Complessità organizzative, tecnica e forme di responsabilità fra mito e realtà

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3/2024

Complessità organizzative, tecnica e forme di responsabilità fra mito e realtà

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Nell’era della tecnica il concetto di responsabilità tende a perdere di attualità o, quanto meno, deve essere riformulato: è l’esito dell’indagine serrata sul significato delle parole-chiave o locuzioni quali “organizzazione”, “complessità”, “complessità organizzativa”. La tecnica è il luogo e il mondo entro cui le organizzazioni sono progettate e messe in funzione.


Organizational complexity, techniques and forms of responsibility between myth and reality
In the technique era, the concept of responsibility tends to lose its relevance or, at the very least, must be reformulated: it is the outcome of the intense investigation into the meaning of keywords or phrases such as “organization”, “complexity”, “organizational complexity”. The technique refers to the environment in which the organization, which is a technical apparatus, is designed and operates through its numerous actors.
Sommario: 1. Introduzione al problema.- 2. Questioni di fondamento filosofico: significato e ontologia dell’organizzazione.- 3. Questioni di fondamento filosofico: organizzazione e complessità organizzative.- 4. Questioni di fondamento filosofico: organizzazione e tecnica.- 5. Questioni di fondamento filosofico: i valori della tecnica.- 6. Questioni di teoria politica: organizzazione, tecnica e agganci normativi.- 7. Questioni di teoria politica: ancóra sulla responsabilità.- 8. Questioni di teoria politica: complessità, controlli e accudimento degli apparati pubblici.- 9. Questioni di diritto: la destinazione della politica al tramonto.- 10. Questioni di diritto: predittività e inadeguatezza.- 11. L’esito finale: il mito della responsabilità.

1. Introduzione al problema

Il titolo del lavoro è insolito e scontato (ma anche sconfortante) nel contempo. Lo è per non meno di due ragioni. La prima: il lavoro in questione è rivolto al mondo del diritto e ai suoi operatori, ma di diritto si parla poco. In secondo luogo, la sua parte preponderante riguarda un argomento alieno dal diritto, che però ha portata propedeutica agli accenni che propriamente giuridici sono[1].

Ciò potrebbe apparire contraddittorio, ma tale non è. Infatti, una contraddizione del tipo “A & -A” (i.e.: piove e non piove) v’è davvero se e solo se si è al cospetto del medesimo presupposto. Lo dice testualmente Aristotele quando nel libro IV della sua Metafisica[2] enuncia la βέβαιοτάτη ἀρχή (bebaoitate arché), altrimenti detta principium firmissimus (“βέβαιος” significa saldo, stabile, certo), di cui si danno almeno tre formulazioni: «è impossibile che la stessa cosa appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto»; «è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia»; «se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto, e se un’opinione che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie».

Dunque nessuna contraddizione. Qui di séguito vediamo il perché. Osservando che il perché è tutt’altro che semplice da liquidare.

2. Questioni di fondamento filosofico: significato e ontologia dell’organizzazione

Tralasciando il riferimento alla realtà[3] presente nel suo titolo e mettendo sullo sfondo la relativa definizione, conviene muoverci entro un contesto altro, che, se semplifica i termini del discorso, ha il pregio di essere utile allo scopo e tutt’altro che banale. Di qui il salto diretto al significato di “organizzazione”. Esso è ed è stato ampiamente investigato; cosí come pure lo è cosa un’organizzazione è[4]. Di qui il rapporto fra i relativi usi linguistici de dicto e de re[5].

Quanto al significato – modalità de dicto – “organizzazione” significa alla lettera né piú, né meno che strumento. L’ètimo è chiaro e coincide con “ὄργανον” (organon), nome greco che ne individua il sinonimo per identità. È bene rammemorarne l’ascendenza: per parlare rettamente e correttamente del mondo bisogna mettere a posto e a punto il linguaggio e costruire validi percorsi inferenziali. È questo il problema messo in questione da Aristotele nei suoi sei libri sulla logica racchiusi in guisa di silloge dal suo allievo e successore Teofrasto proprio sotto il nome Organon.

“Organizzazione” deriva dunque da “órganon”. Esso rimanda súbito a ἔργον (érgon), termine polisemico che, a sua vòlta, e di vòlta in vòlta, può significare “opera”, “azione”, “esecuzione”, “combattimento” (curiosa ed emblematica l’analogia con πόλεμοσ (pòlemos) – e dunque “guerra”, “battaglia”, “contesa” – di ascendenza eraclitea), “impresa”, “ciò che spetta a qualcuno di fare”, “dovere”, “prodotto del lavoro”, “lavoro”, “opera fatta”. Il termine non deve essere confuso con ενέργεια (enérgeia) – peraltro con esso strettamente interconnesso –, che ne rappresenta, attraverso la particella “en”, una caratterizzazione intensiva, che esprime la dinamicità attraverso la quale si perviene a un risultato tramite l’applicazione di una forza (c.d. “moto-a-méta”)[6].

Ferme la complessità dei disegni organizzativi astrattamente determinabili e le loro sfumature attuabili, le relative tipologie possono essere ricondotte a quattro modelli-base denominati “funzionale”, “divisionale”, “a matrice” e “per processi”[7], nell’ambito dei quali viene ripartito il lavoro e sono collocati i centri di responsabilità e i collaboratori dedicati. Ciò introduce l’uso de re di “organizzazione”.

Quanto al che cosa l’organizzazione è – modalità de re – essa è un insieme ordinato di eventi, relazioni fra di essi, provvista di beni, processi. Dunque – e in estrema sintesi – un’organizzazione è un insieme di strumenti preordinati (meglio, pre-ordinati) alla realizzazione di scopi. In questo senso, ciò che l’/un’organizzazione è appartiene al dominio della tecnica, le cui caratteristiche si risolvono in un evento unico e paradigmatico: l’organizzazione deve funzionare e il funzionamento è la sua sola cifra. Ciò accade se e solo se la messa in funzione degli strumenti in cui essa consiste realizza davvero gli scopi per i quali essa è stata progettata (meglio, pro-gettata), rifacendosi integralmente ai principî di razionalità di derivazione tecnoscientifica, massimizzando i risultati e minimizzando tempi e risorse. Di qui una prima conclusione. “Dovere” non ha alcun significato deontico[8], ma solo di regola tecnica: proprio come accade per le scatole di montaggio dei mobili acquistati in un centro commerciale.

In quest’ultimo senso, l’organizzazione è il prodotto (meglio, pro-dotto) di una progettazione (meglio, pro-gettazione) attuata nei termini e rifacendosi ai costrutti appena evidenziati[9]. L’organizzazione, che è strumento, ha quindi il cómpito specifico di rendere disponibile l’oggetto dei proprî processi di produzione o di erogazione attraverso il funzionamento dei proprî apparati e quindi dei dispositivi in cui essi si articolano[10]. Di qui l’irrompere del fenomeno della performance, ossia del perficere – alla lettera, del fare con perfezione – con la conseguente introduzione dei sistemi di performance management e della valutazione della prestazione e non piú della persona[11].

Il fenomeno non deve stupire. La complessità degli apparati lascia scoperto il fattore umano, senza il quale essi non funzionano[12] almeno fino a quando non sia stata introdotta massicciamente l’intelligenza artificiale, realtà a tutt’oggi non completamente esplorata. Proprio per questi motivi, il fattore umano deve essere conformato, creando tutti i presupposti affinché l’addetto esegua i cómpiti che gli sono stati affidati e non li ometta, revocando il proprio agire[13].

L’organizzazione-strumento può esibire elementi di complessità piú o meno marcati. Detto con maggiore precisione, la complessità organizzativa è una variabile dipendente di almeno tre fattori: l’intensità degli scopi, la quali/quantità degli strumenti, ciò al cui cospetto essa si pone.

Sul primo dei tre elementi non v’è molto da dire, salvo che gli scopi definiscono il senso dell’organizzazione e devono essere chiaramente enunciati e realizzabili almeno potenzialmente. In assenza di che è negato il concorso della volontà che ne sorregge la realizzazione, compromettendone l’esito: nihil volitur nisi praecognitum.

Diverso è il caso degli strumenti. Essi sono tutto ciò che serve per farla funzionare e ciò entro cui il funzionamento dell’organizzazione deve avvenire secondo regole tecniche. E dunque: persone, cose, attrezzature, contratti di approvvigionamento, processi, relazioni interpersonali, organigrammi e funzionigrammi, regolamentazioni interne, sistemi di valutazione, gerarchie, et coeteris paribus.

Quanto a ciò al cui cospetto l’organizzazione si pone è bene anteporre una nota di chiarimento. Il paradigma non è ciò che la realtà è, ma cosa si crede che essa sia. E ciò che si crede che essa sia è un vero e proprio atto di fede[14]. Un esempio vale a chiarire il concetto. Se dico “metti ordine nella tua stanza!” sto impartendo un ordine, il cui fondamento è la credenza che la stanza sia popolata dal disordine. Ma se il suo destinatario crede per motivi tutti suoi che la stanza sia in ordine, allora il comando “metti ordine nella tua stanza!” per lui non ha alcun senso. Di qui la conclusione: ciò che si crede di avere al proprio cospetto costituisce il significato delle azioni da intraprendere e ne determina lo scopo, trasformando la credenza in evidenza di certezza e verità.

Ovviamente, scopi e credenze vanno di pari passo e procedono sempre a braccetto. Quanto agli strumenti, essi devono – significato non deontico, ma tecnico-operativo – essere adeguati, ossia idonei causalmente a generare gli scopi ai quali l’organizzazione è preordinata (meglio, pre-ordinata).

3. Questioni di fondamento filosofico: organizzazione e complessità organizzative

E ora le complessità organizzative. Ma prima di tutto il significato di “complesso” e, per traslazione, quello di “complessità”.

“Complesso” è né semplice, né complicato. “Semplice”, che deriva per crasi da “sine plico”, significa “senza piegatura”, ossia “lineare”; “complicato”, che deriva sempre per crasi da “cum plicum” significa “con piegature”, e quindi che “può essere spiegato”, ossia reso lineare. Differente è il caso di “complesso”, aggettivo che deriva da cum plecto, e quindi da plēctere, ossia intrecciare. Di qui la sua attinenza con una pluralità di elementi variamente interconnessi (intertēxere), spesso non disgiungibili, collegati fra di loro e non riducibili.

Di qui anche l’ulteriore connotazione di “complessità”, che rimanda a “un che”[15] caratterizzato da organicità e strutturato come insieme di parti o elementi che interagiscono fra di loro, con la conseguenza che il comportamento dell’insieme non si risolve mai nella somma dei comportamenti delle parti che lo compongono, ma deriva da interazioni di intensità quantitativa e qualitativa differenti.

Il rimando a “un che”, cui la complessità è riferita, ben si confà all’organizzazione. Di qui il senso della locuzione “complessità organizzativa”.

Che un’organizzazione sia complessa ha importanti conseguenze. Quanto piú complessa è un’organizzazione, tanto piú specializzate sono le conoscenze e le competenze che servono per farla funzionare. E ancóra, quanto piú complessa è un’organizzazione, tanto piú articolati sono i processi che ne costituiscono l’intreccio. La specialità dei processi che costituiscono l’intreccio dell’organizzazione e la specificità delle conoscenze/competenze richieste per farli funzionare sono l’essenza della sua tecnicità e quindi della sua attitudine a funzionare. Tecnicità che rimanda direttamente ai funzionari che al suo interno agiscono[16]. Di qui la richiesta di conoscenze e lo sviluppo di competenze sempre piú sofisticate.

