Covid-19 e biodiversità: termini di un legame difficile

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2/2020

Covid-19 e biodiversità: termini di un legame difficile

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La crisi pandemica globale ha scoperto i nervi più vulnerabili della nostra rete socio-economica, rendendo manifesta la necessità di inquadrare il rapporto tra la diffusione del coronavirus e la frattura ecosistemica. Ogni ecosistema ha un equilibrio che gli consente di fornire risorse e rinnovarsi fino a che non giunge a un punto di rottura (c.d. tipping point). Il coronavirus, assieme alla perdita progressiva di biodiversità e di risorse per reagire, rischia di costituire il nostro tipping point.


Covid-19 and biodiversity: poles of a difficult connection
The global pandemic crisis has uncovered the most vulnerable nerves in our socio-economic network, making it clear that there is a need to frame the relationship between the spread of the coronavirus and the ecosystem fracture. Each ecosystem has a balance that allows it to provide resources and renew itself until it reaches a sort of breaking point (the so-called “tipping point”). The Coronavirus, together with the progressive loss of biodiversity and resources to react, risks becoming our tipping point.

1. Ma che colpa abbiamo noi

Circa un paio di settimane fa un quotidiano nazionale riportava un articolo[1] – dal quale è stato mutuato il titolo di questo paragrafo – che scandiva con forza e precisione le ultime, allarmanti tappe di un percorso di studi scientifici sulla perdita di biodiversità nel pianeta, inquadrandola come una tra le cause principali della diffusione del Covid-19.

La biodiversità – la varietà biologica presente nell’ecosistema – è fondamentale per la sopravvivenza delle specie, non ultima quella umana. Il mantenimento di un equilibrio ecologico è la chiave non solo per erigere una forte cortina difensiva dal dilagare di virus, pandemie, ma anche per conferire maggiore equità ai rapporti economici. La perdita della varietà biologica è la diretta causa dell’estinzione delle specie e dell’esaurimento delle risorse naturali: più in generale, del disequilibrio ecosistemico.

L’errore centrale quando si parla di ecosistemi e di biodiversità è quello per cui, in fondo, questi pericoli di estinzione delle specie riguarderebbero solo piante e animali, mai l’uomo: il quale si cura purtroppo, nella veste di decisore pubblico e in quella di soggetto privato, della mera salvaguardia dei rapporti economico-sociali[2].

È quanto sta accadendo col lockdown: tentativi incessanti, cadenzati a colpi di d.p.c.m. e di d.l. quindicinali, di contemperare interessi pubblici (e privati) l’un contro l’altro rissosi e armati, come nell’Olimpo gianniniano. Un legislatore che incide fortemente sulle esistenze dei singoli, limitando diritti costituzionalmente tutelati e libertà fondamentali[3], e che frena le attività economiche e commerciali. I nostri conti pubblici risentiranno di una perdita post-crisi che, se possibile, spaventa finanche più della crisi stessa[4]. Un prezzo che pare inevitabile pagare pur di conservare intatta la salute della popolazione e garantire ancora le prestazioni sanitarie, saggiando la tenuta della rete del SSN, fortemente pressata e quasi al collasso: fattore, quest’ultimo, particolarmente pericoloso se si pensa che, oltre all’ondata incontrollabile dei malati Covid-19, quel sistema deve anche garantire le ordinarie prestazioni sanitarie pubbliche.

Primum vivere, insomma: la primazia del diritto alla vita è in re ipsa, si afferma prima ancora dei diritti e delle libertà sociali ed economiche[5]. Ma quanto costa una vita? Quant’è caro il prezzo da pagare, in termini economici e sociali, per salvaguardare la vita umana?

2. Perdita di biodiversità: i riscontri scientifici

Siamo ancora disposti a pagare un prezzo elevato, obtorto collo: le trattative sul Mes proseguono su più tavoli di lavoro, tra richieste di aiuti all’Europa e il rifiuto d’indebitarsi a condizioni i cui strascichi condizionerebbero la nostra economia per lunghi anni.

