stato liberale abbia compiuto nel diciannovesimo secolo due azioni di senso opposto: da un lato ha agito in favore della creazione di meccanismi di mercato, dall’altro ha però edificato un sistema di meccanismi, soprattutto sul piano amministrativo, per limitarlo[12].

È ancora Foucault a cogliere questo punto[13]. Questi parla, nei suoi famosi corsi al Collège de France, di due distinte vie aperte dal liberalismo: la prima giuridico-deduttiva, impostata nel senso di una riproposizione del problema dei limiti dell’autorità pubblica, laddove l’avevano lasciato i giuristi e teorici del diritto naturale del XVII secolo; la seconda radicale-utilitarista, che, sebbene al giurista meno nota della prima, rinnoverà in chiave più profonda la questione dei limiti all’esercizio dell’autorità pubblica.

Questo in quanto sarà in grado di rispondere in modo più profondo alla crisi del liberalismo di fine Ottocento, in cui si assistette a poco a poco alla messa in discussione dei dogmi liberisti in tutti quei Paesi industrializzati dove i riformatori sociali avanzavano. Si pensi all’inquietudine di pensatori come Tocqueville, che intravedeva il nuovo dispotismo in un «potere immenso e tutelare» derivante dalla crescente domanda di protezione, di educazione, soccorso, produzione di opere pubbliche, con una spinta progressiva all’amministrativo a spese della sfera della libertà individuale[14].

Ma sarà soprattutto Bentham a provare a dare una risposta a questi immani problemi, avvalendosi del principio di utilità al fine di operare la separazione tra l’azione necessaria da un lato e quella inutile e nefasta dall’altro. Bentham converge con Smith nel ritenere che il sistema di scambio e di produzione retto dal mercato funzioni per regolazione spontanea, ma va oltre, chiedendosi come possa allora agire lo Stato, in quali circostanze e con quali obiettivi, con quali mezzi. Smith, secondo Bentham, ha preferito considerare le cose come sono, piuttosto che come dovrebbero essere, della scienza piuttosto che dell’arte[15].

Di quale arte? Di quella di governo evidentemente.

Foucault conierà per indicare questo fenomeno essenziale la parola “governamentalità”[16], ed è di essa che probabilmente il giurista dovrebbe maggiormente interessarsi.

Non è un caso che Foucault evidenzi come la Scuola di Friburgo abbia tentato di dare una risposta proprio al problema centrale che caratterizza l’indagine di Weber, ossia quello della «razionalità irrazionale della logica capitalista», e nel far ciò ha provato a ridefinire la razionalità economica, al fine di annullare l’irrazionalità sociale del capitalismo, al contrario della Scuola di Francoforte, che ha provato a ridefinire la razionalità sociale al fine di annullare quella economica[17].

Ciò che è rilevante, in questo approccio, è la genealogia dei regimi veridizionali, ossia l’analisi della costituzione di un «certo diritto della verità a partire da una situazione di diritto, considerato che il rapporto tra diritto e verità trova la sua manifestazione privilegiata nel discorso in cui il diritto si formula, e in cui si enuncia ciò che può essere vero o falso. Il regime di veridizione, infatti, non coincide con una certa legge della verità, [ma] con l’insieme delle regole che consentono, a proposito di un discorso dato, di stabilire quali sono gli enunciati che potranno esservi caratterizzati come veri o falsi»[18].

Poiché il neoliberalismo non è solo questione di ideologia ma anche di discipline, nel senso di volontà culturale di ridefinizione della disciplina come tecnica di governo propria della società del mercato, si tocca così la questione che qui più direttamente interessa: l’espansione delle tecnologie valutative come modalità disciplinari che poggiano sul fatto che più l’individuo calcolatore è considerato libero di scegliere, più deve essere sorvegliato e valutato. La valutazione diviene «tecnologia totale di governo»: un nuovo «campo di cognizione, calcolo, sperimentazione e valutazione»[19], «agile plastico e avvolgente, che investe e attraversa per intero i soggetti, “conducendoli a condursi” in modo conforme all’ambiente costruito, o meglio a re-agire autonomamente in modo conforme a ciò che l’ambiente si aspetta da loro»[20]. L’evaluative State, così, lungi dal rappresentare il ritrarsi dello Stato a favore dell’autoregolazione del mercato, costituirebbe un’intensa e capillare attività di costruzione del nuovo spirito di impresa attraverso sistematici dispositivi di controllo e di valutazione.

3. Anac, soft law (e crisi) del modello regolatorio

Già prima della crisi pandemica taluni hanno messo in luce la centralità del ruolo della regolazione flessibile di Anac e di alcuni strumenti volti ad incentivare la compliance nel settore.

Autori sensibili al tema[21] hanno così osservato che l’ottica della burocrazia difensiva, da molti additata come una dei principali mali del settore, prospera proprio nella disattenzione al piano degli incentivi, e riflette l’antica “miope” visione del rapporto tra legge e amministrazione, per non parlare delle criticità insite nel rapporto fra giudice penale ed amministrazione. Bisognerebbe, quindi, superare la tradizionale prospettiva della mera esecuzione della legge, e pensare alle norme come cornici, frame, integrando l’analisi degli scopi delle regole con il tentativo di comprenderne i possibili effetti. Sbocco naturale di tale approccio metodologico è, di nuovo, la valutazione delle norme orientata alle conseguenze e lo studio delle risposte comportamentali al vincolo giuridico, familiare alla riflessione economica[22].

Quanto alla regolazione di Anac, si è osservato che la flessibilità dello strumento delle linee guida sia uno strumento ideale per l’impiego dei “pungoli” del paternalismo libertario[23]. Pur notandosi criticamente che l’uso del “burocratese” è rimasto tendenzialmente presente, si è osservato come l’obiettivo ultimo resterebbe quello della semplificazione degli enunciati e della chiarezza dei significati. La regolazione anche, se non soprattutto, in questo settore dovrebbe essere per principi e obiettivi, utilizzando proprio le scienze cognitive, in un contesto in cui la discrezionalità amministrativa trovi finalmente sfogo.

È noto l’acceso dibattito sulle linee guida Anac in materia di contratti pubblici e la domanda di fondo: si tratta di «comandi o consigli»[24]? Secondo il Consiglio di Stato, trattandosi di atti di regolazione delle autorità indipendenti, le linee guida vincolanti non potevano essere che atti amministrativi generali.

Molte riserve potevano essere mosse a tale ricostruzione.

Le linee guida hanno sì un’efficacia di carattere generale, ma in quanto atti con carattere astratto. In sostanza, sono un’esplicazione del potere normativo delle amministrazioni pubbliche, attribuito per legge; nel nostro caso è pacifico, visto l’art. 1, comma 1, lett. t), legge delega n. 11/2016 (deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), che prevede appunto l’“attribuzione” ad Anac di questo potere; di cui evidentemente non disponeva in precedenza. In questo senso la migliore dottrina ha considerato veri e propri regolamenti le linee guida vincolanti e direttive (più che soft law o fonti terziarie) quelle non vincolanti. L’affidamento ad Anac di un così penetrante potere di regolazione nella materia dei contratti pubblici, inoltre, sollevava dubbi di legittimità costituzionale con riferimento al principio di legalità in senso sostanziale, in quanto le disposizioni del Codice che rinviano agli atti attuativi di Anac spesso mancano di indicare presupposti e condizioni per l’esercizio del potere. Infine, restava aperta una questione di fondo: il mercato dei contratti pubblici può essere qualificato come un mercato regolato? Sono evidenti le differenze rispetto ai mercati regolati tradizionali, come i mercati finanziari o il mercato delle comunicazioni elettroniche. Nel caso del mercato dei contratti pubblici le regole sono rivolte, infatti, prioritariamente e prevalentemente ad amministrazioni pubbliche e i soggetti regolati, vigilati, controllati e comunque destinatari dell’esercizio dei poteri dell’Anac sono appunto prima di tutto e prevalentemente le amministrazioni e non i soggetti o comunque gli operatori privati.

Anche a fronte delle suddette criticità, il d.l. n. 32/2019 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici) prefigurava in tempi brevi il ritorno al Regolamento unico in sostituzione delle Linee guida. Tale avvicendamento non si è compiuto nei tempi previsti.

Già nella legge delega, la l. n. 78/2022 (Delega al Governo in materia di contratti pubblici), si parlava di revisione delle competenze di Anac al fine di rafforzarne le funzioni di vigilanza e di supporto alle stazioni appaltanti. Non si parlava invece di regolazione, evocandosi solo poteri sanzionatori e di controllo e poteri di emanare pareri di precontenzioso. Il nuovo Codice dei contratti pubblici del 2023 ha quindi optato per una soluzione diversa, consistente nella predisposizione di un numeroso apparato di allegati al Codice, aventi la medesima forza di legge dello stesso, prevedendo altresì che questi ultimi siano destinati, nel prossimo futuro, ad essere sostituiti da regolamenti.

Sennonché proprio l’obiettivo della certezza, della semplificazione e della valorizzazione della discrezionalità delle stazioni appaltanti, perseguito dal legislatore del 2023 sin dall’affermazione dei principi di risultato (art. 1) e della fiducia (art. 2), rischia di essere sabotato alla radice. Non dimentichiamo che l’equilibrio tra semplificazione e controlli in materia di contratti pubblici rappresenta da sempre uno dei nodi più intricati.

Le stazioni appaltanti, in quanto pubbliche amministrazioni, sono chiamate a redigere i piani decentrati anticorruzione, e nello svolgimento di tale attività sono sollecitate (da Anac) a considerare la discrezionalità del processo decisionale mappato come key indicator (ossia elemento sintomatico) della presenza del rischio corruttivo[25]. La presenza di tale elemento sintomatico (ossia, appunto, la discrezionalità) dovrebbe, in questa prospettiva, indurre la p.a. a prevedere misure di gestione del rischio corruttivo orientate, anche e soprattutto in materia di appalti, alla predisposizione di auto-vincoli in grado di contenere la pericolosità (percepita tuttora come) insita nel carattere discrezionale della decisione da assumere.

Quanto appena rilevato comporta importanti conseguenze alla luce di tre aspetti: i) l’attività di affidamento ed esecuzione dei contratti pubblici è qualificata dalla disciplina anticorruzione come «area di rischio generale» (quindi come attività su cui devono necessariamente essere predisposte misure di gestione del rischio individuate, ente per ente); ii) la violazione di una misura di gestione del rischio che, ad esempio, comprima spazi di discrezionalità lasciati “liberi” dal legislatore, comporta l’illegittimità dell’atto recante la violazione della misura, non diversamente da quanto avverrebbe se ad essere violata fosse una norma di legge; iii) il nuovo Codice, pur nella generosità con cui provvede alla positivizzazione dei principi, non menziona il divieto di gold plating, il che consente alle stazioni appaltanti di introdurre disposizioni di auto-vincolo in grado di neutralizzare, o comunque mitigare, il favor verso la discrezionalità di cui il nuovo Codice dovrebbe essere espressione.

Sembra, quindi, che la svolta a favore della discrezionalità che il nuovo Codice delinea rischi di essere travisata da norme riconducibili al sempre più ampio complesso regolatorio dedicato agli obiettivi di contrasto alla corruzione e alla logica preventiva (e predittiva) che anima la disciplina in questione. Una linea di continuità in questo senso è rappresentata dall’aggiornamento 2023 del p.n.a. (documento allo stato ancora in consultazione), che viene nuovamente dedicato ai contratti pubblici, anche alla luce del fatto che molte disposizioni semplificatorie e derogatorie previste dalle norme susseguitesi nel corso degli ultimi anni[26] sono state introdotte in via permanente nel sistema dei contratti pubblici. Il riferimento è, evidentemente, alle modalità di affidamento dei contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria. Vengono in questo documento individuate una serie di aree di rischio, sia nella fase di affidamento (es. frazionamento indebito, non attuazione del principio di rotazione, appalto integrato, subappalto “a cascata”) che in quelle di esecuzione (es. modifiche e varianti).

Se questa opera di freno dovesse concretizzarsi, resterebbe da chiedersi quale possa essere il senso e la ragion d’essere di un insieme così ampio e inedito di principi come quelli che aprono il Codice del 2023. Principi che a loro volta contengono importanti spinte incentivanti verso l’uso della discrezionalità, come emerge dall’analisi del principio del risultato (art. 1) e soprattutto della fiducia (art. 2).