4. Questioni di fondamento filosofico: organizzazione e tecnica

Ma la tecnica, che è l’ambiente entro il quale l’organizzazione – che è apparato tecnico – agisce attraverso i suoi molteplici attori, è anche ciò che ogni attore dei suoi processi vuole per massimizzare il prodotto della propria azione. La tecnica – che è mondo e oggetto di volontà – cessa quindi di essere un mezzo per diventare lo scopo ultimo che finisce col sovrastare lo stesso fenomeno organizzativo.

La tecnica da strumento diviene scopo generale per conseguire scopi particolari, quasi sempre in contrasto fra loro, laddove la contrapposizione è fra tecnica come scopo di scopi e scopi particolari, il cui potenziamento è possibile solo mediante il ricorso alla tecnica e dunque alla piena appropriazione del mondo che la tecnica definisce e costituisce[17].

Della questione si trova traccia in nuce in M. Heidegger[18], che però non la tratta ancóra nei termini in cui essa sarà elaborata da E. Severino in una molteplicità di scritti di questo gigante del pensiero[19], da U. Galimberti[20] e da G. Anders[21]. Ne discutono anche H. Marcuse[22], S. Weil[23] e, sia pure a differente titolo e in dissimili contesti, in W. Benjamin[24].

Il mondo della tecnica[25], perché la tecnica è mondo e non mero strumento tecnologico, genera effetti che sfuggono alla capacità di immaginazione e di prefigurazione dei suoi attori. Il concetto può essere espresso tenendo conto che quanto piú rapida è la velocità del progresso, tanto maggiori sono gli effetti che possono essere prodotti, tanto piú complicati divengono gli apparati tecnici, tanto piú imprevedibili sono gli effetti che possono essere prodotti dall’azione degli apparati e tanto piú inadeguata è la capacità immaginare e prefigurare i contenuti e gli esiti dei prodotti degli apparati per i loro funzionari[26] e addetti.

Ma vi è di piú e ben altro. La progressiva velocizzazione del progresso entro gli apparati genera l’altrettanto progressiva obsolescenza dei loro prodotti, e ciò si riflette sulla loro utilità per gli scopi per i quali gli apparati sono stati inizialmente progettati. Come dire, l’invecchiamento dei prodotti realizzati dagli apparati è progressivamente sempre piú veloce rispetto alla capacità di progettarne di nuovi. La soddisfazione dei bisogni cui i beni originariamente prodotti erano originariamente destinati si sovrappone al desiderio di nuovi beni, determinando, in tal modo, il precoce invecchiamento dei beni precedentemente acquisiti. Tutto ciò sebbene i primi non abbiano affatto perduto la propria funzionalità originaria.

Il soddisfacimento del bisogno non esprime piú utilità tendenzialmente duratura. Ciò determina la sostituzione del concetto di bisogno con quello di desiderio e nel contempo la defunzionalizzazione del bisogno soddisfatto[27]. Il che ha importanti ripercussioni sullo stato emotivo delle persone. Per le quali il soddisfacimento del bisogno è anticipato dall’insorgenza di nuovi desiderî, con la conseguenza che il primo nasce, per cosí dire, già vecchio. Quanto ai destinatarî dei beni prodotti dagli apparati, si registra una sempre piú crescente sovrapposizione fra soddisfacimento di bisogni e desideri avvertiti nel frattempo, con conseguente propensione al consumo immediato e compulsivo sorretto, nelle sue versioni piú radicali, da stordimento emotivo.

Che la tecnica cessi di essere strumento per divenire scopo di scopi ha uno specifico retroterra filosofico, spesso dimenticato per non dire quasi mai piú messo in questione. Lo si ritrova nella Scienza della Logica di G.W.F. Hegel[28] e può essere così parafrasato: l’incremento quantitativo di un fenomeno può risolversi a un certo punto in distinzioni qualitative, determinando mutamenti del paesaggio. Due esempî valgono a chiarire il concetto: al cospetto di un terremoto di magnitudo minima non v’è avvertenza; se l’intensità cresce, allora si determina distruzione. E ancóra, l’acqua a una certa temperatura è liquido; se la temperatura cresce, allora essa diviene vapore, cambiando stato. In modo del tutto analogo, nel Capitale di K. Marx[29], ove si analizza il danaro e il suo scopo. E infatti, quando il danaro cessa di essere concepito come strumento per regolare gli scambi di merci (sistema MDM) e diviene ciò che tutti vogliono, allora il danaro perde la sua funzione di strumento per diventare scopo ultimo (sistema DMD), declinando e portando a emersione lo scopo del capitalismo[30].

Proprio come accade per la tecnica, che fino a un determinato momento storico ha coincisa con gli strumenti messi a punto per produrre mutamenti in natura grazie a dispositivi via via piú complessi, ma poi ha finito con l’essere ciò di cui tutti hanno bisogno per potenziare la realizzazione dei proprî scopi, con la conseguenza che l’intensificazione dello strumento lo ha trasformato per eterogenesi dei fini in scopo ultimo per la realizzazione di scopi particolari, sovente in antitesi fra di loro (i.e.: cristianesimo v.s. marxismo; cristianesimo v.s. capitalismo; democrazia v.s. cristianesimo, ambientalismo v.s. capitalismo; et coeteris paribus, ove ciascun elemento dell’accoppiata persegue scopi fra loro contrastanti e inconciliabili, per il cui potenziamento è necessario l’impossessamento del massimo della tecnica possibile a disposizione).

5. Questioni di fondamento filosofico: i valori della tecnica

Quanto alla responsabilità entro le organizzazioni complesse che abitano il mondo della tecnica, va segnalato che nessuno dei suoi fondamenti via via elaborati mantiene il proprio valore fondativo. Non quello fondato sull’intenzione, che ha informato di sé l’intero ordine giuridico occidentale e lo stesso concetto di peccato; il funzionamento dell’apparato tecnico prescinde dalle intenzioni della persona: ciò che conta è la sua adeguatezza e la sua capacità di farlo funzionare. Non quello fondato sulle conseguenze delle azioni da misurare in base al principio dell’agire razionale verso uno scopo[31], perché gli apparati tecnici generano effetti non prevedibili e quindi determinano l’impredittività dei proprî effetti. Non quello fondato sull’etica dei fini di kantiana memoria[32]: la tecnica non persegue fini etici, ma solo il proprio autopotenziamento, e quindi la sua capacità di realizzare un numero sempre crescente di scopi particolari[33]. Ciò determina che è vano opporre alla tecnica – che è mondo e ambiente insieme – limitazioni o conformazioni per altra via. La tecnica come mondo segna i confini del mondo che intorno a essa si costituisce. Il resto è semplicemente fattore umano, all’errore del cui agire viene imputato l’inceppamento del dispositivo.

Tutto ciò ben si comprende: alla tecnica afferiscono solo valori di funzionalità, che però non sono affatto valori, ma solo la cifra della sua efficacia. Tecnica e responsabilità non dialogano. La tecnica determina l’oltrepassamento dell’agire intenzionale e si costituisce attorno al semplice fare: quello che conta davvero è portare a compimento quel che è stato assegnato entro l’apparato. Se queste sono le conseguenze del vivere nell’era della tecnica, allora sono quanto mai inquietanti le parole di M. Heidegger espresse nel 1959: «ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga piú inquietante è che l’uomo non sia affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga piú inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca»[34].

Ovviamente la tecnica determina importanti conseguenze antropologiche. Valga per tutti la trasformazione del concetto di vicinanza in quello di prossimità. Gli apparati organizzati tecno-scientificamente azzerano lo spazio e accorciano il tempo avvicinandoli[35]. Per persuadersene basta pensare a cosa ha determinato l’invenzione prima del telegrafo, poi del telefono e ora della rete internet: conoscenza in tempo reale e possibilità di risposta immediata, oltre che trasmissione di dati immediatamente conoscibili dal destinatario. Ciò, in verità, determina conseguenze ulteriori e tutt’ora inesplorate: l’uomo è a disposizione della rete e si trova al cospetto di effetti infinitamente grandi, ove la grandezza o meglio l’enormità degli effetti determina spaesamento[36]. Ma prima ancóra, l’uomo è a disposizione della macchina e al suo cospetto si misura il suo senso di adeguatezza o di inadeguatezza.

6. Questioni di teoria politica: organizzazione, tecnica e agganci normativi

Per trarre le fila ultime del ragionamento sotteso al titolo del lavoro non resta che mettere in questione la relazione fra tecnica, complessità organizzative, pubbliche amministrazioni e responsabilità entro gli apparati pubblici. Questo è il terreno ove mito e realtà si scontrano inevitabilmente. Proprio come accade per le organizzazioni pubbliche, altrimenti dette “pubbliche amministrazioni”.

Che le pubbliche amministrazioni siano organizzazioni è evenienza che non può essere messa in questione. Prima ancóra del significato di “organizzazione” e della stessa ontologia fenomenologica che le caratterizza e costituisce, lo enuncia l’art. 97, comma 1 Cost., il quale prevede una riserva di relativa legge per la loro organizzazione (cfr. testo della disposizione costituzionale[37]). Quanto al loro scopo, le pubbliche amministrazioni perseguono la gestione di finalità di pubblico interesse denominate “funzioni amministrative”, che ne costituiscono il modo di essere e che sono oggetto di attribuzione ex lege[38]. Le pubbliche amministrazioni, attraverso i loro apparati organizzativi, sono l’analogon di imprese di servizi che agiscono in condizioni di quasi-monopolio legale, e dunque di esternalità di sistema. In questo senso, è loro riferibile il combinato disposto degli artt. 2082 e 2555 del codice civile. Professionalità organizzativo/gestionale ed economicità di gestione ne sono la cifra caratteristica[39]. Detto ciò, che fra un’impresa che eroga servizi in condizione di quasi monopolio e una pubblica amministrazione che deve soddisfare bisogni delle persone sussista un isomorfismo pressoché totale è concetto che non ammette flessione. Unica differenza, che è differenza di sostanza, è la proprietà piuttosto che l’alterità degli scopi. Che per le pubbliche amministrazioni confluiscono nel pubblico interesse e nell’interesse pubblico tipico della funzione, entrambi di derivazione legale, e, come tali, fonte di una specifica complessità di contesto.

Che le pubbliche amministrazioni – che sono organizzazioni – siano organizzazioni complesse è oggetto di altrettanto specifica evidenza. Ma se ciò è vero, allora per la loro complessità organizzativa, che è in primo luogo complessità tecnica, valgono tutti i punti di approdo cui siamo pergiunti nel corso del lavoro. Primo fra tutti l’impredittività degli effetti che gli apparati pubblici possono produrre. Il tutto con l’avvertenza che qui non è in questione la banalità del montaggio di un mobile comperato in un centro commerciale, ma ben altro.

7. Questioni di teoria politica: ancóra sulla responsabilità

Ciò ha un’importante conseguenza in tema di responsabilità[40], intesa nella sua accezione istituzionale. Se le organizzazioni pubbliche operano entro il mondo della tecnica e ne subiscono il dominio, allora gli effetti che possono scaturire dalle azioni dei loro attori sfuggono allo loro capacità di immaginazione al pari di quel che accade per tutte le organizzazioni via via sempre piú complesse. Detto altrimenti, la cifra dell’immaginazione dei suoi funzionari e/o dei suoi addetti è del tutto inadeguata a prefigurare gli effetti che l’apparato entro cui essi agiscono può produrre e scatenare[41].