Resta l’errore di prospettiva: ancora una volta antropocentrica, e che ci impedisce così di guardare al fenomeno Covid-19 nella sua globalità.

Il problema, in realtà, trascende l’uomo. Non soltanto il Covid-19 ha impatti importanti sulla biodiversità dell’ecosistema; ma la perdita di biodiversità è stata identificata anche tra le cause della pandemia. Il pericolo per la specie umana costituisce, insomma, una tessera di un mosaico decisamente più esteso.

Vediamo qualche dato.

L’estinzione delle specie è un fenomeno naturale, ma la sua velocità è oggi aumentata: «i tassi attuali e previsti della perdita di biodiversità costituiscono il sesto più grande evento di estinzione nella storia della vita sulla Terra, il primo a essere determinato in particolare dagli impatti antropici sul pianeta»[6]. Dallo studio dei precedenti eventi di estinzione sono stati rilevati massicci e permanenti cambiamenti nella composizione biotica e nel funzionamento degli ecosistemi globali; l’elevatissimo tasso di estinzione attuale suggerisce però conseguenze non lineari e in gran parte irreversibili di perdita di biodiversità su vasta scala. «Ormai il tasso di estinzione globale supera di gran lunga il tasso di speciazione; gli esseri umani, con l’avvento dell’era dell’Antropocene, hanno aumentato il tasso di estinzione delle specie di circa 100-1000 volte rispetto ai tassi storicamente registrabili nell’era precedente (Olocene). Attualmente circa il 25% delle specie appartenenti ai più noti gruppi tassonomici sono a rischio di estinzione»[7]. Già nel 1998 uno studio della Duke University[8] prevedeva che se l’estinzione delle specie fosse progredita a ritmo costante, il pianeta avrebbe subito la perdita di due terzi delle specie viventi nell’arco del XXI secolo. Un altro noto studio sui cc.dd. Planetary Boundaries[9] – ovvero i “limiti” del pianeta, superati i quali la frattura ecosistemica sarà irrimediabile e la sopravvivenza impossibile – ha proposto di misurare la perdita di biodiversità proprio tramite il tasso di estinzione, «ossia il numero di specie estinte per milione di anni (E/MSY). Dai reperti fossili si ricava che la biodiversità ha potuto storicamente mantenersi nell’Olocene grazie a un tasso di estinzione stimabile, in media, in 1 E/MSY. Nello studio, assunta come limite planetario la soglia di 10 E/MSY, si è dimostrato che il tasso attuale di estinzione è ben superiore a 100 E/MSY, dunque esorbita di dieci volte il confine planetario; non solo, ma le proiezioni dimostrano che, senza radicali interventi correttivi, il tasso di estinzione supererà i 1000 E/MSY entro la fine del secolo (una trasgressione pari a cento volte il confine planetario)»[10]. Da qui il monito a una radicale riduzione della perdita di biodiversità perché il pianeta non può sostenere a lungo questo ritmo di perdita specifica senza collassare.

3. Covid-19 e biodiversità: la relazione interpolare

Questi i dati. Né l’uomo è al riparo dal collasso ecologico.

Lo testimonia anzitutto il rapporto causa-effetto nella prima declinazione: quella che vede nella progressiva perdita della biodiversità una concausa della pandemia.

Il diffondersi di alcuni virus come il Sars-Cov-2 – all’origine del Covid-19 – è alla base di zoonosi (malattie trasmesse dagli animali all’uomo) e di alcune “malattie emergenti” (Ebola, Aids, Sars, influenza aviaria o suina) che hanno colpito gli esseri umani: la diffusione è tuttavia conseguenza di comportamenti non rispettosi degli habitat e delle risorse naturali, tra cui il commercio illegale o non controllato di specie selvatiche e, più in generale, dell’aggressione antropica sugli ecosistemi naturali[11].

È illuminante il report di Wwf Italia[12], che mette in evidenza i collegamenti fra le azioni dell’uomo e alcune malattie dal massiccio impatto non solo sulla salute delle persone, ma anche sui rapporti socio-economici.