Vero è che, tuttavia, nell’aggiornamento 2023 del p.n.a. si dice espressamente che esso va letto alla luce dei nuovi principi dei contratti pubblici, in particolare dei primi tre (risultato, fiducia, accesso al mercato), e quindi in linea con la valorizzazione dell’auto-responsabilità e della discrezionalità (amministrativa e tecnica) delle stazioni appaltanti. Sennonché, si prevede altresì che, nell’elaborazione dei propri p.t.p.c.t. o della sezione anticorruzione e trasparenza del p.i.a.o., le stazioni appaltanti possono prevedere ulteriori misure rispetto a quelle esemplificativamente indicate dal p.n.a. Qui la discrezionalità valorizzata sembra piuttosto essere quella che amplia le strategie di prevenzione della corruzione, riproponendo il rischio del gold plating.

In questo senso si attenua il divario tra norma vincolante e soft law: proprio guardando alla regolazione di Anac si era parlato di effetti “esistenziali” delle linee-guida direttive, per evidenziare gli effetti sul piano concreto di atti privi in sé di effetti giuridici diretti[27].

Questa prospettiva predilige percorsi di “giustificazione” e indagini sulla “giuridificazione” del fenomeno (e di allontanamento di esso dal modello nichilista alla Irti-Severino[28], e prima heideggeriano[29]), ad esempio valutando in profondità questi meccanismi come strumenti di riduzione luhmanniana della complessità, e così rileggendo fenomeni come quello delle norme interne[30]. Questo secondo approccio, più diffuso fra gli amministrativisti, sembra assecondare meglio la prospettiva della filosofia analitica, che non a caso vede nella regola tecnica un sistema defettibile, più trasparente e adatto, proprio in quanto confutabile, ai contesti socioculturali che viviamo, all’insegna del principio di effettività. Esso si fonda sulla distinzione kantiana tra imperativo ipotetico e imperativo categorico, poi sviluppata dai filosofi analitici, che inquadra le regole tecniche, diverse da quelle categoriche, fra le regole che prescrivono un comportamento in quanto mezzo per perseguire un determinato fine, secondo lo schema: se si vuole Y, si deve X. Questo concetto di regola tecnica, a rigore, si distingue dalle regole tecniche definibili invece come regole tecnonomiche, ossia come “normativa tecnica”, cioè come insieme di regole che qualificano deonticamente una tecnica o che attuano norme più generali, ossia ne specificano le modalità di esecuzione/applicazione[31].

In tale assetto si supera l’idea di “certezza” in senso tradizionale, come stabilità sociale di qualificazioni e rapporti giuridici, e prende piede l’idea di “certezza” come affidamento sociale nella qualità interseca di persone o beni della vita, spesso merci, finalizzata alla riduzione della complessità e producibile anche da soggetti privati. Dalla certezza-stabilità si passa progressivamente alla certezza-affidamento[32].

Naturalmente c’è un’altra prospettiva, che porta ad accedere ad un’idea non tanto di crisi della legge, ma più ampiamente di crisi del diritto come sistema di veridificazione del potere[33], per dirla di nuovo con Foucault, e sempre con quest’ultimo ad evidenziare il sistema sapere/potere insito a questi fenomeni, connotando la soft law come “resa” del sistema democratico rappresentativo a una serie di ideologie forti, su tutte quella neoliberale dell’effettività, che prevale sul modello kelseniano della validità.

4. L’anticorruzione: oltre il disciplinamento?

Appuntando più specificamente lo sguardo sul tema della lotta alla corruzione, si può notare come vi è traccia, anche tra i giuristi, di talune considerazioni apparentemente eterodosse. Si è osservato, ad esempio, che questa normativa ha dato luogo di fatto alla depoliticizzazione di una politica pubblica. In questo senso sorge il dubbio che «il tentativo di ammantare di scientificità la sua azione [di Anac, ndr] risponda alla consapevolezza che alla costituzione di un «campo di sapere» (caratterizzato da proprie tecniche cognitive) corrisponda la contestuale costituzione (in questo caso il rafforzamento) di una relazione di potere»[34]. Oggetto di osservazione era, naturalmente, Codice dei contratti del 2016, che ha rappresentato il terreno delle forzature più significative: la vigilanza sui contratti pubblici, appunto, non è stata più considerata fine a sé stessa, ma è stata ritenuta (anche) funzionale al perseguimento di finalità di c.d. anticorruzione (in quel Codice, il riferimento all’Autorità nazionale anticorruzione compariva almeno una novantina di volte).

Tali approcci sono chiaramente debitori della ricostruzione biopolitica classica.

La sovranità intesa come limitazione, come prelievo, non è considerata la forma principale del potere, ma solo uno degli elementi fra altri che hanno funzione di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette: un potere, insomma, destinato a produrre delle forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle. In questo senso la vecchia potenza della morte che incarnava il potere sovrano viene ricoperta dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita: una biopolitica della popolazione, appunto, che soprattutto grazie all’imposizione in età classica di discipline quali la salute pubblica, dopo le grandi epidemie del quattordicesimo e diciassettesimo secolo e i rischi biologici corsi, si è imposta, mettendo al centro del sistema reticolare di potere la norma al posto della legge.

È questo aspetto costituire la cifra dei famosi corsi al Collège de France di Foucault dal 1970 al 1984, che presentano uno scarto importante rispetto alla precedente fase volta all’analisi delle mere forme di disciplinamento. Per restare al tema dell’epidemia, vi è una netta differenza fra il trattamento della lebbra nel Medioevo, caratterizzato dal meccanismo escludente della sovranità, quello della peste nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, fondato su un tipico sistema disciplinare, e infine quello del vaiolo, che opera invece su meccanismi di sicurezza completamente diversi, portando a un superamento del problema classico della sovranità (la sicurezza del principe, sûreté) fino alla centralità della sicurezza della popolazione (sécurité), soprattutto nelle città, operando essenzialmente sulle questioni relative alla circolazione.

Sicché quando guardiamo alle tematiche dell’anticorruzione e della trasparenza, non possiamo ignorare l’originario modello che ci viene dalla pratica della confessione che il pastorato cristiano aveva introdotto, mostrando come la verità fosse una componente fondamentale del potere moderno[35].

Si tratta, a questo punto, di operare uno scarto rispetto all’evocata società del pastorato e del disciplinamento. Che però non significa netto iato concettuale.

Il modello di potere per inquadrare la fase attuale sembra quello del “tardo” Foucault, non già “ultra-radicale” dei primi anni ‘70, ma della svolta “pragmatica”, più in linea con la nozione di governamentalità, non a caso sviluppata nei corsi al Collège de France della seconda metà degli anni ‘70. Per intenderci, il Foucault che sintetizzava il passaggio dal liberalismo al neoliberalismo sottolineando che nel primo il protagonista è il soggetto considerato come partner di uno scambio, mentre nel secondo il soggetto è teorizzato come un imprenditore di sé stesso[36].

Il punto di fondo è dato dal fatto che è insito nel pensiero neoliberale il profilo della libertà di scelta, ricostruita attraverso modelli di comportamento di mercato foucaultianamente estesi a tutte le situazioni e a tutti i rapporti sociali. Del diritto viene a ricavarsi, così, un’immagine di ordine “non politico”: nel modello neoliberale il mercato è un’occasione di massimizzazione e la realizzazione del public good dipende dal successo delle singole transazioni massimizzanti. In tale contesto si è affermato uno «stile giuridico neoliberale»[37], connotato da intensificazione e tecnicizzazione delle regole, frammentazione dell’ordinamento, concorrenza sostituita dalla competitività.

In questo quadro frastagliato e indefinito è il neoliberalismo amministrativo come emergenza costante[38] che meriterebbe maggiore attenzione. A differenza del paradigma moderno della sovranità, infatti, nel dispositivo governamentale l’emergenza è la strutturazione della quotidianità nell’ottica dell’imprevisto governabile, risolvibile: tale tecnica governamentale diviene, così, un gigantesco generatore di eccezioni.

Si ha così un’inedita centralità dell’amministrazione nell’ordinamento neoliberale, che pare meritevole di approfondimento critico.

5. Il progressivo link del modello anticorruzione con l’evaluative state

Si consideri la questione del rapporto tra diritto e norma e del carattere neoliberale del nudge[39].

Ad essere sotto osservazione, in questo caso, non è tanto la tecnica regolatoria di Anac, la sua effettività, i problemi che hanno interessato i giuristi con riferimento alla questione delle fonti atipiche e del soft law, la tendenziale “marcia indietro” sul modello delle linee guida a far data dal cd. d.l. sblocca-cantieri e poi accentuata dal d.lgs. n. 36/2023 (Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici).

A ben guardare, tali modelli regolatori, assieme ad altri quali le norme sugli ISO, quelle sui ranking delle università o degli ospedali, mostrano che la “colonizzazione” del diritto da parte della norma contribuisce a instaurare modalità di regolazione caratteristiche della “società del controllo” e in grado di conquistare progressivamente gli spazi già occupati dal modello giuridico-politico della sovranità classica. Un metodo di regolazione non pubblica, ma di origine privata alquanto diffuso in epoca post-liberale è costituito dalle norme tecniche, appunto i c.d. “indicatori”, che dispiegano un peculiare tipo di operatività normativa: non sanzionano una condotta del soggetto a cui si rivolgono, ma sono esse stesse il modello del comportamento che tale soggetto deve adottare per potere essere conforme ad esse. Gli indicatori, infatti, altro non sono che sofisticati dispositivi disciplinari che svolgono una funzione di normalizzazione, cioè di allineamento dei soggetti con i fini del sistema di potere (e sapere) dominante. Naturalmente, anche nell’ambito della lotta alla corruzione si è posto da tempo il tema degli indicatori di corruzione, determinando anche in questo caso strategie sistemiche, ampie e pervasive[40].

Si pensi, ancora, alla valutazione come «tecnologia totale di governo»: «un agile plastico e avvolgente, che investe e attraversa per intero i soggetti, “conducendoli a condursi” in modo conforme all’ambiente costruito, o meglio a re-agire autonomamente in modo conforme a ciò che l’ambiente si aspetta da loro»[41]. L’evaluative State, così, lungi dal rappresentare il ritrarsi dello Stato a favore dell’autoregolazione del mercato, costituirebbe un’intensa e capillare attività di costruzione del nuovo spirito di impresa attraverso sistematici dispositivi di controllo e di valutazione. Si pensi alla recente Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione avente ad oggetto la «Pianificazione della formazione e sviluppo delle competenze funzionali alla transizione digitale, ecologica e amministrativa promosse dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza»[42], strettamente connessa al p.i.a.o., e le cui parole chiave sono «risorse umane», «soft skills», «ciclo di gestione della formazione», con un allegato «Syllabus delle competenze digitali per la P.A.» del Dipartimento della funzione pubblica.

Le più recenti teorie del “value-based management” tematizzano con chiarezza questo “cultural re-engineering” o “redesign of culture” – la cui azione si può riconoscere senza sforzo anche nel proliferare di “codici etici”, “di comportamento” e “anticorruzione” diffusi un po’ ovunque e anzitutto nelle istituzioni pubbliche. Un esempio per tutti, che chiunque lavori nell’università ormai non può ignorare: il grado di adesione e condivisione di una “cultura della valutazione” diviene esso stesso oggetto di valutazione. Del resto, è stato osservato che «quando le strategie di prevenzione della corruzione intercettano la galassia universitaria le problematicità tipiche della relativa disciplina (rischi di formalismo, di burocratizzazione e di amministrazione difensiva) sono doppiate da ulteriori, più specifiche criticità»[43], richiamando le potenziali frizioni con l’autonomia costituzionalmente garantita e con la libertà di ricerca scientifica (si pensi, per tutti, al tema dei concorsi). Si è inoltre, notato, come paradossalmente vi sia una correlazione tra indicatori di inefficienza amministrativa e corruzione, nella misura in cui ciò incide sulla debolezza del capitale sociale e sulla sfiducia nelle istituzioni[44]. È anche per questo motivo che il principio di “fiducia” si è fatto largo nel Codice dei contratti pubblici, assecondando l’idea[45] secondo cui più la regolazione è percepita come giusta ed efficiente più sarà effettiva e inciderà sul comportamento dei cittadini.

Così il successo economico sostituisce le forme giuridiche di legittimazione: il mercato produce verità, e l’economia sostituisce il diritto come criterio di veridificazione del potere pubblico.

La critica è tanto radicale quanto spesso ignorata dal giurista: «Si tratta, evidentemente, di portare a termine un percorso che ha le caratteristiche di una scelta strategica e tattica tutt’altro che liberale che non garantisce né la trasparenza dell’operato dei regolatori/policymaker, né la maggiore comprensibilità delle norme da parte dei loro assoggettati, e che punta sul tecno-potere più che sulla regolazione giuridica, sottraendosi alla scelta politica democratica»[46].