Ma per avere responsabilità – che significa dovere di rispondere delle proprie azioni – occorre piena avvertenza e deliberato consenso[42], il che non può essere, proprio perché la capacità di immaginazione e di prefigurazione dei suoi funzionari è inadeguata al cospetto degli effetti producibili dagli ed entro gli apparati[43] che le costituiscono.

Di qui il corto circuito fra tecnica e responsabilità entro gli apparati pubblici. Il che è tanto piú vero quanto piú pervasivamente sono esercitate le azioni di conformazione organizzativa dal centro alla periferia. Che però sono oggetto di continua proliferazione, forse perché – è ragionevole immaginarlo – quanto piú sono omogenei gli apparati, tanto piú facile ed economico è orientarne l’azione e controllarne i prodotti.

Proprio come accade per gli enti locali territoriali, la cui autonomia organizzativa, peraltro costituzionalmente enunciata[44], è sempre piú compressa, con la conseguenza che la relativa sostenibilità organizzativa delle misure ex lege è particolarmente barcollante per molteplici ordini di ragioni di specifico contesto.

Eccone alcune: ipercinesi e alluvionalità legislativa; ambiguità semantica delle disposizioni legislative; assenza di coordinamento; legislazione a séguito di eventi particolari e in assenza di chiare visioni sistematiche; stratificazione oltre misura delle fonti di regolazione e loro pluri-interpretabilità; moltiplicazione delle giurisdizioni ed entro ciascuna di esse moltiplicazione degli indirizzi contrastanti con conseguente dilatazione dell’incertezza interpretativo-applicativa; moltiplicazione delle autorità normative, che poi normative sempre non sono; uso di faq (c.d. frequently asked questions)[45]; ricorso alle circolari interpretative, spesso in interi comparti, e sovente in contrasto fra loro; uso di anglismi dal significato approssimativo, laddove l’italiano è sovente zoppicante; impredittività dell’attività giurisdizionale, et coeteris paribus. Ossia oggetti di continua stigmatizzazione da parte degli operatori del diritto, che, usando una metafora tennistica sono un vero e proprio rovescio di sistema.

Il risultato di tutto ciò è l’ulteriore potenziamento dell’imprevedibilità e dell’imprevenibilità degli effetti delle azioni dei funzionari e/o addetti delle pubbliche amministrazioni, cui fa però da pendent la moltiplicazione delle forme di responsabilità e della loro pervasività, proprio laddove la piena avvertenza è negata per ragioni sia necessarie (l’inadeguatezza dell’immaginazione degli effetti producibili dagli apparati in quanto tali al cospetto della loro progressiva complessità), sia contingenti (le storture e le evidenti disarmonie di specifico contesto cui è stato fatto cenno poco piú sopra). A questo proposito, infatti, bisogna tener conto che “responsabilità” rimanda al rendere conto a qualcuno, impegnandosi in modo solenne per quel che si dice (in “responsabilità” ricorre in primo luogo “res”, ossia “cosa”; si ricordi che la sponsio, di cui si trova traccia nel verbo “rispondere”, rimanda alla promessa sacra e come tale solenne[46]).

8. Questioni di teoria politica: complessità, controlli e accudimento degli apparati pubblici

Ciò si porta dietro un’ulteriore conseguenza. La progressiva complessità degli apparati pubblici determina la diminuzione della capacità del loro accudimento; ciò si riflette sull’inevitabile aumento della difficoltà di progettarne i fattori di correzione, perché la velocità della progettazione, che deve comunque tenere conto delle regole normative – peraltro caotiche – a contenuto organizzativo ex art. 97, comma 1 Cost., tende fatalmente a diminuire al cospetto della moltiplicazione dei nuovi problemi da risolvere. Il tutto con l’ulteriore aggravamento determinato dalla sostanziale inadeguatezza della legislazione e dell’attività di produzione normativa in generale. Le quali hanno tempi di decisioni del tutto incompatibili con quelli necessarî per produrre risultati correttivi in tempi utili allo scopo[47].

Fatta l’anamnesi, la prescrizione e la ricetta per la cura è e dovrebbe essere scontata: la riformulazione dell’intero sistema dell’azione amministrativa. Tenendo peraltro sempre ben presente che se all’inadeguatezza della capacità di immaginazione degli effetti generabili entro gli apparati che operano nel dominio della tecnica non v’è rimedio, almeno un alleviamento può esser apportato correggendo gli errori di impostazione di un sistema giuridico-amministrativo e delle conseguenti responsabilità popolato da evidenti inciampi che sono sotto gli occhî di tutti.

I negatori del rimedio sono spesso i sostenitori dell’incremento dei controlli e delle forme di responsabilità[48] e si sospingono in questa direzione agitando la tesi dell’alterità del pubblico interesse e la sua indisponibilità, a differenza dell’interesse privato[49].

La tesi non convince, perché la continua proliferazione legislativa su singoli temi senza visioni complessive e di sistema moltiplica i fattori di complessità degli apparati pubblici ben oltre quanto determinato dall’accelerazione del progresso. E se a tanto si aggiunge la proliferazione delle responsabilità, allora l’esito da altamente probabile diviene necessario. Soprattutto quando le conseguenze sono sanzioni, paventati illeciti penali o amministrativo-contabili che, se anche si risolvono in assoluzioni, lasciano scoperto il problema dei costi di difesa e le ripercussioni sulla persona e sul suo equilibrio, non solo lavorativo [50]. È questo il punto di emersione della cosiddetta “amministrazione difensiva” con conseguente sindrome da “paralisi della firma”, che oggi riguarda pressoché totalmente i dirigenti pubblici e coloro che ne svolgono le funzioni in caso di assenza[51].

La sindrome da paralisi della firma assomiglia molto all’esito della dialettica servo-padrone ben evidenziata in G.W.F. Hegel[52] che a fini didascalici sintetizziamo come segue e che poi trasponiamo entro il contesto che qui interessa.

Nelle società è sempre presente il rapporto padrone-dominatore/servo-dominato all’esito dello scontro fra persone, delle quali una soccombe all’altra per non essere annientata. Il padrone ha coscienza di essere tale sia in sé e per sé, sia in relazione al servo, per il quale valgono le medesime considerazioni a parti invertite. Il padrone vuole dal servo che questi gli renda disponibile il prodotto delle sue azioni e il servo tramite il lavoro lo soddisfa. Ma il padrone non ha le conoscenze, le competenze e le capacità per attuare il processo di trasformazione della materia prima in prodotto, talché finisce col diventare servo del proprio servo, con ciò capovolgendo l’iniziale relazione fra i due.

E ora la trasposizione ai nostri fini. L’ordinamento giuridico, cui la norma costituzionale attribuisce posizione di dominio, è l’equivalente del padrone e il funzionario è a suo servizio e deve operare – cosí pretende l’ordinamento giuridico – secondo le regole (tecniche) del performance management[53], cui si aggiungono le regole propriamente normative in essere nell’ordinamento giuridico. Ma il funzionario è depositario delle conoscenze e delle competenze per soddisfare la richiesta dell’ordinamento. Se il funzionario non fa quel che gli si richiede, allora l’ordinamento non consegue piú i proprî scopi. In questo senso, l’ordinamento diviene servo del proprio funzionario.

Il problema qui però si complica. Il funzionario non già non fa quel che l’ordinamento giuridico gli chiede. Il punto è che l’ordinamento giuridico non sa cosa chiedergli in ragione della propria complessità, cui concorrono in maniera significativa le disfunzioni di contesto in precedenza evidenziate, e della conseguente complessità dei proprî apparati pubblici[54]. In tal modo, il funzionario finisce con il trovarsi fatalmente compresso fra l’abuso e l’omissione. Di qui il differimento della firma e dell’adozione degli atti che l’apparato pubblico vorrebbe; differimento o astensione beninteso sempre argomentabili dai funzionari[55]. L’amministrazione da attiva diviene difensiva e la pervasività delle responsabilità ne provoca lentamente la paralisi, finendo col negarne la stessa funzione istituzionale di attore del soddisfacimento dei bisogni della collettività. La conseguenza ulteriore di tutto ciò è il sopraggiungere della percezione dell’inutilità della pubblica amministrazione, che si trasforma fatalmente in una burocrazia, ove il termine, già nell’accezione comune, la connota in modo marcatamente negativo.

Volendo reinquadrare il tutto entro gli apparati tecnici, non fare quel che l’apparato richiede significa nella sostanza revocare il proprio comportamento adempitivo. L’esercizio della revoca inceppa il processo e pregiudica per ciò solo la realizzazione degli scopi cui l’apparato è preordinato, che qui sono scopi pubblici e non privati. Proprio per questi motivi, l’organizzatore professionale cerca in tutti i modi di contrastare l’esercizio della revoca ricorrendo agli espedienti piú vari. Nella pubblica amministrazione e dal 2009, ricorrendo ai sistemi di performance management; prima ancóra alla potestà disciplinare[56].

9. Questioni di diritto: la destinazione della politica al tramonto

Il predominio della tecnica nella vita delle persone, al punto da determinarne la trasformazione da strumento a mondo, ha ulteriori e ben altre e ben piú gravi conseguenze. Esse interrogano sul perché la politica non riesce, non vuole o piú semplicemente non può determinare la semplificazione degli apparati pubblici.

Una prima risposta è che gli apparati pubblici, prima ancóra che pubblici sono apparati, e che gli apparati rispondono a regole tecniche, ove se la tecnica è mondo, allora l’apparato ne è semplicemente parte, senza che il decisore politico possa decidere o determinarsi a decidere oltre i confini della tecnica, per l’ovvia ragione che essa è il suo mondo e il mondo è i suoi confini[57].

Ma v’è di piú e ben altro. Oggi la politica dipende per la piú gran parte delle sue azioni dall’economia e dai rapporti che entro tale ambito vengono in essere. Ma l’economia è a sua volta espressione di una tecnica e, come tale, è retta e governata da regole tecniche orientate, per definizione, alla massima razionalità possibile, ove la realizzazione del prodotto – non importa se bene o servizio – deve avvenire massimizzando il risultato e minimizzando l’impiego delle risorse. Insomma, l’economia esprime regole tecniche orientate all’efficacia e all’efficienza dei processi di produzione e/o di erogazione. E tutto ciò nulla ha a che vedere con regole giuridiche, le quali, semmai, sono o dovrebbero essere limiti all’esplicazione del suo dominio. Regole peraltro mal digerite dall’economia, che le percepisce come un intralcio. Il fenomeno è particolarmente visibile per le imprese multinazionali che operano in piú stati – per quelle che operano nel mondo dei sistemi operativi informatici e dei social network il fenomeno è addirittura autoevidente –, laddove la presenza di legislazioni differenti costituisce un’ulteriore complicazione[58].

Il paradosso è dunque il seguente: l’economia, che è tecnica, dovrebbe essere dominata dalla politica, che esprime norme e svolge nella sua essenza attività “nomotethica”[59]. Ma la politica è fortemente condizionata dal proprio oggetto, che opera e agisce entro il dominio della tecnica. Il tutto con la conseguenza che la politica produce entro gli organismi costituzionalmente determinati – parlamenti, commissioni, ministeri e altri centri di potere istituzionale – regole deontiche, che finiscono con l’essere né piú, né meno che deontificazioni di regole tecniche, a loro volta espresse dal mondo della tecnica.