Il Covid-19 è solo l’ultima delle c.d. malattie emergenti.

Questo, in breve, il percorso più accreditato che il virus avrebbe fatto: l’agente patogeno vive in simbiosi con un ospite, cioè – secondo i dati diffusi dai media – un pipistrello selvatico; inadatto a sopravvivere nell’uomo, l’agente patogeno è transitato poi in animali la cui struttura genetica era più ospitale; così mutato e adattato[13], si è poi trasmesso all’essere umano.

È lo spillover[14]: una tracimazione del virus dal suo habitat naturale all’ambiente antropico; avvenuta, si badi, non per una casualità o per l’invasione, da parte della creatura animale, dell’habitat dell’uomo. È l’esatto contrario: l’uomo invade gli ambienti più selvatici, spesso con pratiche aggressive di deforestazione e consumo di suolo vòlto all’urbanizzazione e alla speculazione; ma in quegli ambienti vivono specie animali ancora sconosciute, non classificate, nonché gli agenti patogeni, i virus e i batteri che da esse sono ospitati. Virus che, in assenza di barriere naturali – quali, per esempio, clima, vegetazione tipica, tasso di umidità, corsi d’acqua, catene montuose: in genere, l’orografia del territorio – si diffondono: «si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie», dice Quammen.

L’Antropocene è proprio questo: l’era segnata dalla pressione antropica sul pianeta, che sta esaurendo le sue risorse naturali, asservite ai bisogni umani ma ormai non più sufficienti neanche a proteggerlo.

A questo si aggiunge – riporta il dossier del Wwf – la spregiudicata diffusione dei mercati clandestini di fauna selvatica: le pandemie degli ultimi decenni hanno avuto origine proprio nei mercati di metropoli asiatiche o africane dove prospera il commercio illegale o incontrollato di animali selvatici vivi, di scimmie, di pipistrelli, di carne di serpente, scaglie di pangolini, e tanti altri rettili, mammiferi e uccelli. Commercio che distrugge la fauna e favorisce il contatto tra l’uomo e le malattie di queste creature: si sviluppano, così, vecchie e nuove zoonosi. Lo stesso Covid-19 pare esser nato in uno dei mercati clandestini e densissimi della provincia di Wuhan, dove le carni selvatiche – specie quelle di pipistrello e pangolino – sono macellate, frollate e vendute – per intero o in tranci – in spregio a qualunque standard igienico-sanitario.

Qual è allora il legame tra biodiversità e Covid-19?

Nel dossier Wwf sono illustrati due vantaggi della varietà biologica nel contrasto alle zoonosi.

Il primo: l’effetto di diluizione. In un ecosistema con una ricca comunità di potenziali ospiti (animali in cui un virus o un altro organismo si possono riprodurre), un agente patogeno ha una minore probabilità di trovare un ospite in cui possa facilmente moltiplicarsi (highly-competent host) e da cui possa diffondersi utilizzando un altro animale vettore. In uno scenario ricco di creature diverse è più probabile che l’organismo patogeno “si colleghi” a una specie non adatta, che funzionerà da “trappola ecologica” per l’organismo patogeno o per il suo vettore: i “dead-end hosts”, ovvero ospiti “a vicolo cieco”.

Ma in condizioni di bassa biodiversità prevalgono poche specie viventi in abbondanza: perciò le probabilità che il virus si colleghi a un “dead-end host” calano pertanto in modo considerevole; le specie residue saranno quindi facile veicolo di infezioni, perché più esposte a contrarle e farle prosperare.

Secondo vantaggio della biodiversità: l’effetto coevoluzione. La nascita e lo sviluppo di agenti patogeni – ma più in generale delle specie viventi – è fenomeno naturale che proviene dal contatto prolungato tra le forme di vita di un determinato habitat e consente a tutte di evolversi “mutuando” ciascuna dall’altra segmenti di patrimonio genetico. Quando tuttavia l’uomo distrugge progressivamente gli habitat naturali, limitandone l’estensione, il frantume di natura che ne rimane agisce come un’isola nella quale i microbi e gli animali che li ospitano subiscono una rapida diversificazione ed evoluzione, aumentando in questo modo la probabilità che uno o più di questi microbi possano riuscire a infettare l’uomo, diffondendosi e creando epidemie.