È in questo contesto caratterizzato dalla “norma” in senso foucaultiano che il nudge si inscrive: in una logica della normatività giuridico politica che solo per inerzia, colpevole approssimazione e surrettizie professioni di anti-ideologismo può essere accostata agli strumenti giuridici di stampo liberale.

Il nuovo Codice dei contratti pubblici sembra pervaso da questi aspetti, operando come un architetto della scelta, fornendo un certo numero di alternative alle stazioni appaltanti, dando loro “spinte gentili”, aprendo massimamente alle scelte dei compratori qualificati e di professione, spesso senza proibire, ma al contempo incentivando verso scelte in linea con la funzione sociale del contratto e lo sviluppo sostenibile.

Una nuova genealogia di saperi/poteri è quindi all’orizzonte, e torna nuovamente la lezione foucaultiana sul potere “periferico”, che funziona sulla base della tecnica e non del diritto, della normalizzazione e non della legge, del controllo e non della punizione. La scienza del diritto amministrativo ha riavviato il dibattito sui saperi[47], mentre quanto alla cultura della valutazione è in corso da anni una querelle con riguardo alle procedure di valutazione della ricerca universitaria, da taluni considerata alla stregua di una tecnica governamentale volta a far penetrare i capisaldi del neoliberalismo attraverso la via accademica all’evalutive state e l’affinamento di «strumenti di intelligence amministrativa»[48].

Non è un caso che questa impostazione, che valorizza lo stretto collegamento tra anticorruzione e performance, sia stata ora ripresa più in generale dal d.l. n. 80/2021 (Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia)[49] il quale ha previsto per tutte le amministrazioni statali l’assorbimento del Piano triennale di prevenzione in un unico piano integrato di attività e organizzazione, con contorni ancora in via di precisazione, che auspicabilmente scongiurino il rischio di un patchwork di documenti giudicati privi di effettiva sinergia tra loro. La critica[50] ritiene che la questione sia, al fondo, l’impossibilità di immaginare come un unicum piani volti alla realizzazione di obiettivi (come è per il piano delle performance) e piani volti alla protezione da rischi: pena l’effetto di schiacciare le esigenze di protezione sugli obiettivi (e intorno a questi), o al contrario di concentrare l’attenzione sui rischi rispetto a obiettivi di performance che meritano una propria centralità.

Ma forse c’è qualcosa in più, e oltre.

Forse tale sinergia sussiste, e va ancora ricercata nella transizione dalla società della normalizzazione alla società dell’ottimizzazione. Laddove nella società della normalizzazione il biopotere produceva un «assoggettamento» degli individui umani, nella società dell’ottimizzazione il biopotere tende a produrre invece una capillare «spersonalizzazione» dei comportamenti umani che sono svincolati da ogni centro soggettivo di imputabilità, che sono cioè segmentati e misurati nella loro specifica operatività, per essere poi adeguatamente potenziati, diversificati e flessibilizzati.

Naturalmente questo assetto trova una formidabile spinta nelle politiche pubbliche legate all’attuazione del PNRR, e in tale contesto esse vanno innanzi tutto considerate, esaminando l’ispirazione di fondo che anima questo storico strumento di intervento anti-crisi messo in campo dall’UE, anche se il Piano ha ridimensionando il peso delle politiche di anticorruzione nella contrattualistica pubblica, come peraltro implicitamente confermato dal nuovo Piao di cui si è detto, figlio di questa ultima stagione.

6. Trasparenza e regimi di veridificazione

In tutti questi casi la riflessione sulla veridificazione, sui regimi di verità, di Foucault resta quanto mai attuale.

L’assunto del filosofo francese suona all’incirca così: ogni confessione avviene all’interno di un rapporto di potere; non è vero che si passi dalla coercizione alla confessione effettivamente libera; la libertà guadagnata dalle pratiche più recenti va declinata all’interno di una trasformazione delle procedure di obbligo, cioè dentro un rapporto di potere che si modifica ma resta presente. Il soggetto-individuo che nasce dal panopticon è il trionfo della visibilità, esiste in quanto visibile, individuabile, poiché così esso è percepibile in ogni luogo dal dispositivo del potere, che a sua volta funziona e si legittima tramite la sua visibilizzazione[51], si pensi ai noti assunti di Bobbio sulla democrazia[52].

Anche il principio di trasparenza, elevato recentemente a “paradigma” della democrazia nel libro di Enrico Carloni[53] che si apre con un richiamo al pensiero critico di Byung-Chul[54] (ed è consapevole dei molti rischi in termini di autoritarismo o affermazione della cultura neoliberale), risente di tali sommovimenti. Nel dibattito filosofico contemporaneo il tema della trasparenza risulta sempre più centrale, ed è talora indagato in chiave critica per evidenziare la progressiva tendenza a una sua feticizzazione e totalizzazione (si pensi, per tornare al diritto amministrativo, alla moltiplicazione dei regimi di accesso e alle difficoltà in termini di tutela che ciò ha generato), nel contesto di un radicale cambiamento di paradigma che non può essere circoscritto all’ambito della politica o dell’economia. In tale ottica anche il modello biopolitico benthamiano del panottico, attualizzato dalle celebri riflessioni di Foucault, sembra superato, per cedere il posto a un modello definito appunto “psicopolitico”, connotato da un panottico digitale di specie del tutto nuova, a-prospettica[55].

Qui sta probabilmente l’insidia più profonda.

Il sistema governamentale dell’anticorruzione e della valutazione si è erto negli ultimi lustri a modello più generale di una regolazione fatta di soft law nella forma e di “spinte gentili” nei contenuti, e oggi ha a disposizione un formidabile acceleratore rappresentato dalla decisione algoritmica. In tal senso la questione non può essere ridotta a come la decisione algoritmica impatti sul procedimento e l’attività amministrativa tradizionali, si pensi al tema della decisione discrezionale e al rapporto coi principi di responsabilità/imputabilità e legalità. Sul punto, infatti, la nostra giurisprudenza amministrativa è molto avanzata[56], sulla scorta dei principi dell’ human in the loop, della non discriminazione algoritmica, della trasparenza vista come conoscibilità ma soprattutto comprensibilità dell’algoritmo.

Piuttosto sarebbe più interessante considerare come tutto ciò impatti sulla teoria dell’organizzazione e dell’attività amministrativa, ove istituti quali il coordinamento, profondamente connesso all’evoluzione dell’amministrazione in senso digitale e algoritmico, assume la denominazione di interoperabilità, non a caso proprio nel ciclo di vita digitale del contratto pubblico, a tutela della concorrenza e allo stesso tempo orientato alla lotta alla corruzione. Non dimentichiamo che la Relazione al Codice dei contratti pubblici del 2023, proprio in tale punto fa la maggiore digressione sul tema della corruzione: «Va, infine, considerato che la digitalizzazione costituisce anche una efficace misura di prevenzione della corruzione in quanto consente trasparenza, tracciabilità, partecipazione, controllo di tutte le attività, in modo da assicurare il rispetto della legalità. Il settore delle commesse pubbliche rappresenta, infatti, un’attività fortemente esposta a condotte corruttive, in ragione del potenziale economico che esprime e, quindi, occorrono presidi efficaci e qualificati per fare in modo che le risorse stanziate non vengano distolte dal perseguimento degli interessi pubblici. La digitalizzazione potrebbe, quindi, in definitiva assicurare efficacia, efficienza e rispetto delle regole».

I nodi centrali all’orizzonte sono in ogni caso quelli della regolazione e delle politiche pubbliche in materia, quindi il tema di come cambia l’attività conoscitiva dell’amministrazione, quello della sorveglianza digitale e dei grandi poteri privati, traguardati sotto il profilo inedito della regolazione soft, che sperimenta oggi nuove forme, come appunto il nudge, talora declinato nelle innovative, per molti inquietanti, tecniche della gamification e del social scoring nelle politiche pubbliche[57].

L’oggettività “democratica” dell’algoritmo non necessita a monte di deliberazione democratica, e in un meccanismo controfattuale di autolegittimazione le evidenze danno fondamento alle politiche dell’evidenza; così l’amministrazione algoritmica crea performativamente la realtà e non si limita a registrarla.

Questo è un tema pienamente biopolitico: si pensi al rapporto tra protezione dei dati personali e potenzialità del dato per la cura di interessi pubblici, alla luce dell’intima connessione fra informazione organizzata e sistemi di welfare[58]. Il modello del controllo convive con quello del welfare biopolitico[59]. È la strutturazione del soggetto, il suo assoggettamento, ampiamente studiato ancora da Foucault. Casi studio come le prospettate banche dati dell’amministrazione finanziaria per contrastare l’evasione fiscale e i progetti di statistica sperimentale messi in piedi dall’Istat per i dati sanitari nel periodo pandemico appaiono emblematici[60]. Naturalmente anche in questo caso sono chiamate in causa competenze e nuovi saperi specialistici, su tutti la data science, e si pone un tema forte di giuridificazione del procedimento e dell’organizzazione, nonché un tema di integrità del funzionario che gestisce il dato.

7. Gli ambigui rapporti con la concorrenza e il progressivo rilievo dei “saperi” tecnici

Come e in che senso le politiche di anticorruzione possono incarnare questa nuova forma di potere?

In apparenza anticorruzione e trasparenza subentrano, assieme ad altri valori, negli anni 2000 attenuando la centralità della concorrenza. Il principio di concorrenzialità degli affidamenti pubblici, ad esempio, ha in qual contesto conosciuto una sorta di processo di de-sacralizzazione, che ha portato gli interpreti e, di seguito il legislatore, a considerare la necessità di bilanciare gli obiettivi di apertura e imparzialità delle gare con quelli di controllo e razionalizzazione della spesa pubblica derivante dalla contrattazione.

Ma bisogna guardare più in profondità per valutare il campo di gioco in cui lotta alla corruzione e concorrenza stanno e cadono assieme. La direzione del percorso evolutivo tracciato dall’ordinamento dell’UE pare, piuttosto, quella di una pacificazione tra i due estremi rappresentati dalla visione contabilistica/pan-pubblicistica e dalla assolutizzazione degli obiettivi pro-concorrenziali, al fine di addivenire ad un prudente bilanciamento tra gli obiettivi – entrambi riconducibili in modo più o meno diretto all’interesse pubblico – sottesi a ciascuna delle già menzionate impostazioni.

Si pensi alla questione relativa ai protocolli di legalità.

È questo un tema aperto, nella misura in cui l’art. 10 del Codice dei contratti pubblici, dedicato al principio di tassatività delle clausole di esclusione, non fa chiarezza su una questione molto dibattuta: il rapporto tra la tassatività delle cause di esclusione e la norma “extra Codice” che impone, ai fini dell’ammissione in gara, il rispetto dei protocolli di legalità predisposti da ciascuna amministrazione. Si tratta dell’art. 3, co. 7, della l. n. 120/2020 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76), che ha introdotto l’art. 83-bis nel d.lgs. n. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), in forza del quale «le stazioni appaltanti prevedono negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto». I protocolli aprono una falla non trascurabile al principio di tassatività delle cause di esclusione, per cui sarebbe stato utile chiarire precise condizioni nel rispetto delle quali l’autonomia nella predisposizione dei protocolli possa armonizzarsi con la tassatività delle cause di esclusione.

Ma al di là di questo aspetto più specifico, pare interessante tornare indietro, alle parole con cui la Corte di Giustizia ha sdoganato l’istituto: l’obbligo di accettare un protocollo di legalità come condizione di partecipazione alla procedura si pone in linea con il principio di non discriminazione (incombendo su tutti i partecipanti indistintamente) ed è idoneo a rafforzare la parità di trattamento e la trasparenza nell’aggiudicazione degli appalti pubblici. Inoltre, in maniera conforme al principio di proporzionalità (altro principio comunitario di carattere generale), tale misura non deve porsi come eccessiva rispetto all’obiettivo perseguito[61].
La Corte, dunque, si esprime nel senso che la normativa degli Stati Membri che prevedono la sottoscrizione di protocolli di legalità è in linea con i principi comunitari. In tal modo, sempre secondo i giudici del Lussemburgo, verrebbe favorita la formazione di una «concorrenza qualificata per legalità, trasparenza, eticità e correttezza».