Il momento di emersione di questo fenomeno è costituito dalla cosiddetta “tecnocrazia” o peggio ancóra dalla cosiddetta “espertocrazia”, incarnata istituzionalmente dagli altrettanto cosiddetti “governi tecnici”, che tecnici né sono, né possono essere perché fanno scelte entro contesti istituzionali[60]. Il tutto a meno di non portare a emersione la realtà sottostante. Ossia che le scelte fatte entro consessi politici sono in realtà scelte puramente tecniche rivestite di deonticità. Questo fenomeno di mascheramento è un vero e proprio oscuramento, ossia proprio il contrario dell’elemento scatenante del pensiero occidentale denominato “filosofia”, la cui cifra era quel particolare disvelamento che avrebbe condotto e dovuto condurre alla verità[61].

A questo proposito, deve essere osservato che la politica entro i sistemi di rappresentanza è espressione di democrazia[62] elettiva e deve o dovrebbe rispondere al proprio elettorato. Ma quest’ultimo, che peraltro non ha alcuna possibilità di controllo sulla politica se non al momento delle elezioni, sta manifestando sempre piú disaffezione e disinteresse, forse proprio perché intuisce che la politica ha perso la propria funzione di arte régia. E, si badi bene, non si tratta solo del preoccupante fenomeno dell’astensionismo, ma di vero e proprio disinteresse[63]. La democrazia pare definitivamente tramontata proprio perché guardando all’ètimo della parola, essa non è piú – e forse non è mai stata – potere del popolo: il popolo è sempre piú privo di potere[64] mentre l’esercizio del potere politico finisce col fondarsi sempre piú sulla propaganda[65], dando luogo a una vera e propria forma di teatrocrazia e oggi di telecrazia[66] [67]. Vi si aggiunge il fatto che il linguaggio della politica è quasi sempre privo di denotazioni chiare e sempre piú infarcito di termini emotivi preordinati a sollecitare risposte retoriche e inargomentate[68].

A tutto ciò si potrebbe obiettare che il popolo è sovrano e che gli ordinamenti costituzionali lo chiamano a esprimersi anche nelle consultazioni referendarie, peraltro ponendo alla sua attenzione le tematiche piú varie. L’osservazione è ingenua, perché proprio nella piú gran parte dei casi le persone sono completamente prive delle conoscenze e delle competenze per esprimere un’opinione informata. La conseguenza è del tutto scontata: la decisione avviene non su base razionale, ma semplicemente retorica[69].

Detto in questi termini, ben si capisce come oggi la politica abbia perso il suo valore cosí come da sempre lo si è inteso. E con essa anche la democrazia e il relativo concetto: essa è oggi mera democrazia procedurale, ossia ambito entro cui le leggi sono fatte dagli eletti costituiti in maggioranza elettiva, e sono tali se e solo se ad esse si perviene nel rispetto delle regole per la produzione normativa[70]. Il che però, entro un contesto meramente formale, non assicura che il prodotto dell’autorità sia il migliore prodotto possibile[71]: lo si vede praticamente tutti i giorni. E le ragioni sono quelle illustrate in precedenza.

10. Questioni di diritto: predittività e inadeguatezza

Tanto detto, le complessità organizzative di cui è stato fatto cenno hanno allora uno scopo ben preciso: delegare ai funzionari le scelte ultime, peraltro sempre dovute[72], flessibilizzandone le possibilità di azione e trasferendo su di loro la relativa responsabilità per gli effetti generati dalle azioni intraprese. Ma entro la complessità organizzativa, per le ragione già viste, gli effetti producibili entro gli apparati pubblici sfuggono alla capacità di predizione e di immaginazione dei loro funzionari e addetti. La complessità organizzativa è allora lo strumento ultimo per assicurare l’adattività del sistema alle richieste che a esso pergiungono e per consentire comunque la relativa risposta. Sempre e a qualunque costo.

A questo proposito deve però essere rimarcato che la risposta del funzionario e/o dell’addetto all’apparato pubblico deve essere ragionevole e quindi argomentata in termini conformi ai canoni ermeneutici ordinamentalmente voluti dalla norma giuridica[73]. Ed è proprio qui che si determina la frattura piú marcata fra ragionevolezza dell’azione e personalità della responsabilità.

L’inadeguatezza del funzionario e dell’addetto agli apparati pubblici a immaginare tutti gli effetti che possono prodursi entro l’apparato nel quale essi sono inseriti determinano una forma del tutto inedita di responsabilità, con conseguente traslazione ultima delle relative verifiche al magistrato, in sede penale o lato sensu risarcitoria caratterizzate dalla doverosità della relativa azione[74]. Ove l’azione del funzionario è spesso dilaniata fra la categoria dell’abuso piuttosto che dell’omissione. Con l’ulteriore conseguenza del rallentamento dell’azione amministrativa, i cui attori finiscono con l’essere invasi da dubbî e disaffezione.

Il magistrato non può fare altro che ripercorrere le vie della ragionevolezza dell’azione del funzionario e/o dell’addetto all’apparato pubblico e confrontarlo con la propria personale ricostruzione. In questo modo, all’azione del primo si sovrappone la valutazione del secondo. Il che non sarebbe affatto un problema, né giuridico, né etico, né epistemologico se non fosse che il perimetro dell’azione del primo è circondata da margini di sostanziale impredittività delle conseguenze che caratterizzano il sistema dell’agire pubblico, che però pretende di definire, peraltro senza riuscirvi, le modalità dell’azione amministrativa[75].

11. L’esito finale: il mito della responsabilità

Questa è la cifra del mito della responsabilità, che con la realtà e la sua comprensione nulla ha a che fare e lascia tutti, ma proprio tutti gli avveduti con la necessità di risposte ragionevoli che stentano a pergiungere.

Dirselo è il modo per evitare pericolosi scivoloni o, peggio ancóra, false rappresentazioni. Questo modo di procedere ha almeno un precorritore il quale, interrogato sulla funzione della filosofia rispose con un’immagine insuperata: mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia non basta: meglio evitare di entrarvi[76].

Proprio come accade quando si percorrono i sentieri del mito riferito alle complessità organizzative degli apparati pubblici e alle forme di responsabilità intermediate dalla tecnicalità delle prime, laddove l’ingresso nei relativi labirinti deve essere fatto esprimendo concetti chiari e con piena padronanza dei termini.

  1. Come emergerà nel prosieguo del lavoro, alle pubbliche amministrazioni come organizzazione sono riferibili tutte le criticità che la tecnica come mondo e ambiente, che come tale non coincide piú con la tecnica come strumento, riferisce agli apparati. Il tutto con l’avvertenza che la pubblica amministrazione è un apparato tecnicamente organizzato. Ma su tutto ciò, infra.
  2. Aristotele, Μετὰ τὰ φυσικά, trad. it. Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, pp. 143 e 145 della traduzione. Da notare che ammettere la contraddizione significa negare il λόγος (logos), ossia la possibilità di raccogliere secondo ragione proposizioni sul mondo. La sottolineatura si trova in M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, trad it. Introduzione alla metafisica, Bompiani, Milano, 1990, p. 57.

    A ben vedere tutto ciò è una riformulazione postuma dell’aforisma «ex absurdis sequitur quodlibet» (dall’assurdo – qui in ipotesi la contraddizione – segue qualunque cosa), esposto nella quaestio X del Librum secundum Priorum Analyticorum Aristotelis Quaestiones e nella quaestio III del Librum primum Priorum Analyticorum Aristotelis Quaestiones dello Pseudoscoto.

  3. In “realtà” risuona il nome res, che alla lettera significa “cosa”. Peccato che “cosa” sia nome altamente problematico, nome che evoca entro di sé il contrasto, la contesa, insomma πολεμοσ (polemos), Ἔρις (Eris) et similia. Alla realtà sono legati il potere e la funzione della scienza, la quale però non descrive cosa la realtà è, ma esplicita cosa si ritiene che essa sia in un dato e determinato momento storico. La scienza oggi non agisce piú entro la visione aristotelica che pretende di stabilire la verità sul mondo scoprendone le leggi eterne e postulando che la realtà sia sempre stata e sempre sarà, ma formula ipotesi che reggono fino a quando corroborate secondo il metodo sperimentale al punto che se falsificate devono essere abbandonate e sostituite da altre ipotesi. La parabola è stata avviata da Galileo, Bacone e Torricelli e poi teorizzata da Cartesio, il quale attribuisce alla scienza la funzione di interrogare il mondo e non di scoprirne le leggi eterne. Essa continua con Kant e si dipana con coerenza fino all’attualità. Su tutto ciò, a titolo divulgativo, ma poi mica tanto, C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina, Milano, 2016. Da un punto di vista piú strettamente epistemologico, K.R. Popper, Logik der Forschung, Julius Springer, Berlino, 1934, trad. it. Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, Torino, 1970. A ben vedere, il pensiero e le questioni in esame non sono nuovi. Se ne trova esplicita menzione nel frammento B123 di Eraclito φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ – la natura ama nascondersi – su cui l’interessante e approfondito lavoro di G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano, 1988.
  4. Sul significato di organizzazione e su ciò che un’organizzazione è, valgono alcuni rinvii ai miei cosiddetti scritti. Per tutti, R. Nobile, Management pubblico e semantica: prassi, significati ed etimi, in Risorse Umane nella pubblica amministrazione, III, 2019, pp. 28 ss. Sull’organizzazione in generale, la letteratura è davvero ampia. Per tutti, G. Rebora, Scienza dell’organizzazione, Carocci, Roma, 2017, pp. 17 ss.; R.L. Daft, Organization Theory, South-Western Cengage Learning, 2016, trad. it. Organizzazione aziendale, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2017, p. 12: «Le organizzazioni sono entità sociali guidate da obiettivi, progettate come sistemi di attività deliberatamente strutturati e coordinati che interagiscono con l’ambiente esterno. L’organizzazione è un mezzo per raggiungere uno scopo che deve essere progettata per raggiungere tale scopo. Possiamo immaginarla come uno strumento o un macchinario progettato per raggiungere uno scopo. Quest’ultimo può variare, ma l’aspetto centrale di un’organizzazione resta il coordinamento di individui e risorse per la realizzazione collettiva di obiettivi desiderati».
  5. L’uso de dicto e de re è presente nei maggiori esponenti della Scolastica: Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Abelardo, Pietro Ispano (interessantissime sono le sue affermazioni nelle Summulae Logicales), come sottolinea J.M. Bochenski, Formale Logik, Alber Freiburg, Monaco,1956, trad. it. La logica formale. Dai presocratici a Leibniz Vol. I, Einaudi, Torino, 1972, pp. 295 ss.

    In tempi piú recenti, von G.H. Wright, An Essay in Modal Logic, Humanities Press, Londra, 1953, p. 6 e p. 25. Riferito alle modalità alethiche (necessario, possibile, impossibile e contingente), esse sono de dicto «when are about the mode or way in which a proposition is or is not true»; sono de re quando «they are about the mode or way in which an individual thing has or has not a certain property».