È evidente che la minaccia antropica alla biodiversità è talmente forte che, se prosegue incontrastata, condurrà l’ecosistema al punto di rottura, al c.d. tipping point: non si tornerà più indietro, e non sarà più solo un problema di salvare specie in estinzione come se queste fossero “altro” da noi.

La relazione tra Covid-19 e biodiversità è tuttavia problematica anche quando i due poli si rovesciano: quando si guarda agli effetti della pandemia sull’ecosistema.

Qui il risultato si fa paradossale: il virus e i seguenti lockdown negli oltre cento Paesi colpiti dal contagio hanno neutralizzato l’impatto antropico. Mesi di fermo stanno – seppur in modo estremamente lento e però visibile – mutando di nuovo il volto del nostro ecosistema[15].

Anzitutto le aree protette, i parchi naturali, restano ancora sotto vigilanza: pare, però, che le ridotte pressioni umane sulle specie selvatiche – a causa delle restrizioni di viaggio e della chiusura dei parchi – abbiano conseguentemente diminuito l’impatto delle fonti di stress sugli animali più sensibili e svuotato i percorsi più commerciali e battuti, con conseguente ripristino della condizione naturale quo ante. Le immagini satellitari hanno mostrato notevoli miglioramenti nella qualità dell’aria in tutti i Paesi colpiti dalla pandemia, con l’arresto dell’industria e dei trasporti. Il trasporto marittimo è diminuito in tutto il mondo e si possono prevedere impatti ridotti sui sistemi marini. Si prevede una diminuzione globale delle emissioni di gas a effetto serra, nonché grandi riduzioni di altri fattori di riscaldamento globale, come i cirri di scia di aeromobili ad alta quota. Tutti miglioramenti a breve termine, i quali però sottolineano drammaticamente la pervasività e la gravità degli impatti antropici sul pianeta[16].

4. Qualche riflessione conclusiva

Una prima conclusione. Il rapporto tra coronavirus e biodiversità è biunivoco: se la perdita della varietà biologica è tra le cause della diffusione dell’agente patogeno, è altresì vero che questo agente sta paradossalmente restituendo all’ecosistema un suo equilibrio.

Sulla linea di questo rapporto c’è l’uomo. Donde il titolo giornalistico di queste note: «ma che colpa abbiamo noi». Sembra plausibile che sia l’uomo stesso la causa del male che lo sta affliggendo.

Fisicamente, nella sua vita e nella sua salute; ma anche negli aspetti socio-economici. Basti pensare che la precedente zoonosi più nota, la Sars del 2003, anch’essa generata nei mercati clandestini asiatici, è costata all’economia globale miliardi di dollari[17].

Sono ingenti i costi per il sistema sanitario, per la ricerca di vaccini e farmaci: il cui prezzo – una volta brevettati – sarà oggetto di trattativa con i governi. Vaccini e farmaci che potrebbero anche sviluppare, a lungo andare, la resistenza del virus, se le pratiche di violenza sull’ecosistema non saranno frenate.

Incalcolabili i danni per le imprese: il settore turistico copre fino al 15% del PIL nel nostro Paese.

Qual è il contributo che il diritto può dare in questo contesto? Le riflessioni dei giuspubblicisti sono ampie e articolate[18] e confermano la necessità d’un approccio globale vòlto alla riconsiderazione generale del ruolo dell’uomo nelle azioni ad alto impatto sugli interessi pubblici a rilievo anzitutto ecosistemico.