Secondo un punto di vista particolarmente critico dell’assetto neoliberale, un punto centrale sta nella delegittimazione dello Stato sociale e previdenziale che i discendenti di Bentham, incarnatosi nella scuola della Public Choice, portano avanti, anche sulla base del managerialismo, della lotta alle lobby, e mettendo al centro tecniche come l’auditing, gli indicatori di prestazione e il benchmarking[62]. Con una non trascurabile differenza di fondo: che mentre in Bentham il «principio di congiunzione dell’interesse e del dovere» poteva essere realizzato da uno stretto controllo degli elettori su rappresentanti e funzionari, il Public Choice, sulla scia di Hayek, è un movimento ostile alla democrazia rappresentativa, ritenuto il principale fattore di sviluppo della burocrazia[63].

Il complicato dipanarsi dei rapporti fra concorrenza e altri principi, dalla tutela dei valori sociali alla trasparenza e anticorruzione, sembra tuttora sconti questa incongruenza di fondo, nella misura in cui talora è connotato dal collante dei “valori” della valutazione talaltra di quelli propri dello Stato sociale, anche se pare a chi scrive che anche laddove prevalga questo secondo aspetto esso resti ipotecato dalle possibili derive del welfare biopolitico, implicante sistemi sempre più evoluti e tecnologici di controllo e disciplinamento.

Si tratta della progressiva costituzione di un campo di sapere cui corrisponde la contestuale costituzione di una relazione di potere. Mi sembrano emblematiche di tale tendenza talune recenti interpretazioni dell’art. 54 Cost., nelle quali la disciplina con la quale il dipendente pubblico deve assolvere alle proprie funzioni viene declinata come «disciplinamento»[64], così di fatto evocando la “dolcezza” del dressage di Foucault.

Ne esce coinvolto, evidentemente, anche il tema cruciale del personale pubblico.

Si tocca qui il tema delle modalità di reclutamento di detto personale e dei saperi delle p.a., rispetto a quello che forse è stato il Convegno più genuinamente “politico” e anticipatore di tendenze dell’Associazione dei professori di diritto amministrativo[65]. È stato detto sul punto, in modo piuttosto preciso, che il principale punto di incontro tra sapere giuridico e sapere economico si ha oggi in quella prospettiva che porta a superare la tradizionale «sottovalutazione dell’esigenza di acquisire conoscenze utili all’architettura di un sistema coerente di incentivi, capace di guidare decisori pubblici e privati sovente stretti dalla morsa dell’incertezza», sottovalutazione che ha «contribuito a determinare l’impasse in cui versano la disciplina e la pratica della contrattazione pubblica, nel nostro Paese»[66]. Peraltro, l’invocazione di un metodo sempre più correlato economico/giuridico implica, a sua volta, proprio l’idea – ancora ordoliberale – che non esista una vera alternativa fra Stato e mercato.

Questo nuovo potere produce sofisticati dispositivi disciplinari che svolgono una funzione di normalizzazione, cioè di allineamento dei soggetti con i fini del sistema di potere (e sapere) dominante.

Oltre al sapere economico, specie dopo la pandemia tende a predominare quello medico: «la medicina come religione», per dirla con Agamben[67], in continuità con l’idea della vita al centro dell’interesse politico, tramite il fondamentale medium del sapere medico-scientifico. In modo non dissimile Latour rileva ciò che chiamiamo modernità consiste, unicamente, nell’aver abbandonato l’idea che il ragionamento universale sia da solo fonte di conoscenza, sostituendolo con l’opinione controllata da team di specialisti che operano in ambienti protetti (ossia gli scienziati che operano nei laboratori)[68].

La prospettata riforma dei saperi dell’amministrazione, declinata in chiave biopolitica, svela così il rischio del ragionamento circolare: a) il decisore politico-giuridico si appoggia al sapere medico-scientifico per stabilire quale sia la decisione “sorretta da evidenze scientifiche” e sulla base di tale appoggio trova la propri autorevolezza (politica) e legittimità (giuridica), ma al contempo; b) è solo in forza di processi sociali e procedimenti giuridici che viene acquistato lo status di “esperto” titolato ad esprimere quali siano le migliori evidenze scientifiche disponibili.

Del resto, la nota sentenza Cons. St., 20 ottobre 2021, n. 7045 sulla legittimità della vaccinazione obbligatoria anti-Covid, oltre a menzionare tecniche regolatorie come le “spinte gentili” – ancora il nudge – alla vaccinazione, mediante un sistema di incentivi o disincentivi e i recenti indirizzi dell’economia comportamentale, quando affronta il tema della “riserva di scienza” fa un implicito riferimento proprio al carattere storico dei regimi di veridizione: una sentenza dal sapore foucaultiano, si direbbe.

Ma non è questa la sede per un approfondimento del “laboratorio” pandemico. Qui di seguito sembra utile un elenco, criticamente ragionato, di come l’avanzare di queste pratiche di veridizione e controllo post-panottico, relative alle (peraltro controverse) connessioni tra anticorruzione e performance, trovino realizzazione in un caso studio emblematico, quello relativo al campo recentemente riformato dei contratti pubblici.

8. Alcuni esempi

8.1. Il caso del whistleblowing

Assolutamente paradigmatico, anche se trasversale e non direttamente legato alle procedure di acquisto, è il caso del whistleblowing, dal quale è opportuno iniziare in quanto in questo articolo si è già descritto quanto “la volontà di sapere” sia legata a nuove forme di produzione di potere e di assoggettamento orizzontale.

Tale istituto, introdotto all’art. 54-bis T.U.P.I con l. n. 179/2017 (Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato), consiste nella previsione della mancata sanzione (o altro, es: demansionamento) del pubblico dipendente che segnali condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro.

Progressivi interventi di soft law[69] hanno compromesso la chiarezza e il rigore della norma primaria[70]. Si pensi al tema del trattamento delle segnalazioni anonime che, seppure non possano essere considerate alla stregua di quelle debitamente sottoscritte, sembrano tuttavia godere di un trattamento comunque privilegiato, e all’estensione della fattispecie alle “attività prodromiche” o che potrebbero costituire un ambiente favorevole alla commissione di fatti corruttivi in senso proprio, discutibile nella misura in cui rischia amplia di comportare trattamenti di dati personali non pienamente riconducibili all’ambito di trattamento previsto dalla disciplina di settore[71] ed amplia attraverso disposizioni di soft law l’ambito applicativo di norme che dovrebbero essere di stretta interpretazione[72].

Peraltro, con riguardo al più recente d.lgs. n. 24/2023 (Attuazione della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione e recante disposizioni riguardanti la protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali) riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione, è interessante sottolineare come l’intervento europeo abbia posto al centro della disciplina, estendendo l’applicazione dell’istituto ad esempio a nuovi ambiti soggettivi (es. organismi di diritto pubblico) e a nuovi soggetti tutelati (es. il facilitatore), proprio la tutela del core ordoliberale (interessi finanziari dell’UE, atti o omissioni riguardanti il mercato interno, in materia di concorrenza, etc.). Del resto, questa tendenza ampliativa anche sul fronte soggettivo è nelle origini dell’istituto: l’art. 1, comma 2, l. n. 179/2017 ampliava già la definizione di dipendente pubblico ricomprendendo – oltre che i dipendenti della pubblica amministrazione ex art. 1, comma 2, del TU del pubblico impiego, ivi compresi il personale di diritto pubblico – i dipendenti degli enti pubblici economici, quelli degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico e i lavoratori/collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi che realizzino opere a favore delle pubbliche amministrazioni.

Si è parlato sopra dell’indagine di Foucault sulla confessione nei regimi di veridificazione.

Guardiamo, ad esempio, al tema della responsabilità dell’ente e alla sua più recente evoluzione disciplinare.

È possibile intravedere, per il caso del whistleblowing e del costante moto espansivo che ha connotato la fattispecie, l’avvento di una fase “post-panottica”. Anche qui, dunque, i discendenti di Bentham, incarnatisi nella scuola della Public Choice, torcono in senso spiccatamente neoliberale il modello utilitarista e riformista delle origini. Infatti, l’approccio legislativo e giurisprudenziale attesta, in questo settore sociale strategico, che il modello panottico non è stato rimpiazzato con paradigmi nuovi, ma va, piuttosto, progredendo in qualcosa di più articolato e, forse, di più penetrante. Per la responsabilità dell’ente, si può forse parlare di implementazione di un modello neo-panottico, il cui paradigma punitivo mira a prospettare un criterio di controllo interno “totale” e “circolare”. Infatti, rispetto al tradizionale “modello panottico”, dall’ente si esige un controllo non più solo, o primariamente, organizzato in senso gerarchico “top-down”, ma progettato anche in modo tale che le informazioni siano convogliate “bottom-up”, sì che il controllato possa, a sua volta, vigilare sul controllore[73].

8.2 Il caso della check list

Una delle più interessanti misure di mitigazione del rischio recentemente previste dai piani nazionali anticorruzione consiste nella compilazione delle check list, il cui debutto coincide con l’adozione del p.n.a. del 2022[74].

Il contesto in cui la misura in questione ha visto la luce coincide con il periodo pandemico. Questo dato merita di essere preso in considerazione in quanto contribuisce a comprendere come la fase emergenziale, e le esigenze di celerità nelle scelte di acquisto che a tale fase si sono accompagnate, si siano tradotte in una decisa accentuazione della prospettiva del diritto amministrativo come diritto orientato a perseguire obiettivi di prevenzione e di potenziamento degli obiettivi di efficienza declinati in un’ottica funzionale all’affermazione degli obiettivi del mercato[75].

La fisionomia di questo strumento di mitigazione del rischio viene efficacemente tracciata dalla stessa Autorità anticorruzione, che nel p.n.a. 2022 ha puntualizzato che: la check list si rende utile dal momento che «i più ampi margini di discrezionalità concessi dalla normativa, comportano maggiori rischi in termini di possibili fenomeni corruttivi o di maladministration, procedure non trasparenti o comunque gestite in difformità dalle norme o dai principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario»[76].

Le check-list sono una misura «facoltativa ma raccomandabile» da inserire nei singoli p.t.p.c.t. o nella sezione anticorruzione e trasparenza del p.i.a.o., come leva «per promuovere una cultura e un approccio al controllo virtuoso, alla trasparenza, efficienza ed efficacia dei processi di acquisizione, in particolare, di infrastrutture, opere e servizi tecnici»[77].

Il loro scopo è consentire una «verifica pratica, veloce e accurata della completezza e adeguatezza degli atti, rispetto a taluni elementi principali/critici della procedura, agli agenti pubblici partecipanti a vario titolo alla stessa, agli operatori economici aggiudicatari»[78].

Il carattere «facoltativo ma raccomandabile» della misura in questione rende l’idea della propensione dell’ordinamento verso una delicata commistione tra paradigmi legali di legittimità e responsabilità e affermazione della logica del nudge. Nel caso di specie la spinta gentile del legislatore si rivolge alle amministrazioni nella loro veste di autrici della pianificazione: il nudge, dunque, non ha ad oggetto direttamente le modalità di esercizio delle funzioni di acquisto, ma l’adozione di un peculiare sistema di controllo preventivo. Il focus della misura, dunque, è esterno alla dialettica tra amministrazione e operatori economici coinvolti dalle iniziative di acquisto, e si colloca in uno spazio di indagine dell’amministrazione “su sé stessa” e sulle modalità di adozione delle decisioni da cui scaturiscono impegni di spesa.

La “raccomandazione” in merito all’adozione della check list è, a ben vedere, tutt’altro che priva di conseguenze concrete in capo alle amministrazioni che non intendano raccogliere l’invito rivolto da Anac ovvero che, pur dotandosi dello strumento della check list nei rispettivi piani anticorruzione (o nelle sezioni anticorruzione dei p.i.a.o.), non diano corso concretamente alla compilazione delle predette liste.

Tali conseguenze sembrano destinate a prodursi soprattutto sul terreno del paradigma della responsabilità civile e amministrativa della stazione appaltante. Per quanto concerne la responsabilità civile, la scelta di non aderire al sistema di “autocontrollo” predisposto da Anac si presta ad essere interpretata come sintomo della colpa d’apparato, contribuendo a incrementare le chance di risarcimento in capo agli operatori economici che si affermino lesi dalla scelta di una stazione appaltante di ricorrere ad un affidamento diretto o ad una procedura negoziata senza che, in ipotesi, sussistano i presupposti normativi per dar corso a tali procedure semplificate.