  6. Di questa tematica si trova traccia in R. Nobile, Il superamento della dotazione organica mediante l’analisi logica di “organizzazione”, in Comuni d’Italia, 2017, p. 26.
  7. Sui quattro modelli di cui le organizzazioni possono dotarsi, denominate “forme organizzative”, H. Tosi, M. Pilati, Struttura e progettazione organizzativa, in H. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero, J.R. Rizzo (a cura di), Comportamento organizzativo. Persone, gruppi e organizzazione, EGEA, Milano, 2002, p. 282. I modelli e i relativi meta-modelli sono bene illustrati da Rebora, op. cit. loc .cit.
  8. “Deontico” è sinonimo per identità di “normativo” se ne trova specifica trattazione in G.H. von Wright, Deontic Logic, in Mind, 1950.
  9. R. Nobile, Pubbliche amministrazioni, organizzazione e progettazione: concetti, prodotti e norme, in www.lexitalia.it, 2019.
  10. R.L. Daft, op. cit. loc. cit.
  11. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, C. H. Beck, Monaco, 1956, trad. it. L’uomo è antiquato Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 39, ove si legge che l’uomo «non prende più in considerazione l’incapacità di sostenere la concorrenza, bensì un’incapacità molto più moderna, perché ciò a cui egli pensa non è l’uomo quale macchina accanto alle macchine, bensì l’uomo quale macchina per le macchine; l’uomo quale pezzo da lavorare e adattare entro macchine già costruite o entro progetti tecnici prestabiliti». In questa prospettiva, l’uomo funzionario di apparati non è piú il pastore dell’Essere di heideggeriana memoria, ma il ben più becero pastore della macchina.
  12. Anche qui le organizzazioni hanno un proprio strumento: la motivazione, sovente usato con estrema disinvoltura. Sul punto, R. Nobile, Motivazione, compiti e attribuzioni gestionali: management, organizzazione, fare e suo perché, in Risorse Umane nella pubblica amministrazione, 1, 2024, pp. 18 ss.
  13. Un solo esempio per chiarire la questione. Il viaggio di un aereo inizia ben prima del decollo e termina ben dopo l’atterraggio. Non vi è coinvolto il solo personale di volo, ma anche quello di terra e quello addetto al controllo. Se un controllore di volo non fa quel che ci si aspetta che faccia nel senso che si astiene dal farlo, allora l’aereo non decolla, e forse neppure rolla sulla pista. La tendenza a trasformare i processi in protocolli vincolanti potenzia gli effetti negativi della revoca.
  14. La credenza è un vero e proprio atto di fede, ossia argomentum non visibilium e di verità sperata. Sull’argomento sono illuminanti le parole di Paolo di Tarso nella Lettera agli Ebrei 11.1. Il tema è ripreso e sviluppato dalla dottrina patristica e dalla scolastica e resta tutt’oggi di stretta attualità. Il concetto riprende l’assunto per cui la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono.
  15. I Greci avrebbero detto TI. Per un esempio particolarmente eloquente di una sua ricorrenza, si veda il dialogo fra Socrate e Glaucone, in Platone, Πολιτεία, trad it. La Repubblica, Laterza, Bari, 1997, p. 369, ove viene messo in questione cosa una cosa sia. Essa «né è, né non è, né è entrambi, né è alcuno dei due», con ciò volendone significare il suo continuo “oscillare” fra essere e non-essere. Questo è quanto è racchiuso nell’επανφοτερίζειν (epanfoterizein) ossia nel continuo oscillare di ogni ente fra l’essere e il non essere del loro μεταξύ, ossia ciò che è nel mezzo o entro un intervallo. Che ciò sia vero è comprovato dalla risonanza in “επανφοτερίζειν” di tre costituenti: ἐπί, ἀμφότερος ed Ἔρις, i quali ben connotano la tensione (Ἔρις) continua fra due elementi (ἀμφότερος) di ciò che viene messo in questione (ἐπί). Sinonimo per similitudine di “cosa”, è il nome “roba”. Curiosa è la sua derivazione etimologica. “Roba” deriva dal germanico “rauba”. Ancor oggi, in tedesco “Raub” significa preda, ossia ciò di cui ci si appropria, e, per traslazione, che si ruba. “Cosa”, “roba”, “oggetto” sono sinonimi per similitudine, o forse addirittura per identità. Assonanze e conferme interessanti si rinvengono nelle lingue inglese e tedesca. Sia nella prima, sia nella seconda, i termini “Thing” e “Ding” caratterizzano, in una loro specifica accezione, la cosa messa in questione, e dunque controversa, contesa e sub iudice.
  16. Sulla questione che lega la funzionalità dell’apparato al successo dei funzionari si rimanda a M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr Siebeck, Tubinga, 2002, trad it. Economia e Società, Edizioni di comunità, Milano, Vol. II, 1961, pp. 258 e ss., il quale mette in questione i sistemi burocratici e ne affronta gli sviluppi. Un interessante e apparentemente lontano contesto nel quale si lega la funzionalità degli apparati burocratici al successo dei funzionari che ne governano le articolazioni si trova nel modo di intendere gli scopi delle burocrazie nella cosiddetta “corsa all’Africa” del XIX secolo. Se ne trova traccia in H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Meridian, Londra, 1962, trad it. Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004, p. 294 e ss.
  17. Da notare che la tecnica in quest’accezione non coincide affatto con la tecnologia, che è e resta strumento. Quanto allo scopo della tecnica, essa mira semplicemente al proprio potenziamento indefinito, che coincide con il la capacità di realizzare una serie indefinita di scopi particolari. In questo senso, la tecnica esprime la propria volontà di potenza preordinata e destinata al proprio autopotenziamento illimitato.
  18. Sulla cosa e sulle sue caratterizzazioni ontologiche e funzionali, M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kant Lehre von den transzedentalen Grundsadzen, Klostermann, 1962, trad. it. La questione della cosa, Mimesis, Milano, 2011, p. 11 e ss.; die Angabe, trad. it. L’indicazione, in F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002, p. 19. Ecco i passi piú salienti e drammatici insieme: «tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano […] Sennonché, la precipitosa eliminazione di tutte le distanze non porta alcuna vicinanza, giacché la vicinanza non consiste nella minore distanza […] Che cosa accade se con l’eliminazione delle grandi distanze ogni cosa si trova ugualmente lontana e vicina? Che cos’è questa uniformità in cui tutte le cose non sono né lontane né vicine, e sono, per così dire, senza distacco (ohne Abstand)? Tutto si confonde nell’uniforme senza-distacco (das Abstandlose). Come? Questo compattarsi nel senza-distacco non è forse ancora più inquietante di un frantumarsi di tutto? […] Che cosa ancora aspetta questa paura sgomenta, se il terrificante (das Entsetzliche) è già accaduto? Esso [il terrificante] si mostra e si cela nel modo in cui ogni cosa è presente, nel fatto cioè che, malgrado ogni superamento delle distanze, la vicinanza di ciò che è rimane assente». Ecco il senso dello spaesamento, qualora ve ne fosse il bisogno.
  19. Limitandosi alle opere essoteriche dell’autore, ex plurimis, E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 1988, pp. 34 e 35: «la tecnica mira non a uno scopo specifico e escludente, bensí all’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, che è insieme incremento indefinito della capacità di soddisfare bisogni […]. È inevitabile quindi che tali forze [n.d.r.: le forze portatrici di scopi particolari: democrazia, capitalismo, ambientalismo, marxismo, economia, finanza, et coeteris paribus] rinuncino progressivamente allo scopo che pur intendono realizzare, e vi rinuncino appunto per non frenare, limitare, indebolire l’indefinito potenziamento degli strumenti – l’apparato scientifico-tecnologico con cui intendono realizzare tale scopo. In rapporto alla realizzazione dello scopo, il perfezionamento del mezzo che deve realizzarlo è infatti limitato e frenato. Altrimenti, il vero scopo diventerebbe tale perfezionamento. E se si vuole evitare questa limitazione (nell’illusione che potenziando indefinitamente il mezzo venga favorita la produzione dello scopo), è necessario che il perseguimento dello scopo non intralci il perfezionamento del mezzo, e dunque venga subordinato a tale perfezionamento – che cosí diventa il vero scopo primario».
  20. U. Galimberti, Tecne e Psiche. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 34: «per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è piú oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi».
  21. G. Anders, ult. op.cit.. In modo notevolmente piú drammatico, G. Anders, Wir Eichmannsöhne, Beck, Amburgo, 1964, trad. it. Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze, 1995, p. 32, ove si legge «quanto più alta è la velocità del progresso, quanto più grandi sono gli effetti della nostra produzione e quanto più è intricata la struttura dei nostri apparati, tanto più rapidamente la nostra immaginazione e la nostra percezione non riescono a stargli dietro, tanto più rapidamente cala la nostra “chiarezza” e tanto più diventiamo ciechi».
  22. H. Marcuse, One-Dimensional Man. Study in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston Press, Boston, 1964, trad. it. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1964, p. 51 e ss.: «col progresso tecnico come strumento, la non-libertà – intesa come soggezione dell’uomo al suo apparato produttivo – vien perpetuata e intensificata sotto forma di molte piccole libertà e agi […]. L’automazione pare davvero essere il grande catalizzatore della società industriale avanzata. È un catalizzatore esplosivo o, a seconda, non esplosivo, che opera un mutamento qualitativo nella base materiale, strumento tecnico del salto dalla quantità alla qualità».
  23. S. Weil, L’oppression sociale, Gallimard, Parigi, 1934, trad it. Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano, 1983.
  24. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technichen Reproduzierbarkeit, in Zeitschrift für Sozialforschung, 1936, trad. it. F. Desideri, M. Montanelli, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Donzelli, Roma, 2019.
  25. Per una panoramica complessiva di ampio respiro, P. D’Alessandro e A. Potesio, Filosofia della tecnica, LED, Milano, 2006.
  26. G. Anders, ult. op. cit., p. 25.
  27. Il fenomeno è del tutto analogo a quello della moda, ove è particolarmente evidente che essa attribuisce ai beni una funzione altra e ulteriore a quella da sempre percepita e concepita come loro propria. A esempio, la funzione originaria di un cappotto è coprire e proteggere dal freddo. Il continuo succedersi di modelli che si differenziano per particolari altri rispetto alla loro funzione originaria rende evidente che la moda destina all’obsolescenza anticipata il capo di vestiario, determinandone la sostituzione pur in presenza della sua idoneità allo scopo originario. Su tutto ciò, U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 95 e ss.
  28. G.W.F. Hegel , Wissenschaft der Logik, trad it. Scienza della logica, Laterza, Bari, 1924, p. 449.
  29. K. Marx, Das Kapital, trad. it., Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1964, I, pp. 180 e ss.
  30. Detto incidentalmente, questa è la ragione della genesi del tramonto del capitalismo descritta da Emanuele Severino ne Il declino del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1993. Da un lato, il capitalista ha quale proprio scopo la massimizzazione del profitto, il che impone la massima circolazione delle merci per la produzione di un quantitativo di danaro maggiore di quello investito; dall’altro, il capitalista deve perseguire la rarefazione delle merci per mantenere alto il loro prezzo. È evidente che il potenziamento della produzione confligge con la rarefazione, che è depotenziamento, delle merci e della loro circolazione, il che segna l’inizio della fine del modello: potenziare la produzione e rarefarla nel contempo esprime una contraddizione “nel medesimo rispetto”.
  31. Se ne trova ampia traccia in M. Weber, Politik als Beruf, Reclam, Stoccarda, 1992, trad it. La politica come professione, Mondadori, Milano, 2009, pp. 105 e ss.
  32. I. Kant, Grundlegung zur Metaphisik der Sitten, Der Philosophische Band, Lipsia, 1919, trad it. Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano, 1984, p. 95.
  33. Su tutto ciò, U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 219 e ss. ove la tematica è sviluppata con la precisione richiesta, nulla tralasciando.
  34. M. Heidegger, Gelassenheit, Neske, Pfullingen, 1959, trad. it. L’abbandono, Melangolo, Genova, 1983, p. 36.
  35. Lo evidenzia M. Heidegger: si veda quanto riportato nella nota 18.
  36. Lo spaesamento è particolarmente evidente quando si mettono in questione le conseguenza dell’impiego della cosiddetta “intelligenza artificiale” nella sua versione generativa. Per un primo approccio al problema R. Nobile, Intelligenza artificiale, tecnica e tentativi di regolamentazione: il legislatore ci prova, in www.lagazzettadeglientilocali.it, 2024.
  37. Sul testo dell’art. 97, comma 1 Cost. – «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione» – la letteratura è particolarmente ampia. Per tutti, si vedano, P. Carretti, Commento all’art. 97 della Costituzione, in C. Pinelli, U. Pototschnig (a cura di), Commentario della Costituzione. Pubblica Amministrazione. Artt. 97-98, Zanichelli. Bologna, 1994, oltre alla manualistica istituzionale di cui si omette volutamente la citazione. Sull’art. 97 Cost. con particolare riferimento agli scopi ultimi che esso sottende, ossia l’imparzialità e il buon andamento, si rimanda all’interessantissimo lavoro di sintesi di L. Iannucilli e A. De Tura, Il principio di buon andamento dell’amministrazione nella giurisprudenza della Corte costituzionali, in www.cortecostituzionale.it.
  38. Sulla funzione amministrativa, si veda M.S. Giannini, Diritto Amministrativo Vol. II, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 445 e ss., il quale la riconduce ad attività considerate nella loro globalità rese rilevanti dalla norma, senza distinguere l’ambito entro cui esse ricorrono: «vi è infine una terza opinione, che è la più esatta, secondo cui non è da far questione di diritto pubblico o di diritto privato, in ambedue le normative essendo possibile che – oltre agli atti – anche un’attività nel suo complesso possa avere rilevanza giuridica. Sono le attività a cui si addice il nome di funzioni, le quali possono ricevere qualificazioni giuridiche in ordine al modo con cui sono svolte, nella loro globalità». E ancora: «nell’ambito definito dalla norma la funzione ha però rilievo nella sua globalità». Il tutto con l’avvertenza che «tutte le attività svolte nell’interesse generale o nell’interesse altrui di principio sono funzionalizzate. L’attività dei pubblici poteri, in particolare l’attività delle pubbliche amministrazioni, è, perciò, in linea di principio, funzione, sia pure nelle diverse maniere e intensità stabilite dalle norme». Inutile ricordare che le indagini sulla funzione amministrativa risalgono a F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl., 1950, pp. 1 e ss.; F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, pp. 118 e ss.; Semantica di funzione, in Scritti giuridici, Vol. V, Vita e pensiero, Milano, 2006, pp. 3875 e ss.. Dopo tali apporti dottrinali tutto il resto è mera ricapitolazione priva di spunti di novità di sostanza. D’altro canto per veder lontano occorre salire sulle spalle dei giganti. Ma quando i giganti hanno detto tutto quel che v’è da dire, chi segue è mero epigono.
  39. Lo diciamo da oltre un decennio nei cosiddetti nostri scritti. Da ultimo sul punto, R. Nobile, Management pubblico e semantica. Prassi, significati ed etimi, in Risorse Umane nella pubblica amministrazione, III, 2019, p. 31.
  40. Sulla responsabilità in generale, intesa come categoria del diritto in sé e per sé, si veda l’interessante e ancóra attuale saggio di G. Maiorca, Responsabilità (teoria generale), in Enciclopedia del Diritto, XXXIX, Giuffrè, Milano, p. 1004 e ss., il quale osserva in via preliminare che «la parola [ossia “responsabilità”] si rifà al latino tardo responděre. Il termine antico respondēre, è il movimento inverso di sponděre, il cui radicale porta in sé l’idea di rito, di solennità e, con ciò, quello della formazione di un dato equilibrio, di un dato ordine, avente carattere di solennità. Respondēre presuppone la rottura di tale equilibrio, di tale ordine, ed esprime l’idea della risposta riparatrice della rottura. Va perciò considerato che, nella fenomenologia della responsabilità, quando più, quando meno, si mantiene quel carattere di ritualità e di solennità che è proprio dell’antico significato di sponsio. Non è, infatti, una qualunque risposta, ma è una risposta solenne, ed espressa con una certa qual ritualità, quella che segue alla rottura dell’equilibrio; tenendo conto che l’evento cui segue la risposta riequilibratrice è un qualcosa cui è relativo un giudizio su di un piano di valori di particolare rilevanza». La conclusione che se ne trae è ovvia: la responsabilità è una relazione normativa di implicazione necessaria fra un disvalore ritualmente e solennemente accertato e sanzione riparatrice. Il concetto continua ad essere bene espresso da G. Maiorca, op. cit., p. 1040: «nella prospettiva più generale, che è quella della presente ricerca teorica, l’illecito viene definito in termini di rottura (ciò significando i pur generali termini di offesa e lesione): rottura di un equilibrio; più precisamente, rottura di un ordine, di un equilibrio ordinativo; alla rottura segue la risposta, nella quale consecuzione consiste l’essenza della fenomenologia che si definisce in termini di responsabilità».