Si è accennato, in apertura, alla necessaria primazialità della difesa della vita nel senso bio-fisico: occorre riconsiderare il ruolo del decisore pubblico nella gestione d’interessi confliggenti che vedono, troppo spesso ancora, in posizione recessiva quelli la cui tutela ha effetti benefici nel lungo termine (e che, dunque, non sono immediatamente visibili).

Il principio dello sviluppo sostenibile[19] – pur incisivamente positivizzato – pare peraltro aver perso traenza nella lettura datane dal diritto giurisprudenziale.

Nella vicenda che più ha colpito, di recente, il territorio pugliese (il caso ILVA), e che ha visto il contrasto durissimo tra diritti economico-sociali e diritto alla salute, la Consulta – adìta dal Giudice ordinario di Taranto – si è pronunciata in modo rinunciatario, senza mai nominare nella sua sentenza il sintagma “sviluppo sostenibile”[20].

Da più parti, però, si fa strada l’idea di un necessario rapporto olistico[21] tra discipline scientifiche: la tutela ambientale e della biodiversità sono strettamente connesse con la protezione della salute umana e della vita[22]. Interessi da tutelare in sinergia[23] tra loro e con quelli di contenuto socio-economico[24].

Ripartire dunque – non sembri una parenesi vacua e retorica – nel rispetto dell’ecosistema, degli habitat naturali, delle creature non umane. Tornano le parole di Lombardi Vallauri e del plèroma laico da lui auspicato[25], interno a una visione finalmente biocentrica dell’esistenza[26].

Alcuni ordinamenti ci hanno già pensato: la Francia, con la sua recente legge sulla tutela della biodiversità[27]. Non mancano gli strumenti per una governance orizzontale dell’ambiente in cooperazione tra Stato e cittadini; e il panorama internazionale è costellato di intenti, programmi, trattati, dichiarazioni[28]. Che devono essere, ora, tradotti in azione tangibile.

La resistenza di un sistema reticolare si misura dal suo legame più vulnerabile: è compito anche del diritto scongiurarne la rottura. L’ecosistema ha oggi il punto più debole nell’uomo, il Predatore d’apice.