Ancora più delicato risulta il fronte della responsabilità amministrativa. In questo caso lo scenario più allarmante è quello che si configura in capo del singolo funzionario che, pur in presenza di un Piao che preveda la check list come misura di mitigazione del rischio, in concreto non proceda alla compilazione a margine di un affidamento diretto o di una procedura negoziata. Ebbene, laddove il ricorso ad una procedura semplificata sia fonte di responsabilità civile per la perdita di chance patita da un operatore economico diverso dall’affidatario della commessa, la posizione del funzionario che abbia omesso di compilare la check list rischia di rappresentare un indice presuntivo del dolo o della colpa grave con cui si è cagionato il danno (in concreto coincidente con l’esborso sostenuto dall’ente per corrispondere il risarcimento all’operatore economico). La mancata compilazione della check list, in altre parole, si presta ad essere interpretata come sintomo della consapevolezza della mancata aderenza delle scelte compiute in veste di stazione appaltante rispetto ai vincoli ordinamentali, il che a sua volta si riverbera in una maggiore esposizione alla responsabilità amministrativa (laddove, ovviamente, sul piano oggettivo siano integrati i presupposti della sussistenza del danno e del nesso causale rispetto alla condotta del funzionario). Ecco che, quindi, la retorica del superamento della paura della firma[79] e le iniziative di depenalizzazione che in vista di tale obiettivo sono state intraprese rischiano di infrangersi al cospetto della portata “colpevolizzatrice” di uno strumento che solo apparentemente risulta destinato ad operare sul mero fronte interno della “autocoscienza”.

Ma non è solo sul terreno della responsabilità che si collocano le ricadute tangibili dell’introduzione di questa misura di mitigazione «facoltativa ma raccomandabile». Lo strumento delle check list, così come qualsiasi dispositivo di controllo, non esprime effetti limitati alla emersione di eventuali criticità pregresse.

Sul piano sistematico si percepiscono delle metaforiche onde di propagazione innescate dalla misura in esame anche sul piano della natura del potere di autotutela relativo alle scelte “fotografate” dalla check list e sul fronte della cognizione giurisdizionale relativa a tali scelte.

Quanto al potere di autotutela occorre prendere atto del fatto che la check list, se compilata con approccio scevro da pregiudiziali “istinti auto-conservativi”, può rappresentare la sede in cui vengono riconosciute, e in certo senso ufficializzate, le eventuali illegittimità occorse durante la procedura o al momento della individuazione della procedura stessa. Se, dunque, la compilazione della check list diviene il momento di emersione della consapevolezza delle compiute illegittimità, è possibile che la certificazione di tale consapevolezza venga interpretata dai cultori dell’autotutela doverosa[80] come un elemento idoneo a contribuire al tramonto della connotazione discrezionale del potere in questione. Ancora una volta, dunque, la narrazione prevalente intrisa di entusiastica fiducia nell’efficienza intesa come frutto maturo della discrezionalità viene smentita da una curvatura del sistema verso scenari contrassegnati da una contrazione della discrezionalità, anche rispetto alle aree in cui si è tradizionalmente ritenuto che essa trovasse la propria massima espressione, come per l’appunto l’esercizio del potere di autotutela.

Infine, anche il sindacato giurisdizionale potrebbe risentire, in termini di dequotazione della discrezionalità del decisore, del generalizzato ricorso alle check list. Queste ultime, infatti, rappresentano documenti amministrativi su cui possono appuntarsi pretese di accesso e in funzione delle quali possono essere formulate ulteriori censure nei confronti degli atti della procedura oggetto del “check”. La check list, invero, può rivelarsi “infedele” rispetto all’effettivo operato della stazione appaltante o, al contrario, può dare atto delle eventuali scelte contra legem da quest’ultima compiute. Nel primo caso si assiste al fallimento degli obiettivi di controllo, o per meglio dire di autocontrollo, che il sistema persegue attraverso la misura delle check list. Nel secondo caso la check list fornisce all’ipotetico ricorrente una sorta di “confessione” di illegittimità, il che a sua volta si riverbera nell’attenuazione dell’onere probatorio e, sul fronte del giudice, nella riduzione dell’ambito di estensione del contenuto di accertamento insito nella sentenza di annullamento. Il processo, pertanto, anche in questa veste sembra destinato a rappresentare una appendice del procedimento, dal momento che quest’ultimo, in caso di adozione della raccomandata misura delle check list, comprende anche una peculiare (e ancora troppo sottovalutata) fase di “autocontrollo” o, per usare l’evocativo lessico fatto proprio dal p.n.a. 2022, di “controllo virtuoso”.

8.3. Il ruolo dell’intelligenza artificiale quale strumento di analisi predittiva dei comportamenti anomali: il Mepa Watch

Trattando di dispositivi di controllo non si può trascurare il ruolo dell’intelligenza artificiale[81], che ad oggi nel settore dei contratti pubblici si esprime soprattutto attraverso il sistema Mepa Watch. Quest’ultimo ha acquisito visibilità soprattutto a partire dal 2019, allorquando la Corte dei conti, Sez. controllo, ha affermato, nella relazione sul risultato del controllo sulla gestione finanziaria della Consip s.p.a. del 2019, che la prefigurata riforma del sistema degli acquisti pubblici avrebbe dovuto perseguire obiettivi di cambiamento complessivo basati su «strumenti di analisi predittiva di anomalie e comportamenti in fase di gara».

La strategia sottesa a questo approccio si fonda su due pilastri: l’approccio predittivo, che a sua volta implica l’analisi dei dati storici come presupposto per effettuare valutazioni prognostiche sulle scelte pubbliche e private coinvolte nelle dinamiche negoziali, e l’idea di un controllo diffuso che si focalizza sulle «anomalie», che evidentemente non coincidono con le più stringenti nozioni di illegittimità e (sul fronte degli operatori economici che agiscono nel mercato delle commesse pubbliche) di illiceità. Il ricorso alla ambigua nozione di comportamenti anomali riflette un approccio che identifica l’oggetto del controllo con tutte le situazioni di “devianza” da uno standard di virtuosità che trascende il rispetto delle norme sull’evidenza pubblica e pertanto si colloca in una condizione di ambigua, e non troppo rassicurante, prossimità con l’ambito del giudizio morale.

Ma non è tutto: l’indeterminatezza di cui è intrisa la nozione di anomalia si riflette anche nella scarsa puntualità nella individuazione delle conseguenze concrete del monitoraggio declinato in chiave predittiva. Non è chiaro, ad esempio, a chi competa in ultima analisi l’analisi predittiva e, soprattutto, se, ed eventualmente in che modo, gli esiti di tale analisi possano incidere sul paradigma di legittimità degli atti adottati all’esito di tale analisi.

Gli sviluppi tecnologici della prospettiva tracciata nel 2019 dalla Corte dei conti si sono presto concretizzati.

Nel bilancio del 2021 di Consip s.p.a. si dà atto della creazione dell’applicazione Mepa Watch, che consiste in un «un osservatorio analitico sul Mercato Elettronico il cui fine è quello di individuare comportamenti virtuosi e utilizzi ottimali della Piattaforma, da parte sia delle PA che degli operatori economici (OE)». In particolare, ad essere oggetto delle attività di watching sono «il comportamento delle PA nell’uso di affidamenti diretti e procedure d’urgenza, la fidelizzazione nei confronti di alcuni OE, (…) i possibili frazionamenti della spesa annuale su singoli CPV e il comportamento degli utenti che sono profilati con un doppio ruolo (PA ed OE) sulla piattaforma». Questa volta la descrizione dello strumento non si concentra nella prospettiva della individuazione delle anomalie quanto piuttosto, in positivo, nella capacità dell’applicazione di individuare «comportamenti virtuosi e usi ottimali della piattaforma». Sembra di percepire, in questo cambiamento di prospettiva, la scelta di orientare l’uso dell’applicativo di nuovo secondo il paradigma del nudge, il quale comunque sottintende, sia pure in forma non immediatamente percepibile, lo stigma nei confronti dei comportamenti diversi da quelli incentivati.

E tuttavia, a rendere il quadro ancora più delicato, vi è la persistente indeterminatezza sul contenuto dei comportamenti «virtuosi e ottimali», i quali a ben vedere altro non sono che la controfigura degli altrettanto indeterminati comportamenti «anormali»[82]. Il rapporto tra queste categorie di impronta indiscutibilmente morale e pedagogica e quelle giuridiche della legittimità degli atti e liceità dei comportamenti resta, purtroppo, in una allarmante zona di ambiguità e di ostinato disinteresse da parte di giuristi e dai cultori della scienza dell’amministrazione. Sul punto è significativo anche il fatto che l’unica sede in cui il sistema Mepa Watch viene (sinteticamente) descritto, consiste in atti relativi alla gestione finanziaria: la relazione della Corte dei conti sulla gestione finanziaria di Consip e il bilancio di quest’ultima. La sensazione è che l’esistenza di tale strumento sia resa nota soltanto in quanto esso è il frutto di investimenti pubblici che vanno necessariamente contabilizzati. Al contempo, non sembra emersa la consapevolezza delle potenzialità di controllo e quindi di indirizzo delle scelte di acquisto che tale strumento indiscutibilmente presenta, né rispetto a tali potenzialità sembra maturata in capo a Consip l’idea di dover in qualche modo rendere trasparente l’“architettura” dello strumento e le sue modalità di funzionamento. In nessun documento ufficiale viene chiarito chi ha sviluppato l’applicativo, come vengono raccolti e conservati i dati forniti dall’applicativo medesimo, se questi ultimi vengono condivisi con l’autorità di regolazione (in quanto soggetto deputato alla gestione del casellario, del sistema di rating e del meccanismo di qualificazione delle stazioni appaltanti), se concorrono a creare una sorta di dossier relativo a ciascun acquirente pubblico e di ciascun operatore economico attivo sul mercato elettronico.

È chiaro che in un sistema in cui il dato reputazionale acquisisce, sia sul fronte dell’acquirente pubblico che su quello dell’operatore economico, un rilievo crescente ai fini della sopravvivenza nel mercato, l’esistenza di un ingente “serbatoio” di dati comportamentali di incerto utilizzo e di imprecisata titolarità rappresenta un dato allarmante e tutt’altro che conforme alla entusiastica narrazione che vede nella trasparenza il totem culturale cui il sistema delle scelte pubbliche avrebbe scelto di orientarsi. Del resto, non è affatto nuovo l’accostamento al modello panottico del discutibile modo in cui le nostre politiche pubbliche hanno trattato il tema della trasparenza come strumento di controllo generalizzato finalizzato alla lotta alla corruzione[83].

8.4. Il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti

Nel contesto sinora descritto rileva anche il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, introdotto dal Codice dei contratti del 2016 ma divenuto operativo solo nel 2023[84]. La genesi di questo istituto è di per sé significativa: il diritto europeo non reca spunti relativi all’idea della necessità di un previo accreditamento delle stazioni appaltanti come condizione per l’esercizio in autonomia delle funzioni di acquisto. Invero, anche rispetto al tema contiguo della centralizzazione delle committenze[85], il legislatore sovranazionale mantiene un atteggiamento sostanzialmente agnostico: vengono riconosciuti i vantaggi della centralizzazione in termini di attivazione delle economie di scala, ma viene rimessa al legislatore la scelta di optare per un regime di spesa pubblica obbligatoriamente accentrata ovvero per il mantenimento dell’autonomia di ciascuna amministrazione portatrice del fabbisogno. A fronte di questi riconosciuti spazi di autonomia, l’ordinamento nazionale negli ultimi decenni ha scelto di percorrere la strada del progressivo esautoramento del potere di acquisto delle singole amministrazioni, sulla base di un duplice presupposto culturale.

Il primo consiste nella esaltazione del tecnicismo che connota le funzioni di acquisto, che progressivamente vedono attenuato il proprio vincolo di strumentalità rispetto alle funzioni istituzionali dell’ente per acquisire una centralità che si giustifica in ragione della vitalità del mercato delle commesse pubbliche e del rilievo intrinseco che tale mercato riveste per gli indicatori nazionali come il prodotto interno lordo.

Il secondo concerne il primato riconosciuto agli obiettivi di risparmio di spesa che, almeno in tesi, dovrebbero essere conseguiti attraverso l’aggregazione della domanda. Quest’ultima, viene imposta anche al prezzo di sacrificare l’obiettivo dell’efficienza del singolo acquisto, intesa come attitudine della prestazione acquisita a soddisfare il fabbisogno in funzione del quale si giustifica l’iniziativa di spesa. L’efficienza economica delle transazioni viene, dunque, apprezzata su ampia scala, trascurando l’impatto che le “attività di provvista” possono determinare sulla qualità delle prestazioni finali offerte alla collettività dagli enti acquirenti. La veste di acquirente sembra, in altre parole, aver fagocitato la veste istituzionale dell’ente compratore, il che chiaramente riflette una visione propensa a ipostatizzare la primazia degli obiettivi di contrazione della spesa pubblica su quelli di cura degli interessi pubblici affidati all’ente che gestisce, in coerenza con i propri fabbisogni, la procedura di acquisto.