    Un’analisi della categoria generale della responsabilità in termini logico-formali è già stata fatta in R. Nobile, L’interferenza fra procedura disciplinare e processo penale: la sentenza assolutoria, la sentenza di condanna e la sentenza di patteggiamento, in www.lexitalia.it, 2002. In termini piú ampî, R. Nobile, La responsabilità: brevi annotazioni sulla sua forma logica, in Comuni d’Italia, 20, 2008, rièdito in www.lexitalia.it, 2008. Qui viene offerto un tentativo di formalizzazione della responsabilità in termini di implicazione necessaria: [-(Op)→OS] & [-(Op)] → OS, laddove “p” è l’azione o l’omissione che un dato soggetto agente deve tenere, “O” la sua obbligatorietà, “-(Op)” rappresenta la violazione della norma “Op”, “S” la sanzione prevista dall’ordinamento, e “→” l’implicazione necessaria. Il sintagma [-(Op)→OS] & [-(Op)] → OS può pertanto essere letto nei termini seguenti: se una data norma “Op” che qualifica come obbligatoria “O” una data azione od omissione “p” viene violata, e se la violazione è stata debitamente accertata, allora segue obbligatoriamente la sanzione “S”.

    Sulla responsabilità del pubblico dipendente sono illuminanti le concettualizzazione di V. Tenore, L. Palamara, B. Marzocchi Buracchi, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Giuffrè, Milano, 2009.