  1. La Repubblica, 15 aprile 2020, Ma che colpa abbiamo noi. La biodiversità alterata dall’uomo favorisce le pandemie, di Stefano Mancuso, p. 28.
  2. L’integrazione dell’uomo nella natura che lo circonda è ancora pensiero difficile da raggiungere, specie per i giuristi: il diritto risente di stratificazioni antropocentriche che hanno legittimato l’essere umano a guardare alla natura e alle altre creature (non antropomorfe, chiaramente) come un secondario “altro da sé” e non, invece, come componenti essenziali per la sua stessa esistenza. Ne traccia un affresco P.L. Portaluri, Lupus lupo non homo. Diritto umano per l’ethos degli “animali”?, in Aa.Vv., Studi in onore di Ernesto Sticchi Damiani, Napoli, 2018 e, con ancor maggior energia, Id., Dal diritto delle costruzioni nelle città al governo del territorio, in Federalismi.it, n. 19/2019.
  3. V. in proposito, tra gli altri, L. Cuocolo, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 31 marzo 2020, e in particolare la sua riflessione sulla reazione italiana al virus. L’A. analizza i diritti e le libertà oggetto di limitazione e rileva i dubbi profili di legittimazione del Governo, vagliandoli alla luce degli artt. 77 e 120 Cost.: i d.p.c.m., infatti, «non sono soggetti né al controllo preventivo del Presidente della Repubblica, né al controllo successivo del Parlamento, che per i decreti-legge si concretizza nella procedura di conversione in legge, garantita dalla Costituzione. Residua, come unico controllo, quello preventivo di legittimità, esercitato dalla Corte dei conti. Il punto appare estremamente delicato e di incerta compatibilità costituzionale, soprattutto – come detto – per il rinvio sostanzialmente “in bianco” operato dal decreto-legge n. 6. Nell’adozione dei Dpcm, cioè, il Governo appariva sostanzialmente libero di adottare qualsiasi misura ritenga utile, senza alcun vincolo sotto il profilo della legalità sostanziale. In considerazione di ciò è da considerare con particolare favore l’adozione del nuovo decreto-legge n. 19, del 25 marzo 2020. Il nuovo testo, infatti, non contiene più una clausola “in bianco”, ma solo un elenco (molto articolato) di misure restrittive che potranno essere adottate con Dpcm. La correzione di rotta appare maggiormente in linea con le esigenze di rispetto del principio di legalità» (pp. 32-33).
  4. J. Ziller, Europa, coronavirus e Italia, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 24 marzo 2020, e in Ceridap.eu, rileva che lo scenario è assimilabile a quello post-bellico del ’45: sarà centrale il ruolo dell’Unione europea come «meta comune delle istituzioni» di Francia e Italia, i primi Paesi europei colpiti dal contagio. L’A. auspica pertanto una iniziativa congiunta dei due Stati nel preparare il “Trattato del Quirinale”.
  5. Questo perché – come afferma M. Monteduro, Principi del diritto dell’ambiente e conformazione della discrezionalità amministrativa: sviluppo sostenibile e non regressione, in Quad. dir. proc. amm., 2017, pp. 149 ss., spec. p. 160 – l’interesse alla difesa della vita nella dimensione ecologica ha un ruolo logicamente prioritario rispetto agli interessi pubblici di rango socio-economico: «il collasso delle condizioni ecologiche che garantiscono la vita umana in senso bio-fisico determinerebbe, inesorabilmente, il collasso di qualsiasi società ed economia, privando di esistenza e quindi di senso ogni discorso riferito ai relativi ordini di interessi». Rileva lo stesso A. che questa priorità logica, tuttavia, incontra difficoltà a tradursi in giuridica preminenza gerarchica dell’interesse alla tutela dell’ecosistema nelle decisioni amministrative: ne è prova l’interpretazione spesso ambivalente da parte di dottrina e giurisprudenza del principio dello sviluppo sostenibile di cui all’art. 3-quater, d.lgs. n. 152/2006. Se per un verso a quel principio è assegnata priorità nell’assunzione di decisioni pubbliche, per altro verso questa priorità non è assoluta rispetto agli altri interessi di matrice economica, sociale, finanziaria, che non sempre (anzi, nella prassi, quasi mai) sono recessivi. V. in proposito anche M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in RQDA, 1-2/2012, pp. 62 ss., per il quale anche se le disposizioni interne ed europee prescrivono il mantenimento di un «elevato livello» di tutela ambientale, è altresì vero che questo livello non è «massimo»: l’aggettivo «elevato» si presta pur sempre, dunque, a bilanciamenti con gli altri interessi.
  6. Dati riportati da M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, in Rivista AIC, n. 2/2018, p. 21, nota 43.
  7. Ancora M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, cit., nota 43.
  8. L.D. Guruswamy, J.A. McNeely (eds.), Protection of Global Diversity. Converging Strategies, Duke University Press, 1998. L’opera collettanea vede anche il contributo di Elinor Ostrom, Nobel per l’economia nel 2009 e fondatrice della moderna linea di pensiero sui beni comuni, la cui gestione dev’essere collettiva per garantire l’attuazione della solidarietà interspecifica e intergenerazionale.