Inoltre, l’introduzione del sistema di qualificazione rappresenta un peculiare caso di gold plating, tanto evidente quanto estraneo allo stigma che rispetto a tale fenomeno comunemente si registra. Se, infatti, il divieto di iper-regolamentazione era assurto (nella legge delega prodromica al Codice del 2016) a criterio direttivo della riforma in tema di contratti pubblici in concreto, l’accezione che si è accolta di tale divieto è stata alquanto riduttiva. I vincoli ritenuti contrastanti con tale divieto, e pertanto incostituzionali sulla scorta del parametro fornito dalla legge di delega del 2016[86], sono stati soltanto quelli che hanno espresso i propri effetti diretti sugli operatori economici e sulle loro possibilità di partecipare alle procedure di affidamento delle commesse. Di contro, nessun ostacolo ha incontrato la sovra-regolamentazione destinata ad operare sul fronte dei committenti pubblici e degli adempimenti a questi ultimi assegnati, come ad esempio le attività finalizzate ad ottenere, per l’appunto, la qualificazione e dunque il riconoscimento della capacità di esercitare funzioni di acquisto. Questo dato si spiega, ancora una volta, alla luce di una visione del fenomeno della negoziazione pubblica concentrata su obiettivi di rilancio del relativo mercato, perseguiti attraverso l’idea di una necessaria e “amministrata” professionalizzazione degli acquirenti. Il tutto sulla scorta di una sottovalutazione del legame indissolubile, tanto sul piano teorico quanto su quello pratico, tra attività strumentali e attività istituzionali.

Se, infatti, fino al recente passato non si poteva dubitare che un ente pubblico prima di essere pubblico fosse una persona giuridica dotata di piena autonomia negoziale[87], oggi questa certezza conosce una nuova stagione di crisi. E ciò, si badi bene, non quale esito di una rinnovata stagione di accentuazione della specialità pubblica, intesa come pregiudiziale astrazione del regime applicabile ai soggetti pubblici rispetto a quello proprio dei soggetti di diritto comune, bensì come conseguenza dell’affermazione di istanze efficientiste che assegnano all’autorità di regolazione del settore l’inedito compito di accertare e misurare la capacità empirica (e non certo giuridica) di gestire la procedura di gara.

Il dato giuridico – consistente nella titolarità dell’autonomia negoziale – recede, pertanto, di fronte alle preclusioni che scaturiscono dal conferimento, in capo all’Autorità anticorruzione, del ruolo di certificare l’idoneità strutturale del singolo ente a soddisfare uno standard di efficienza contrassegnato da una serie di indicatori, quelli in funzione dei quali viene espressa la valutazione.

Ebbene, tra gli indicatori in questione prevedibilmente figura la formazione e l’aggiornamento del personale, attività che verranno predisposte e, a loro volta, certificate in vista della massimizzazione delle chance di conservazione, da parte del singolo ente, di porzioni di “sovranità” sull’esercizio dell’attività di provvista. La formazione, pertanto, non si presenta più come un fine, ma come mezzo a disposizione dei soggetti pubblici per preservare la titolarità delle funzioni di acquisito in un contesto di generalizzata spinta alla centralizzazione.

Peraltro, la centralità della formazione, intesa come processo perenne che accompagna la vita professionale e personale di quanti operano per le pubbliche amministrazioni, si inscrive in un più ampio disegno di potenziamento costante delle competenze, che ha trovato il suo massimo riconoscimento nella scelta di designare il 2023 come “anno europeo delle competenze”. Nella decisione del Parlamento europeo e del Consiglio n. 936 del 10 maggio 2023 (relativa a «un Anno europeo delle competenze») si afferma che: «Per il buon funzionamento dei mercati del lavoro, le competenze devono essere comprese e valorizzate, siano esse acquisite in contesti formali, non formali o informali. L’ulteriore rafforzamento dell’identificazione e della documentazione delle competenze e l’orientamento per renderle visibili sono passi fondamentali verso una maggiore trasparenza e portabilità di tutte le competenze, incluse le competenze trasversali, come le competenze linguistiche, il pensiero critico, l’attitudine imprenditoriale, la creatività, le competenze interculturali, la capacità di lavorare in gruppo e l’alfabetizzazione mediatica». L’idea che traspare è non solo l’aspirazione verso un processo di formazione costante ma anche teleologicamente funzionale alla soddisfazione delle esigenze del mercato del lavoro e anche ispirato da una sorta di vocazione onnicomprensiva. Le competenze da valorizzare sono, infatti, di carattere eterogeneo e intercettano anche profili strettamente connessi con l’”impronta esistenziale” del singolo individuo. Il riferimento concerne soprattutto le cosiddette competenze trasversali, che altro non sono che tratti della personalità, su cui si intende attivare processi di potenziamento in virtù della loro compatibilità funzionale con le esigenze del mercato. Il carattere onnicomprensivo e totalizzante degli obiettivi di formazione permanente emerge anche dalla più recente raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 6 giugno 2022 (raccomandazione su un approccio europeo alle microcredenziali per l’apprendimento permanente e l’occupabilità) in cui si legge che «un’efficace cultura dell’apprendimento permanente è fondamentale per garantire che tutti abbiano le conoscenze, le abilità e le competenze necessarie per prosperare nella società, nel mercato del lavoro e nella loro vita personale». Anche questo documento tradisce, forse in forma ancora più evidente, la medesima impostazione ideologica. L’obiettivo ispiratore è l’organizzazione di un sistema di long life learning[88] che consenta alle persone di prosperare, ossia di sfruttare a proprio vantaggio le dinamiche di mercato. Il tutto nel più ampio, e per certi versi inquietante, contesto di una crescita che coinvolge anche la vita personale degli individui inseriti nei processi formativi, sulla scorta di un evidente presupposto di fondo: l’identificazione tra realizzazione personale e fruttuosa collocazione nel mercato del lavoro.

Tornando al tema della qualificazione delle stazioni appaltanti, occorre prendere in considerazione il fatto che tra gli indicatori di idoneità all’acquisto autonomo vi è anche il dato relativo al «numero di gare con esito non positivo» rispetto al numero di gare svolte. Anche questo elemento denota l’adozione di una logica di esaltazione degli obiettivi di efficienza e risultato[89], non più assiologicamente interrelati con il più ampio fine della soddisfazione del fabbisogno pubblico originario[90]. È chiaro, infatti, che tra le gare con esito «non positivo» dovranno essere annoverate quelle in cui la stazione appaltante eserciti la facoltà, riconosciuta anche dal Codice del 2023, di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto. Anche questo spazio di apprezzamento discrezionale sembra destinato a conoscere una progressiva contrazione, in ragione del fatto che l’esercizio della facoltà in questione compromette le performance di “buon compratore” e, per l’effetto, le chance di ottenere la qualificazione.

Lo stesso meccanismo si produce anche sul campo del potere di autotutela. È chiaro, infatti, che anche l’annullamento o la revoca dell’aggiudicazione o degli atti della procedura determinano una situazione di «esito non positivo» della gara, ovviamente se si sceglie di indentificare aprioristicamente l’esito positivo con la stipula del contratto. Ecco che, quindi, lo scenario che si profila è quello di un potere di autotutela il cui esercizio rischia di essere condizionato dall’impatto che l’evento della mancata stipula esprime nell’ambito della valutazione compiuta da Anac in sede di qualificazione. Il tutto, peraltro, in un più ampio contesto in cui si registrano spinte contrastanti: se, infatti, lo strumento delle check list rappresenta un dispositivo di controllo destinato a trovare nelle iniziative di autotutela il proprio naturale sbocco concreto, il sistema di qualificazione, di contro, disincentiva ogni decisione non funzionalmente orientata al perfezionamento o alla conservazione del contratto. Tra gli interessi da ponderare nell’esercizio della discrezionalità propria del potere di autotutela deve, pertanto, essere considerato anche l’interesse dell’ente al conseguimento o mantenimento della qualificazione, e di tale arricchita ponderazione si dovrebbe dare atto, proprio in un’ottica di effettiva trasparenza dei processi decisionali, anche nella motivazione dell’eventuale provvedimento di secondo grado.

Inoltre, tra le gare ad «esito non positivo» certamente figurano le procedure andate deserte. Ebbene, l’idea di fondo che presiede alla ricaduta reputazionale negativa di una gara deserta consiste nella presunzione che ritiene la mancata risposta del mercato addebitabile alla singola stazione appaltante e alla sua scarsa capacità di esercitare efficacemente le tecniche di acquisto.

Questa inferenza sconta almeno due criticità, collegate tra loro. In primo luogo, non tiene conto del fatto che le scelte del mercato non sono diretta ed esclusiva conseguenza dei contenuti della singola legge di gara, ma risentono in modo significativo delle caratteristiche del prodotto o del servizio oggetto del fabbisogno pubblico (ivi compreso il volume dell’iniziativa di acquisto) o dei prezzi delle materie prime coinvolte nelle prestazioni di lavori oggetto della procedura ad evidenza pubblica[91]. Al contempo ad essere obliterato è il fatto che a poter causare lo scarso interesse degli operatori economici nei confronti di una specifica procedura di gara potrebbe verosimilmente essere il riflesso di una più generale diffidenza rispetto al sistema delle commesse pubbliche globalmente considerato, non solo per le sue opacità ma anche per lo sproporzionato investimento di risorse di tempo ed energie che la partecipazione ad una procedura di gara tuttora implica. Ecco che, quindi, la penalizzazione della singola stazione appaltante in conseguenza di una procedura deserta rischia di rappresentare una sorta di strumento di “giustizia sommaria”, che allontana la disincantata presa d’atto delle più profonde ragioni della sempre minore appetibilità delle commesse pubbliche, soprattutto quelle (numericamente maggiori) di modesto valore economico.

8.5. I meccanismi di rating

Le considerazioni sinora svolte in merito all’affermazione di paradigmi di controllo basati su spinte gentili di carattere sostanzialmente “pedagogico” trovano conferma anche nell’articolato sistema di rating che in materia di contratti pubblici trova il suo prevalente (ma non esclusivo) ambito di applicazione.

In questa prospettiva, occorre innanzitutto menzionare la leva incentivante rappresentata dalla riduzione cauzione che, ai sensi dell’art. 106 comma 8 del Codice, la stazione appaltante dispone fino ad un massimo del 20% per gli operatori economici in possesso del rating di legalità. Sul punto occorre segnalare un importante tratto di discontinuità rispetto al Codice previgente, che prevedeva[92] che il rating di legalità (assieme al rating di impresa) rappresentasse un criterio premiale direttamente incidente sui punteggi assegnati alle offerte e dunque sulle sorti della competizione. Il d.lgs. n. 36/2023 ha, invece, escluso che il rating possa incidere sulla valutazione delle offerte, con ciò optando per una più netta emancipazione dei dati inerenti alle qualità soggettive dell’offerente rispetto a quelli direttamente afferenti ai contenuti delle offerte. La scelta del legislatore del 2023 è stata, dunque, quella di mantenere un dispositivo di premialità connesso al possesso del rating declinando tale premialità in termini di attitudine a incidere sull’entità della cauzione a carico dell’offerente.

Sul piano dei presupposti per il conseguimento del rating la normativa di riferimento è rappresentata ancora dall’art. 5-ter del d.l. n. 1/2012 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), che assegna all’Autorità Antitrust il compito di riconoscere il predetto rating alle imprese che ne abbiano fatto richiesta e che rispettino le seguenti condizioni: un fatturato minimo di due milioni di euro, l’iscrizione nel registro delle imprese da almeno due anni alla data della domanda e il possesso requisiti previsti dal Regolamento attuativo di cui alla delibera AGCM del 12 novembre 2012, n. 13779.