  41. A questo proposito è quanto meno curioso rimandare al mito di Prometeo – ossia colui che pensa prima di agire – il quale percorre l’intera parabola dello sviluppo della civiltà e del pensiero occidentale, cosí bene sottolineato nella sua tragicità nel Prometeo incatenato di Eschilo. Il mito è noto: Prometeo ruba il fuoco agli dèi e lo dona all’uomo, il quale, divenuto simile agli dèi, proprio tramite il fuoco diviene in grado di trasformare la realtà tramite la metallurgia, forgiando oggetti e trasformando il minerale grezzo in nuovi prodotti. Ma il fuoco è stato rubato con l’inganno. Di qui la punizione e il confinamento dell’ingannatore negli abissi. Di qui la loro sopravvenuta abilità degli uomini nel trasformare gli oggetti. Di qui anche la progressiva rilevanza della tecnica intesa come strumento. Oggi, che la tecnica è mondo e ambiente entro cui si danno le relazioni fra gli umani, si assiste a un vero e proprio scatenamento, con la conseguenza di rendere imprevedibili – ma anche non immaginabili – gli effetti che entro il mondo della tecnica possono essere prodotti dai relativi apparati. Ecco i passaggi più salienti della vicenda: «a rupi vertiginose quest’uomo costringi con ceppi infrangibili di catene adamantine. Egli sottrasse il tuo fiore, il bagliore del fuoco, ch’è padre di tutte le arti, e l’offerse ai mortali. Di tale misfatto bisogna che paghi le pene agli dèi, e impari a rispettare la signoria di Zeus abbandonando il suo amore eccessivo per gli uomini”. E ancóra: “Un dono largito agli uomini piega al giogo di questo destino me, un miserabile: chiusa nel cavo d’una canna furtiva sottraggo la sorgente della fiamma, che si rivelò ai mortali maestra d’ogni arte e formidabile risorsa». La traduzione è tratta da Le tragedie di Eschilo, Einaudi, Torino, 1956, pp. 123 e 128.
  42. Come è ampiamente noto, i moderni sistemi giuridici ancorano la responsabilità alla rappresentazione dei fatti – altrimenti detta “elemento oggettivo”, articolati in condotta, evento e nesso causale – ed elemento soggettivo, di volta in volta ricondotto al dolo o alla colpa, a loro volta disarticolati in sotto insiemi, nonché alla preterintenzione per il solo ordinamento penale.
  43. Su tutto ciò, G. Anders, ult. op.cit, p. 251, ove viene messa in questione la differenza radicale fra astrazione e percezione: in presenza di fattori complessi, lo scarto fra astrazione e percezione cresce con l’intensità quali-quantitativa del fenomeno. Come dire: la percezione si limita all’immediato e al già consolidato, ma non riesce a tenere il passo con l’immaginabile, segnando la cifra dell’inadeguatezza.
  44. Si veda l’art. 114, comma 1, seconda proposizione Cost. «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione».
  45. Il ricorso alle FAQ è particolarmente problematico ed è stato stigmatizzato dal Consiglio di stato. Se ne rinviene traccia in Cons. St., parere del 20 luglio 2021, n. 1275; Cons. St., 30 agosto 2023, n. 8065, in www.giustizia-amministrativa.it, 2023.
  46. La sacralità della sponsio era strettamente legata al diritto formulare arcaico, ove l’obbligazione era assunta dallo sponsor che alla domanda “idem dari spondes?” rispondeva “spondeo”.
  47. Ciò ha delle immediate ripercussione sulle modalità di funzionamento degli organi cui le costituzioni contemporanee affidano la titolarità della potestà legislativa. Fare leggi richiede tempi. E le leggi sono strumenti. E gli strumenti devono essere messi a punto in tempi compatibili con la realizzazione degli scopi cui sono preordinati. Se il tempo della realizzazione degli scopi attraverso lo strumento legislativo è incompatibile col tempo della legiferazione, allora quest’ultima è inidonea allo scopo. Di qui l’inattualità dei parlamenti, della loro elefantiasi, di molti dei loro regolamenti. Di qui anche il sempre piú massiccio ricorso alla decretazione d’urgenza, che il piú delle volte finisce con l’essere in re ipsa, ovvero alla decretazione delegata. Ciò spiega anche il massiccio ricorso a fonti di regolazione sub legislative nei casi di emergenza e perché per le situazioni di igiene pubblica, sanità e sicurezza sia ammissibile il ricorso al potere di ordinanza. Il covid insegna, come ben si trova compendiato in R. Nobile, COVID-19, dpcm del governo e problemi di sorveglianza linguistica: la tecnica e l’igiene del linguaggio non sono un optional. Spunti per un’analisi linguistica delle misure di contrasto al virus, in CERIDAP, 3, 2021, pp. 102 e ss.
  48. Un esempio tipico di questo modo di pensare è la discussione sull’eliminazione del reato di abuso d’ufficio. Altro esempio è quello della eliminazione della colpa grave per la configurazione della responsabilità risarcitoria per danno erariale. Qui in molti si stracciano le vesti come Caifa. Il riferimento a Caifa non è casuale, ma voluto.
  49. L’interesse privato è personale, commerciabile, rinunciabile e può essere organizzato e gestito mediante negozî giuridici e contratti. La legge ne è un mero limite esterno. Non cosí per l’interesse pubblico, il quale è declinato da fonti legali di regolazione, non è in alcun modo rinunciabile ed è strettamente connesso al potere di azione della pubblica amministrazione, costituendone il titolo e nel contempo il limite. L’azione amministrativa non è libera nello scopo, ma discrezionale. E la discrezionalità amministrativa è in uso del potere in vista del conseguimento dell’interesse pubblico per il quale esso è stato normativamente attribuito a quella determinata pubblica amministrazione. Il potere pubblico, in quanto funzionalizzato, è titolo e limite all’agire della pubblica amministrazione.
  50. Ne tematizza U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 228 e ss. Si veda, in particolare, p. 243 al § 6, Le psicopatologie da internet, del quale si raccomanda l’attenta e meditata lettura.
  51. Negli enti locali vale l’art. 109 del d.lgs. n. 267/2000, che pone al centro della questione non la figura del dirigente, ma quella della funzione dirigenziale, che, ove manca la dirigenza strutturata nell’organizzazione, poco importa se a tempo indeterminato o a tempo determinato, è svolta da funzionarî dell’area direttiva.
  52. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, trad. it. La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 1988, pp. 283 e ss.
  53. Sul management pubblico, fra i molti, si possono utilmente consultare: S. Bandera, M. Kalchschmidt, Management pubblico e competenze nell’era dell’incertezza, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2016; V. Pedaci, Il management pubblico, Simone, Napoli, 2012; L. Hinna, M. Lasalvia, La riforma della pubblica amministrazione tra diritto e management, EPC, Roma, 2011; E. Borgonovi, G. Fattori, F. Longo, Management delle istituzioni pubbliche, EGEA, Milano, 2009; F. Forte, L. Robotti, La gestione manageriale nella pubblica amministrazione, Franco Angeli, Milano, 2006; A.W. Steiss, Strategic management for public and nonprofit organizations, Marcel Dekker, New York, 2003; E. Borgonovi, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, EGEA, Milano, 2005; AA. VV., Management di regioni ed enti locali, Ceman, Roma, 2000; AA. VV., Practicing public management: a casebook, St. Martin’s Press, New York, 1983; J.D. Millett, Management in the public service, McGraw-Hill, New York, 1954.
  54. Tutto ciò trasforma il complesso di colpa in senso di inadeguatezza, determinando veri e proprî stati di angoscia. Lo mette in questione G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, C,H,.Beck, Monaco, 1956, trad. it. L’uomo è antiquato Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, op. cit., p. 251: «essa non è all’altezza delle prestazioni e delle altre facoltà; e non riesce a uguagliarsi a queste, a comportarsi “adeguatamente”, anche se lo tenta. I compiti di cui viene a capo l’uomo che prova angoscia sono più ristretti di quelli che signoreggia l’uomo produttore. E pertanto “l’uomo è inferiore a se stesso”».
  55. L’ordinamento giuridico diviene fatalmente un dis-ordinamento, ossia un ordinamento-disordinato. E qui ci piace fare una piccola digressione glottologica. In “ordinamento” risuona “r” e “at”. Ora la prima liquida rimanda al movimento (radice sanscrita); la seconda all’appropriatezza del modo (radice indoeuropea). Di qui la conclusione: l’ordinamento dovrebbe costituirsi attorno al moto ordinato. Ma con le premesse evidenziate nel testo, il movimento è tutto, fuorché appropriato. Anzi, è vero il contrario. Esso è dis-appropriato, ove “dis” (prefisso greco) denota e connota quanto di piú distante v’è dal termine di paragone. Di qui il dis-ordinamento dell’ordinamento giuridico.
  56. Sul potere e la responsabilità disciplinare nella pubblica amministrazione e sui suoi fondamenti si veda il magistrale V. Tenore, Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Giuffrè, Milano, 2017; L. Boiero, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2017; R. Nobile, La responsabilità e il potere disciplinare negli enti locali fra analisi della loro natura giuridica e conseguenze ordinamentali, in www.lexitalia.it, 2016.
  57. Entro questa prospettiva tramonta definitivamente la concezione della politica come arte régia, altrimenti definita da Platone come βασιλική τέχνηbasilikè tèchne. Qui la funzione della politica è chiara. Essa è sí una tecnica, ma lo è in modo del tutto particolare. E infatti, se tutte le altre tecniche sanno come fare le cose, la politica sa se e perché farle. Quindi la politica è il luogo di decisione. Oggi non è piú cosí: per decidere, la politica deve rivolgersi all’economia. 
  58. Se la politica dipende sempre di piú dall’economia, allora la seconda è immensamente piú potente della prima. Di qui la conseguenza: chiedere a chi è piú potente di dover non fare quel che la sua potenza gli consente di fare è semplicemente patetico.
  59. “Nomothetico” è aggettivo che deriva per crasi da νόμος (nomos) e ϑέσις (thesis), ossia da “norma” e “ciò che viene posto”. L’attività nomotethica è dunque attività di posizione di norme. Piú precisamente, promulgazione di disposizioni normative, che, sono tali perché esprimono significati normativi, ossia norme.
  60. Il fenomeno descritto è direttamente proporzionale alla frammentarietà e alla proliferazione dei partiti presenti negli organi cui è demandata la potestà normativa. Il problema è davvero complesso ed esula dall’economia del presente lavoro. Per una visione di insieme si rimanda a H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Meridian, Londra, 1962 trad it. Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004, pp. 351 e ss., ove viene messa in questione la differenza di sostanza fra il sistema bipartitico inglese e il sistema multipartitico continentale. Le osservazioni qui sviluppate sono quanto mai attuali e oggi complicate dalla presenza di formazioni politiche che si definiscono “movimenti” e che, tali e in effetti sono a tutti gli effetti.
  61. Il tema esula dei confini del presente lavoro. Qui basti solo ricordare che la verità per i greci è ἀλήθεια, ossia e alla lettera disvelamento che sovrasta i mortali, che si impone a loro – è questo il senso dell’ἐπιστήμη, ossia e sempre alla lettera “lo stare su della verità” – alla quale viene assegnata la funzione di cura contro il dolore provocato dalla morte, dalla malattia e dagli effetti delle avversità, come è ben presente nel secondo inno a Zeus nell’Agamennone di Eschilo, determinando un sapere stabile e non controvertibile.
  62. Sulla questione di cosa sia mai la democrazia, il rimando d’obbligo è a G. Sartori, Democratic Theory, Wayne University Press, Detroit, 1962; The Theory of Democracy Rivisited, Chatam House Publisher, New York, 1987, vol. I e II; Democrazia. Cos’è?, Rizzoli, Milano, 2007, passim. Del medesimo autore, The Theory of Democracy Revisited, Chatham House, Chatham N.J., 1987, passim. Per un primo inquadramento della materia, P. Biscaretti di Ruffia, Democrazia, voce in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Giuffrè, Milano, 1964, pp. 110 e ss.: «volendo, frattanto – sul piano strettamente giuridico – tradurre in una concisa definizione tele genericissima nozione della democrazia, pare potersi affermare ch’essa “sussiste quando, in un ordinamento statale, si riscontrino degli organici sistemi d’istituti e di norme atti a garantire giuridicamente la rispondenza dell’azione governativa alla concreta volontà della collettività popolare”». Sulla democrazia non può essere tralasciato il riferimento al pensiero sviluppato nel tempo da Norberto Bobbio. Dell’autore si possono utilmente consultare Democrazia, in N. Bobbio, N. Matteucci, Dizionario di politica, UTET, Torino, 1976, pp.. 296 e ss.; Il futuro della democrazia, in Nuova civiltà delle macchine, II, 3, 1984, pp. 11 e ss.; La democrazia dei moderni paragonata a quella degli antichi (e a quella dei posteri), in Teoria politica, III, 3, 1987, pp. 3 e ss.; Democrazia e dittatura, in Enciclopedia Einaudi, IV, Einaudi, Torino, 1978, pp. 535 e ss.; L’età dei diritti, in P. Polito (a cura di), Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, Sonda, Torino, 1989, pp.. 112 e ss.; Le ragioni della tolleranza, in AA.VV., L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, Mulino, Bologna, 1986, pp. 234 e ss.

    Sulla parola “democrazia” sono tristemente emblematiche le parole di George Orwell in Politics and the English Language e in The Principles of Newspeak, trad it. La neolingua della politica, Garzanti, Milano, 2021, p. 41: «nel caso di democrazia, non solo non esiste una definizione condivisa, ma il tentativo di trovarne una viene avversato da tutti i fronti. È quasi universalmente riconosciuto che intendiamo elogiare una nazione definendola democratica; di conseguenza, i difensori di qualunque regime sostengono che il loro è una democrazia, e temono di essere costretti a rinunciare a quella parola se venisse inchiodata a un qualche significato. Parole simili sono spesso usate in modo consapevolmente disonesto: la persona che le usa ha la propria definizione privata, ma permette a che ascolta di pensare che intenda qualcosa di molto diverso».

  63. Talvolta si sente dire che la partecipazione alla democrazia non v’è o v’è in misura ridotta perché mancano i luoghi di incontro. L’argomento è puramente mistificante: i luoghi vi sono, quel che manca sono due cose: la volontà e l’interesse a frequentarli. Di qui l’inutilità di promuovere forme di incontro telematico: la gente usa internet per fare altro. La cosiddetta democrazia digitale è un bluff. Per un esame della cosa in questione, R. Nobile, E-democracy, tecniche e politiche: tre nozioni che non dialogano, in CERIDAP, 2, 2022.
  64. La democrazia, che dovrebbe essere alla lettera “Κράτος” (kratos) del “δῆμος” (demos) finisce col consegnare alla storia un demos senza kratos. Ciò lascia aperta la potenza dell’immaginazione, che porta fatalmente a ipotizzare forme di potere occulto in mano a pochi per non dire pochissimi. L’idea è tutt’altro che stravagante ed è né piú, né meno che la teoria delle élíte, il cui antesignano è Gaetano Mosca. Se ne trova traccia in G. Mosca, Sulla teorica dei governi e del governo parlamentare, Tipografia dello Statuto, Palermo, 1884, ove sono particolarmente emblematiche le osservazioni per le quali «una candidatura è sempre l’opera di un gruppo di persone riunite per un intento comune, di una minoranza organizzata che, come sempre, fatalmente e necessariamente s’impone alle maggioranze disorganizzate» (p. 295) e «in ogni governo regolarmente costituito la distribuzione di fatto dei poteri politici non è sempre d’accordo con quella di diritto» (pp. 365-366). L’autore osserva che accanto ai detentori dei ruoli istituzionali espressamente previsti dal diritto pubblico, che quindi esercitano un potere formale sancito da norme costituzionali e legislative, vi sono i detentori di un potere sociale non meno importante di quello giuridico e di cui sono portatori tutti coloro che godono di rilevanti posizioni sul piano economico delle professioni, della finanza, dell’industria et coeteris paribus. Insomma, tutti coloro che, pur non ricoprendo cariche previste dall’ordinamento, esercitano una rilevante capacità di influenza sul corso della vita pubblica e quindi sulle condizioni concrete dell’esistenza dei singoli individui appartenenti ad una determinata società.

    Ovviamente chi la avversa ha pronto l’antidoto, che si chiama complottismo. Tacciare qualcuno di complottismo significa sempre e comunque negargli credibilità, determinando l’automatica svalutazione di tutto quel che egli dice. Tecnica elementare, ma efficacissima. Se ne trova ampio uso nelle trasmissioni televisive sempre piú urlate che i mass media propinano con frequenza preoccupantemente crescente.

  65. Per l’analisi delle modalità di formazione del consenso, e dunque organizzare opinioni tramite la propaganda applicata alla politica, si possono utilmente consultare gli ormai classici della materia W. Lippman, Public Opinion, Macmillan, New York, 1922, trad it. L’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 2018; E.L. Barnays, Crystallizing Public Opinion, Liveright Publishing Corporation, New York, 1923; E.L. Barnays, Propaganda, Liveright Publishing Corporation, New York, 1928, trad. it. Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Lupetti, Milano, 2008; J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft, Suhrkamp Verlag, Berlin, 1962, trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1971; V. Price, Public Opinion (Communication Concepts), Sage Publications, Inc, Thousand Oaks, 1992, trad. it. L’opinione pubblica, Il Mulino, Bologna, 2004; G. Gilder, Life after Television, Norton, New York, 1992, trad. it. La vita dopo la televisione, Castelvecchi, Roma, 1997. Ciò che davvero deve far riflettere è che i precipitati delle riflessioni degli autori citati sono confluite nelle modalità di attuazione della propaganda politica di Joseph Goebbels. Sulla questione, G. Magi, Goebbels. 11 tattiche di manipolazione occulta, PianoB, Prato, 2021.

    Un riferimento a parte va fatto al geniale G. Le Bon, Psychologie des Foules, Alcan, Paris, 1895, trad. it. La psicologia delle folle, TEA, Milano, 2004, ampiamente conosciuto da Lippman e Barnays, ma stranamente dimenticato in Italia.

  66. La nozione e il concetto di teatrocrazia risale a Platone e si ritrova ben esplicitato nel § 701 di Νόμοι, trad it. Le leggi, Laterza, Bari, 1993, pag. 116. La teatralizzazione della democrazia è il rischio oggi piú marcato; essa, a ben vedere, si fonda sul principio aberrante della valorizzazione dell’incompetenza. Un’utile rappresentazione di ciò che la teatrocrazia è si rinviene in J. de Romilly, M. Trédé, Petites leçons sur le grec ancien, Stock, Parigi, 2008, trad it. Elogio del greco antico, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2017, p. 62: «d’altronde, un’altra creazione platonica ingiustamente dimenticata, la “teatrocrazia”, potrebbe forse ritrovare vita e senso nel nostro mondo contemporaneo, definito a volta una “società dello spettacolo”. La teatrocrazia corrisponde, nell’evoluzione democratica, a quello stadio in cui tutti si credono competenti su tutto, senza aver nulla appreso, inizialmente a teatro, e poi negli altri campi del sapere. Ciascuno acquista allora una sicurezza che si trasforma ben presto in impudenza, rifiuta qualsiasi autorità e finisce col disobbedire alle leggi, non rispettando più né giuramenti, né impegni». Il quadro è davvero edificante, non v’è che dire.

    La situazione non è nuova. Essa è molto ben descritta da Polibio di Megalopoli nelle Storie. Anch’egli – come Platone nella Repubblica – sviluppa una sorta di ciclicità del divenire delle forme di governo, la piú perniciosa delle quali è l’oclocrazia. Durante l’oclocrazia il popolo, danneggiato dal disordine politico e dalla corruzione, svilupperà il sentimento della giustizia e sarà spinto a credere nel populismo e nei demagoghi, che porteranno lo Stato al caos da cui si uscirà quando emergerà un unico, e a volte virtuoso, demagogo che instaurerà il potere assoluto.

  67. Su tutto ciò, in tempi non sospetti, N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, pp. 34 e ss., del quale è utile rammemorare il pensiero: «Se per democrazia diretta s’intende alla lettera la partecipazione di tutti i cittadini a tutte le decisioni che li riguardano, la proposta è insensata. Che tutti decidano su tutto in società sempre più complesse come sono le società industriali moderne è materialmente impossibile. Ed è anche umanamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo etico e intellettuale dell’umanità, non auspicabile. […] Ma l’individuo rousseiano chiamato a partecipare dalla mattina alla sera per esercitare i suoi doveri di cittadino sarebbe non l’uomo totale ma il cittadino totale. E il cittadino totale non è a ben guardare che l’altra faccia non meno minacciosa dello stato totale. […]. Il cittadino totale e lo stato totale sono le due facce della stessa medaglia, perché hanno in comune, se pur una volta considerato dal punto di vista del popolo, l’altra volta dal punto di vista del principe, lo stesso principio: che tutto è politica, ovvero la riduzione di tutti gli interessi umani agli interessi della polis, la politicizzazione integrale dell’uomo, la risoluzione dell’uomo nel cittadino, la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica, e via dicendo». Sull’evoluzione del pensiero di Norberto Bobbio in materia, E. Grosso, Democrazia rappresentativa e democrazia diretta nel pensiero di Norberto Bobbio, in Rivista AIC, 4, 2015.
  68. Il riferimento colto è al linguaggio emotivo, caratterizzato dalla massiccia presenza di definizioni persuasive. Se ne rimanda la perimetrazione all’ormai classico C.L. Stevenson, Persuasive definition, in Mind, 1938, pp. 331 e ss.: «apersuasive” definition is one which gives a new conceptual meaning to a familiar word without substantially changing its emotive meaning, and which is used with a conscious or unconscious purpose of changing, by this means, the direction of people’s interest».
  69. Si pensi, a esempio, alla proliferazione dei referendum su questioni nelle quali la tecnica è sovrana. Per esprimersi compiutamente su quesiti che riguardano il ricorso agli OGM occorre essere almeno ingegneri molecolari o genetisti; per potersi esprimere compiutamente sull’utilizzazione dell’energia nucleare, ingegneri atomici o fisici delle particelle, et coeteris paribus. Quanto alla logica interna del referendum, va osservato che il suo esito è sempre a somma-0; e infatti, chi vince prende tutto, ossia si appropria del suo esito, mentre chi perde tutto, ossia non si appropria di alcunché. Ma dopo tutto, come bene osserva U. Galimberti, I miti del nostro tempo, op. cit., p. 218, «La tecnica potrebbe determinare la fine della democrazia (il condizionale è motivato dal fatto che siamo tutti affezionati alla democrazie, ma in realtà si potrebbe dire che essa è già venuta meno) […] In tutti questi casi [quelli menzionati nella nota] si possono giudicare con competenza i termini dei problemi, solo se si è rispettivamente un biologo, un fisico nucleare o un genetista. Le persone prive di queste specifiche qualità prenderanno posizione su basi “irrazionali”, quali sono l’appartenenza ideologica, a un partito, la fascinazione di chi è maggiormente persuasivo in televisione, la simpatia per un politico. Platone avrebbe definito questo sistema, che oggi potremmo chiamare telecrazia, in termini di retorica o sofistica».

    Il modello non interseca né è intersecato dalla maggior diffusione della cultura nel popolo: la cultura non crea competenze settoriali, ma dà solo l’illusione di configurarle. La verità è che le opinioni continuano a essere formate su base retorica e in generale irrazionale e raramente su nozioni e conoscenze precise e argomentabili. Su tutti ciò, già B. Berelson, Voting: A Study of Opinion Formation in a Presidential Compaign, Chicago University Press, Chicago, 1954, p. 311.

  70. Questa situazione è molto ben evidenziata, descritta e commentata da Kelsen e la trova espressa puntualmente in H. Kelsen, Allgemeine Theorie der Normen, Manzsche Verlags, Vienna, 1979, trad. it. Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, e prima ancóra in tutte le opere dell’autore ivi richiamate.
  71. Anche in questo caso la potenza della regola sulla produzione normativa è espressione del dominio della tecnica. Risuonano come monito da rammemorare le parole di Hobbes per le quali auctoritas, non veritas legem facit. In quel contesto, l’aforisma era riferito al Leviatano; oggi il riferimento è al parlamento. Proprio per questi motivi, le democrazie parlamentari prevedono quanto meno due baluardi ben precisi: la presenza nell’ordinamento delle Corti costituzionali e di norme a tutela delle minoranze, che, se non vi fossero produrrebbero vere e proprie forme di dittatura delle maggioranze.
  72. Ne è un chiaro indizio il dovere di concludere sempre i procedimenti amministrativi con un provvedimento espresso previsto dall’art. 2, comma 1 della l. n. 241/1990: «ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo».
  73. Sovente si sente dire che l’azione della pubblica amministrazione deve essere improntata a razionalità. Nulla di piú errato. L’accoppiata razionalità/ragionevolezza va di pari passo con quella che contrappone il dominio della scienza a quello dei mondo dei valori. Solo la scienza e nella sua massima estensione possibile quello della logica, rispondono a criterî di razionalità; quello dei valori, fino a tempi recenti comprensivo dell’etica, dell’estetica e di tutto ciò che riguarda la pragmaticità, risponde a canoni di ragionevolezza. Tutto ciò è molto ben mostrato e dimostrato da G.H. von Wright, Explanation and Understanding, Cornell University, Ithaca, 1971, trad it. Spiegazione e comprensione, Mulino, Bologna, 1977, pp. 29 e ss. e ripreso in G.H. von Wright, Immagini della scienza e forme di razionalità, Editori Riuniti, Roma, 1987, p. 27 e ss. Il riferimento ai trattati sull’argomentazione giuridica si sprecano.
  74. Le azioni penali e contabili sono doverose, e impongono al procuratore, che è procuratore dello Stato, di avviare di volta in volta il procedimento piuttosto che il relativo processo.
  75. Un esempio ludico a chiarimento del concetto è mutuabile dal gioco degli scacchi. Ogni pezzo è veramente pezzo se e solo se esso il luogo di imputazione delle regole che ne definiscono le mosse e una mossa è davvero mossa se e solo se essa è compiuta in conformità alle regole che ne definiscono la fattibilità. In questo senso, il gioco degli scacchi non ammette violazione: chi muovesse ortogonalmente l’alfiere o diagonalmente la torre giocherebbe eo ipso a un altro gioco. A ciò si possono muovere due obiezioni: in alcuni giochi non tutte le mosse sono rigidamente normate; l’attività della pubblica amministrazione non è un gioco. Nessuna delle due è pertinente. Non la prima, perché essa confonde la mossa con i suoi effetti (es: nel tennis la pallina non può esorbitare i limiti orizzontali del campo e in certi casi non deve toccare la rete; nulla però vieta che essa la sopralzi di misura: la dimensione verticale della pallina è indifferente). Non la seconda, perché l’ordinamento della pubblica amministrazione è costitutivamente definito dalle sue regole legali. Se le regole costitutive dell’azione amministrativa non costituiscono un ordinamento, ma un dis-ordinamento, allora gli effetti della sua azione divengono imprevedibili e come tali dovrebbero essere considerati. Su tutto ciò, R. Nobile, Norme d’azione e norme di relazione: una dicotomia da abbandonare, in www.lexitalia.it, 2001. Vi si può contro obiettare che l’azione del funzionario pubblico è comunque in e per l’ordinamento. Che dire però se gli effetti della sua azione sono ordinamentalmente impredittibili: è evidente che l’obiezione è speciosa e preordinata al mascheramento dell’inidoneità non del funzionario, ma dello stesso ordinamento. Su tutto ciò, mi si consenta un rinvio alla mia tesi di laurea, Esistenza di norme e logica deontica – Facoltà di giurisprudenza di Genova, anno accademico 1986/1987.
  76. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1980, p. 137,: «Qual è lo scopo in filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola». Ma per non cadere nella trappola occorre muoversi entro i confini del linguaggio di senso. Alla qual cosa l’investigazione dell’origine delle parole è indispensabile.

Riccardo Nobile

Segretario Generale del Comune di Pavia. Giornalista pubblicista