Una prima osservazione concerne il carattere paradossale del meccanismo delineato dal Codice dei contratti: la riduzione della cauzione viene, infatti, prevista per operatori economici che vantano un alto fatturato e una risalente presenza sul mercato. Ecco, quindi, che il rating di legalità finisce per conferire un vantaggio economico (la riduzione della cauzione e dunque la più agevole partecipazione alle procedure di gara) ai soggetti che di tale vantaggio “hanno meno bisogno”. L’incentivo, dunque, non è funzionalmente allineato agli obiettivi di favor partecipationis relativi in particolare alle P.m.i.[93]. Inoltre, a risultare poco chiaro è anche il nesso che in ipotesi dovrebbe sussistere tra il valore della legalità, cui il meccanismo di rating dovrebbe essere funzionale, e la scelta di escludere dal meccanismo premiante le piccole o “giovani” imprese. Per gli operatori economici che vantano importanti fatturati e una anzianità almeno biennale sembra, in altre parole, aleggiare una sorta di “pregiudizio positivo”, che ancora una volta smentisce i nobili ideali di cui la disciplina sui contratti pubblici si ammanta, nel caso di specie la valorizzazione delle piccole realtà imprenditoriali.

Per quanto concerne il possesso dei requisiti indicati dal Regolamento attuativo dell’AGCM, il sistema prevede un ranking per “stellette”, nel quale si distinguono requisiti di base necessari per il conseguimento di una “stelletta” e requisiti ulteriori in grado di far conseguire un upgrade. Tra i requisiti in grado di far conseguire un più alto livello di rating si segnalano: l’adesione a programmi di social corporate responsability[94], l’adesione a protocolli di legalità sottoscritti dal Ministero dell’Interno o dalle Prefetture, l’iscrizione nelle white list. Il quadro che ne deriva denota come il meccanismo di rating sia in parte disancorato dall’obiettivo di promozione della legalità che, in base al dato lessicale, dovrebbe rappresentare la ragion d’essere del meccanismo medesimo. L’adozione di programmi di responsabilità sociale dell’impresa, infatti, non comprova nulla in termini di legalità, cionondimeno viene positivamente considerato ai fini del rating di legalità, con una forzatura che dimostra non solo la volontà di introdurre nelle dinamiche concorrenziali valutazioni di natura sostanzialmente etica ma anche un atteggiamento di “pudore” che porta a dissimulare tali valutazioni attraverso il ricorso al parametro, ritenuto più oggettivo e rassicurante, della legalità.

Oltre al rating di legalità il nuovo Codice dei contratti ripropone il controverso istituto del rating di impresa, previsto anche dal d.lgs. n. 50/2016, ma mai divenuto operativo a causa della mancata approvazione delle relative linee guida Anac, pur circolanti in forma di bozze.

L’art. 109 del d. lgs. n. 36/2023 assegna ad Anac la gestione di un sistema digitale di monitoraggio delle prestazioni, fondato su «requisiti reputazionali valutati sulla base di indici qualitativi e quantitativi, oggettivi e misurabili, nonché sulla base di accertamenti definitivi, che esprimono l’affidabilità dell’impresa in fase esecutiva, il rispetto della legalità, e degli obiettivi di sostenibilità e responsabilità sociale». La disciplina operativa è rimessa all’elaborazione di Anac, che dovrà definire gli elementi del monitoraggio, le modalità di raccolta dei dati e il meccanismo di applicazione del sistema per incentivare gli operatori al rispetto dei principi del risultato e di buona fede e affidamento, bilanciando questi elementi con il mantenimento dell’apertura del mercato, specie con riferimento alla partecipazione di nuovi operatori.

Ad oggi, dunque, non sono disponibili informazioni concrete da cui desumere quali saranno i parametri in funzione dei quali verranno effettuate le valutazioni in merito al rating. La maggiore incognita riguarda il grado di fedeltà che il nuovo sistema di rating osserverà rispetto ai parametri che Anac, nel regime previgente, aveva individuato. Tra questi i più significativi consistevano nel carattere penalizzante della mancata risposta al soccorso istruttorio e nell’esito negativo di un contenzioso relativo alla fase di affidamento o di esecuzione. Nel primo caso si assiste ad una evidente torsione teleologica dell’istituto: il soccorso istruttorio, da strumento di superamento del formalismo e degli effetti collaterali dello stesso in termine di ampiezza della competizione, sembra assumere una connotazione di doverosità, a sua volta riconducibile all’orizzonte assiologico dell’affidamento declinato in chiave bidirezionale (a dispetto della strutturale asimmetria che contraddistingue i rapporti tra amministrazione e operatore economico)[95]. Per quanto concerne gli esiti del contenzioso, la penalità prevista dalle bozze di linee guida Anac riflette un’idea della tutela giurisdizionale come risorsa limitata rispetto alla quale si impone, in capo ai fruitori del presunto “servizio giustizia”[96], un atteggiamento di prudenza e parsimonia, presidiato per l’appunto da meccanismi di penalità. Il tutto nel più ampio quadro di una tensione morale che considera la collaborazione e la “non conflittualità” come valori in sé, verso cui indirizzare i protagonisti della dialettica propria delle attività negoziali.

Nella relazione al Codice si osserva che l’introduzione di questo sistema reputazionale è stata caldeggiata soprattutto dagli economisti che hanno partecipato fattivamente alla redazione della proposta di Codice, in considerazione dell’esito positivo che esso ha mostrato nell’affidamento degli appalti pubblici soprattutto negli Stati Uniti. D’altra parte, la stessa relazione al Codice si premura subito di evidenziare la necessità che il funzionamento di un simile sistema si coordini con il principio di libera circolazione e con il principio di concorrenza, e in tal senso c’è chi ha messo in luce il rischio che anche per tale modello vi sia una chiave di lettura biopolitica, nella misura in cui questo modello di governamentalità si svela non distante dal tema del terzo settore e del discorso sull’impresa sociale. Stare sul mercato qui significa stare in quello spazio attraversato da miriade di flussi di potere, non solo economici, ma anche culturali, politici, istituzionali, con il rischio che questo processo di attivazione sia largamente implicato nella generale attenzione del mercato stesso alla domanda e alla personalizzazione dei consumi, piuttosto che (o almeno contemporaneamente al …) movimento di socializzazione e democratizzazione della politica[97].

9. Conclusioni

Al termine di una densa analisi degli attuali problemi dell’amministrazione pubblica italiana, Marco Cammelli ha accostato il rapporto tra riformatori e amministrazione da riformare a quello tra medici e malati indicato da Georges Canguilhem, maestro proprio di Foucault: «i medici vogliono curare, i malati vogliono guarire»[98].

Ecco un’ottima sintesi di come i sistemi di veridificazione relativi alle riforme amministrative degli ultimi anni, ispirati anche da politiche di anticorruzione e trasparenza, siano progressivamente divenuti una struttura profonda di sapere/potere spesso autoreferenziale, banalizzando l’amministrazione pubblica.

Per tanto, troppo, tempo questo modello si è accompagnato, sul piano dei paradigmi organizzativi e di attività amministrativa, a una controvertibile centralità del New Public Management, che ha assunto le forme del neo-weberismo[99], ovvero della burocrazia liberale connotata da afflato economicistico. Segni di persistenza di queste tendenze di largo raggio tuttora si hanno, anche nelle politiche anticorruzione, ma certamente è da guardare con favore il recente tentativo del legislatore di rimettere al centro l’amministrazione e la “regola del caso” – di cui al principio del risultato – nel settore nodale dei contratti pubblici, riducendo la regolazione di Anac. Anche in questo caso, peraltro, non è detto che la “demitizzazione della concorrenza” di cui tale principio dovrebbe farsi portatore, a leggere almeno la Relazione al Codice del 2023, non finisca per rappresentare una battaglia tutta interna all’approccio neoliberale, collocando il principio di strumentalità delle forme, che nella prima giurisprudenza sembra porsi a corollario del risultato, come grimaldello di una lettura più neoliberale alla Hayek che ordoliberale. Di nuovo, il legislatore nazionale sembra essere in questo senso più realista del re, e superare l’approccio europeo dell’economia sociale di mercato. La partita a questo punto si giocherà, a livello di politiche attuative e giurisprudenziali, sul modo, l’entità e la misura della prospettata “demitizzazione della concorrenza” rispetto ad altri valori orizzontali (lavoro, ambiente, etc.), quanto ai fini, e quanto ai mezzi su un accorto e prudente impiego dell’algoritmo, affinché non divenga esso stesso fine, in questa nuova fase di sapere che si fa potere.

Non sembra un caso, a proposito di regimi di veridizione, che tra i protagonisti del XVIII-XIX secolo della originaria svolta dei rapporti tra economia e diritto pubblico, sulla base della domanda «se c’è un’economia politica, che ne è allora del diritto pubblico?», vi siano pensatori come Beccaria e il già richiamato Bentham.

Nel primo, in particolare, il famoso principio della dolcezza delle pene non ha nulla a che vedere con un cambiamento della sensibilità collettiva, ma delinea un regime di veridizione che evidenzia come il governo abbia ormai a che fare con «la sottile pellicola fenomenica degli interessi»[100]. Autori come Gary Becker ritornano a loro, quando più di recente si trovano ad affrontare il problema dei costi della pratica giudiziaria, superando la soluzione di tipo legalista e sviluppando la chiave utilitaristica nell’idea neoliberale di intervenire nel mercato sull’offerta del crimine, tenendo conto che l’enforcement è costoso. Si supera così non solo in modello della società legale, ma anche di quello disciplinare, richiamato di recente con riguardo al tema dell’anticorruzione[101], e in cui si prospetta non già l’assoggettamento dell’individuo, ma forme di intervento di tipo “ambientale”.

Le politiche pubbliche degli ultimi anni in tema di anticorruzione svelano spesso questo approccio, nella misura in cui dilatano – spesso con atti di soft law – svariati regimi veridizionali di disciplinamento, e al contempo li rimodellano entro paradigmi efficientisti e di costante validazione attraverso meccanismi di rating e misurazione. In particolare, il nuovo Codice dei contratti pubblici offre più di un esempio in tal senso, svelando al fondo una contraddizione non risolta: il modello dell’economia sociale di mercato, che innerva i gangli dei Trattati europei e a cascata permea di sé anche le direttive in materia di contratti pubblici, costituisce un reale punto di svolta o piuttosto, secondo quelle idee che considerano criticamente gli ordoliberali in un ceppo comune coi neoliberali statunitensi a là Friedman, ripropongono un modello di liberalismo autoritario[102] di «Stato forte ed economia sana», per dirla con Carl Schmitt, contro il quale il giurista deve provare a porre dei freni?[103]

La domanda è retorica, almeno per gli autori di questo testo.

  1. Seppure nell’ambito di una riflessione comune, i paragrafi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9 sono di G. Tropea, i paragrafi 8.1, 8.2, 8.3, 8.4, 8.5 sono di A. Giannelli.
  2. M. Delsignore, M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, pp. 61 ss.
  3. Un ventennio a livello globale, prendendo come punto di partenza la convenzione di Merida del 2003.
  4. E. Carloni, L’anticorruzione. Politiche, regole, modelli, il Mulino, Bologna, 2023.
  5. Piano integrato di attività e di organizzazione, in cui fa capolino il riferimento al concetto neoliberale di «capitale umano», tema sul quale v. infra.
  6. M. Delsignore, M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, cit., p. 70.
  7. M. Weber, Economia e società, trad. it., Edizioni di comunità, Milano, 1961, II, p. 289; modello poi ripreso da H. Simon, Il comportamento amministrativo, trad. it., il Mulino, Bologna, 1967.
  8. Cfr. da ultimo M. Falcone, Ripensare il potere conoscitivo pubblico tra algoritmi e big data, Editoriale scientifica, Napoli, 2023.
  9. M. Foucault, Il faut défendre la société, trad. it., Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano, 2010, p. 33.
  10. L. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2013, pp. 395 ss.
  11. Sul tema, se si vuole, G. Tropea, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023.
  12. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, II Ed., Einaudi, Torino, 2000.
  13. Il punto è evidenziato da P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica dalla razionalità neoliberista, trad. it., DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 81 ss.
  14. A. de Tocqueville, La democrazia in America, trad. it., Rizzoli, Milano, 1982, p. 709.
  15. J. Bentham, Manual of Political Economy, in W. Stark (a cura di), Jeremy Bentham’s Economic Writings, vol. I, The Royal Economic Society, London, 1952, p. 224.
  16. In particolare, il tema della governamentalità liberale verrà impostato originariamente in M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 240 ss.; costituirà poi l’oggetto specifico dell’intero corso dell’anno successivo: M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978- 1979), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2005.
  17. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), cit., p. 98.
  18. M. Foucault, Nascita della biopolitica, Corso al Collège de France (1978-1979), cit., p. 42.
  19. P. Miller, N. Rose, Political Power beyond the State: Problematics of Government, in The British Journal of Sociology, 1992, p. 175, citati da V. Pinto, Un nuovo immaginario: l’amministrazione dell’evidenza, in Riv. di Studi Sociali sull’immaginario, 2014, pp. 8-9.
  20. V. Pinto, Un nuovo immaginario: l’amministrazione dell’evidenza, cit., p. 9.
  21. M. Cafagno, Risorse decisionali e amministrazione difensiva. Il caso delle procedure contrattuali, in Dir. amm., 2020, p. 38.
  22. Sul tema, da ultimo, G. Corso, M. De Benedetto, N. Rangone, Diritto amministrativo effettivo. Una introduzione, il Mulino, Bologna, 2022.
  23. S. Valaguzza, Nudging pubblico vs. pubblico: nuovi strumenti per una regolazione flessibile di Anac, in Riv. della regolazione dei mercati, 2017, pp. 91 ss.
  24. G. Morbidelli, Linee guida dell’Anac: comandi o consigli?, in Dir. amm., 2016, pp. 273 ss.
  25. Cfr. Piano Nazionale Anticorruzione 2019.
  26. Cfr. d.l. n. 32/2019, d.l. n. 76/2020 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), d.l. n. 77/2021 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure).
  27. G. Morbidelli, Linee guida dell’Anac: comandi o consigli?, cit., p. 294.
  28. N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari, 2001.
  29. M. Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1957, trad. it., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976.
  30. F. Fracchia, M. Occhiena, Le norme interne: potere, organizzazione e ordinamenti. Spunti per definire un modello teorico-concettuale applicabile anche alle reti, ai social e all’intelligenza artificiale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020.
  31. G. Gometz, Le regole tecniche. Una guida refutabile, Ets, Pisa, 2008.
  32. A. Romano Tassone, Amministrazione pubblica e produzione di certezza: problemi attuali e spunti ricostruttivi, in Dir. amm., 2005, pp. 867 ss.
  33. R. Bin, Critica della teoria delle fonti, FrancoAngeli, Milano, 2021, p. 31.
  34. L. De Lucia, La costituzionalizzazione del diritto amministrativo italiano nella crisi economica e istituzionale, in Pol. dir., 2019, p. 25.
  35. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità, Feltrinelli, Milano, 2011.
  36. M. Brigaglia, Potere. Una rilettura di Michel Foucault, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019.
  37. R. Sacchi, A. Toffoletto (a cura di), Esiste uno “stile giuridico” neoliberale?. Atti dei seminari per Francesco Denozza, Giuffrè, Milano, 2019.
  38. M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Macerata, 2017.
  39. G. Tropea, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, cit., pp. 207 ss.
  40. Cfr. E. Carloni, Misurare la corruzione? Indicatori di corruzione e politiche di prevenzione, in Pol. dir., 2017, pp. 445 ss.
  41. Cfr. supra nota 19 e nota 20.
  42. Direttiva del 23 marzo 2023 reperibile sul sito funzionepubblica.gov.it.
  43. M. Ramajoli, Introduzione, in A. Marra, M. Ramajoli (a cura di), Università e anticorruzione, Giappichelli, Torino, 2022, XI.
  44. D. Della Porta, A. Vannucci, La corruzione come sistema. Meccanismi, dinamiche, attori, Feltrinelli, Bologna, 2021.
  45. La cui ascendenza nel dibattito filosofico-giuridico è ora individuata da T. Greco, Le leggi della fiducia, Laterza, Bari-Roma, 2021.
  46. M. Galletti, S. Vida, Libertà vigilata. Una critica del paternalismo libertario, If press, Roma, 2018, pp. 349-350.
  47. Cfr. Annuario AIPDA 2019, Quali saperi servono alla pubblica amministrazione? Selezione, valorizzazione e tutela della professionalità pubblica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020. Sul tema cfr. anche R. Bin, Legge e amministrazione, in Le Regioni, 1, 2023, p. 11.
  48. AA.VV, All’indice. Critica della cultura della valutazione, in Aut Aut, Vol. 360, 2013; V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli, 2019.
  49. Convertito in legge n. 113/2021 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, recante misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia).
  50. E. Carloni, A. Nieli, Bagliori al tramonto. I piani di prevenzione della corruzione tra contrasto della criminalità e assorbimento nel piano integrato, in istituzioni del federalismo, 2022, p. 149.
  51. P.A. Rovatti, Il soggetto che non c’è, in M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 231.
  52. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 2014.
  53. E. Carloni, Il paradigma trasparenza. Amministrazioni, informazione, democrazia, il Mulino, Bologna, 2022.
  54. Byung-Chul Han, La società della trasparenza, Feltrinelli, Milano, 2014.
  55. Byung-Chul Han, Psicopolitica, Feltrinelli, Milano, 2016.
  56. Cfr., ormai tra le tante, Cons. St., 4 febbraio 2020, n. 881.
  57. G. Tropea, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, cit., pp. 231 ss.
  58. Coglie questo aspetto M. Falcone, Ripensare il potere conoscitivo pubblico tra algoritmi e big data, cit., p. 55.
  59. Sul welfare biopolitico cfr. F. Ewald, L’État Providence, Grasset, Paris, 1986; J. Donzelot, L’invention du social, Fayard, Paris, 1984; R. Castel, Les métamorphoses de la question salariale, Fayard, Paris, 1996; P. Rosanvallon, La crise de l’État Providence, Seuil, Paris, 1981.
  60. Sul punto cfr. B. Ponti, Attività amministrativa e trattamento dei dati personali. Gli standard di legalità tra tutela e funzionalità, FrancoAngeli, Milano, 2023.
  61. Corte giust., sentenza 22 settembre 2015, C- 425/2015, Silvan/Commissione, ECLI:EU:F:2015:1063.
  62. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica dalla razionalità neoliberista, cit., p. 319.
  63. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica dalla razionalità neoliberista, cit., p. 317.
  64. Intervento di E. Carloni al Convegno su Equità, efficienza ed etica nella decisione, Milano, 8 giugno 2023, ancora inedito.
  65. Annuario AIPDA 2019, Quali saperi servono alla pubblica amministrazione? Selezione, valorizzazione e tutela della professionalità pubblica, cit.
  66. M. Cafagno, Risorse decisionale e amministrazione difensiva. Il caso delle procedure contrattuali, in Annuario AIPDA 2019, cit., p. 55
  67. G. Agamben, La medicina come religione, in www.quodlibet.it, 2020.
  68. B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Feltrinelli, Milano, 1995.
  69. Linee guida Anac del 2019, quelle più recenti del 2023, adottate in seguito al d.lgs. n. 24/2023.
  70. D.U. Galetta, P. Provenzano, Il whistleblowing come strumento di prevenzione della corruzione e dell’illegalità nella P.A., in federalismi.it, 2020.
  71. Garante privacy, parere n. 215/2019, punto 1.
  72. Cons. St., parere 4 marzo 2020, n. 615.
  73. Ci si riferisce, ancora, al whistleblowing di cui all’art. 6 commi 2 bis, 2 ter e 2 quater d.lgs. n. 231/2001.
  74. Anac, Piano Nazionale Anticorruzione 2022, Delibera n. 7 del 17 gennaio 2023.
  75. Cfr., se si vuole, G. Tropea, A. Giannelli, L’emergenza pandemica e i contratti pubblici: una “semplificazione” in chiaroscuro, tra misure temporanee e prospettive di riforma strutturale, in Munus, 2020, pp. 309 ss.
  76. Anac, Piano Nazionale Anticorruzione 2022, cit., p. 133.
  77. Anac, Piano Nazionale Anticorruzione 2022, cit., p. 133.
  78. Anac, Piano Nazionale Anticorruzione 2022, cit., p. 133.
  79. Basti sul punto la lettura dell’emblematico art. 2 del Codice dei contratti pubblici del 2023, dedicato al principio della fiducia.
  80. Cfr. M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; C. Micciché, L’autotutela necessaria e i poteri sostitutivi su iniziativa degli interessati: tra partecipazione e organizzazione, in federalismi.it, 2022.
  81. Il tema in pochi anni ha ricevuto tantissime trattazioni da parte della dottrina. Per un primo bilancio si rinvia, per tutti, a L. Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, il Mulino, Bologna, 2023; A. Corrado, I nuovi contratti pubblici, intelligenza artificiale e blockchain: le sfide del prossimo futuro, in federalismi.it, 2023.
  82. Di nuovo fondamentale M. Foucault, Gli anormali, Corso al Collège de France (1974-1975), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2017.
  83. D.U. Galetta, Trasparenza e contrasto della corruzione nella pubblica amministrazione: verso un moderno panottico di Bentham?, in Dir. soc., 2017, pp. 43 ss.
  84. Art. 63 d.lgs. n. 36/2023. Sul tema cfr. M. Macchia, La qualificazione delle amministrazioni appaltanti, in Giorn. dir. amm., 1, 2017, p. 50.
  85. A. Giannelli, Il PNRR come opportunità, mancata, per rileggere in chiave critica il progressivo (ma non inesorabile) accentramento delle funzioni di acquisto, in Dir. amm., 2022, pp. 746 ss.
  86. Cfr. l. n. 11/2016, che all’art. 1, co. 1, lett. a) individua come primo criterio direttivo: «il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive».
  87. M.S. Giannini, Autonomia (Teoria generale e diritto pubblico), in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1959, pp. 366 ss.
  88. Sul c.d. lifelong learning come processo di “soggettivizzazione” biopolitico cfr. AA.VV., Foucault and Lifelong Learnig. Governing the Subject, Routledge, London-New York, 2008.
  89. Art. 1 d.lgs. n. 36/2023.
  90. E qui si marca una forte deviazione rispetto alla ratio del suddetto art. 1 d.lgs. n. 36/2023, almeno se considerato come il prodotto di una linea culturale che ha collegato il risultato alla soddisfazione dei bisogni. Cfr., per tutti, L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l’arte di amministrare), in Dir. proc. amm., 2005, pp. 1 ss.
  91. Cfr. sul tema M. Cafagno, Lo Stato banditore. Gare e servizi locali, Giuffrè, Milano, 2001.
  92. Art. 95, comma 13, d.lgs. n. 50/2016.
  93. In questi termini si era espresso, sotto la vigenza del Codice del 2016 che configurava il rating di legalità come criterio premiante, anche il Consiglio di Stato, rilevando come «a meno che la stazione appaltante non sappia già, nella predisposizione del bando di gara o della lettera di invito, che alla procedura potranno partecipare solo imprese potenzialmente idonee ad avere il rating, è opportuno che, per il suo utilizzo, vangano introdotte compensazioni per evitare di penalizzare imprese estere e/o di nuova costituzione e/o carenti del previsto fatturato, consentendo a tali imprese di comprovare altrimenti la sussistenza delle condizioni o l’impiego delle misure previste per l’attribuzione del rating».
  94. Si pensi al pensiero di Zamagni, secondo il quale l’impresa civilmente responsabile è quella che si adopera, con le risorse a sua disposizione, per accelerare il passaggio da un assetto istituzionale estrattivo ad uno di tipo inclusivo. Cfr. L. Bruni, S. Zamagni, L’economia civile, il Mulino, Bologna, 2015.
  95. Ma in linea con una pericolosa china illiberale cui potrebbero portare certe esegesi “collaborative” e reciprocizzanti degli artt. 2 e 5 del Codice dei contratti pubblici del 2023.
  96. Per una critica G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Esi, Napoli, 2015.
  97. L. Bazzicalupo, Dimensioni politiche dell’impresa sociale, in Impresa sociale, 2008, pp. 63 ss.
  98. M. Cammelli, Amministrazione e mondo nuovo: medici, cure, riforme, in C. Barbati, M. Dugato, G. Piperata (a cura di), Amministrazioni pubbliche e nuovi mondi. Scritti scelti, parte I, il Mulino, Bologna, 2019, p. 83.
  99. R. Ursi, Le stagioni dell’efficienza. I paradigmi giuridici della buona amministrazione, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2016, p. 349.
  100. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 53.
  101. L. De Lucia, La costituzionalizzazione del diritto amministrativo italiano nella crisi economica e istituzionale, cit.
  102. Così, da ultimo, C. Atzeni, Liberalismo autoritario La crisi dell’Unione europea a partire dalle riflessioni di Hermann Heller, Mucchi Editore, Modena, 2022.
  103. A. Sandulli, Il ruolo del diritto in Europa. L’integrazione europea dalla prospettiva del diritto amministrativo, Franco Angeli, Milano, 2017.

Giuseppe Tropea

Professore Ordinario di Diritto Amministrativo nella Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.

Annalaura Giannelli

Professore Associato di Diritto Amministrativo nella Università degli Studi "Magna Graecia" di Catanzaro.