  9. J. Rockström, M. Klum with P. Miller, Big world, small planet. Abundance within Planetary Boundaries, Maxström eds., 2015, in http://media.bonnierforlagen.se/bladderexpdf/9789171263346.pdf; v. anche l’edizione italiana, Id., Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari, Milano, Edizioni Ambiente, 2015.
  10. Sempre M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, cit.
  11. Lancet Commission on Planetary Health, 2015: v. nella specie il fascicolo monografico dal titolo Safeguarding human health in the Anthropocene epoch: report of The Rockefeller Foundation – Lancet Commission on planetary health, in Thelancet.com; v. anche la sezione appositamente dedicata al Covid-19 Resource Centre, in cui sono presenti contributi scientifici relativi all’attuale pandemia.
  12. Wwf Italia, Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi. Tutelare la salute umana conservando la biodiversità, Wwf Italia Onlus, 2020, in Wwf.it.
  13. Come bene spiega il report del Wwf, «ogni volta che il virus infetta un ospite, mescola il proprio patrimonio genetico con quello di altri virus presenti nell’ospite, si riproduce a spese della cellula che infetta e poi abbandona l’ospite, ma con un corredo genetico diverso. In questo modo analizzando il DNA o RNA del virus si può “tracciare” il suo passaggio attraverso diverse specie» (p. 8).
  14. D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, Milano, 2012.
  15. Ne riferiscono R.T. Corlett et al., Impacts of the Coronavirus on Biodiversity Conservation, in Biological Conservation, 246 (2020), in https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7139249/.
  16. Sempre R.T. Corlett et al., Impacts, cit.
  17. Gli studi economistici sugli effetti della Sars sono molto ampi e diffusi: tra tutti, specie quelli sull’economia asiatica, v. I. Noy e S. Shields, The 2003 Severe Acute Respiratory Syndrome Epidemic: A Retroactive Examination of Economic Costs, in ADB Working Paper Series, no. 591, oct. 2019, in https://www.adb.org/sites/default/files/publication/530216/ewp-591-sars-epidemic-2003-economic-costs.pdf, pp. 4 ss.: «The SARS outbreak generated substantial attention and panic internationally. One reflection of this panic was the early economic projections on the impact of SARS, which generally predicted losses to be greater than what eventually transpired […]. The most significant economic losses occurred in: (i) the People’s Republic of China; (ii) Hong Kong, China; (iii) Singapore; and (iv) Taipei, China […]. During the height of the epidemic, international visitor arrivals fell dramatically in these four economies that had the most SARS cases and resulted in an estimated gross domestic product (GDP) loss amounting to $13 billion […]. Overall, the economic cost of SARS has been estimated in the range of 0.5%–1% of annual GDP across the affected economies in the Asia-Pacific Economic Cooperation region, though this might be inaccurate […]. The observed effects were unequal across sectors […]; disproportionately affecting tourism, leisure, and transport, and equating to estimated losses of $8.5 billion in the PRC; $1.4 billion in Malaysia; and $1.3 billion in Hong Kong, China». V. anche il Report di S. Knobler et al. (eds.), Learning from Sars. Preparing for the Next Desease Outbreak, Workshop Summary of the Institute of Medicine (US) Forum on Microbial Threats, National Academic Press, Washington DC, 2004, soprattutto J.W. Lee e W.J. McKibbin, Estimating the Global Economic Costs of Sars, in https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK92473/.
  18. Per indicare solo alcune delle riflessioni sul web, v. www.federalismi.it, che ospita una sezione Osservatorio Covid-19; o il sito del Centro di ricerca CERIDAP, www.ceridap.eu, anch’esso focalizzato sul Covid-19; adde gli interventi su www.lacostituzione.info.
  19. Parte della dottrina (M. Renna, op. cit.), nonostante la discussa portata della norma, ha ritenuto che l’ambiente possa avere un “peso specifico” maggiore rispetto agli interessi – per esempio – economici nelle decisioni pubbliche, ma comunque non necessariamente predominante nel bilanciamento. Di avviso simile è F. Fracchia, Principi di diritto ambientale e sviluppo sostenibile, in P. Dell’Anno ed E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente, vol. I. Principi generali, Padova, 2012, pp. 559 ss., in particolare p. 602.
  20. Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, spec. punto 9 in diritto: «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo “fondamentale”, contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un “carattere preminente” del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come “valori primari” (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale».
  21. Sono molti gli Autori che fanno appello a questo tipo di approccio e in diverse aree tematiche del diritto pubblico. Tra gli altri, M. Ramajoli, Dalla food safety alla food security e ritorno, in Amministrare, n. 2-3/2015, pp. 271 ss., per la quale esso è volto alla tutela non solo della salute, ma anche dell’agricoltura, dell’uso dei suoli, dell’ambiente, degli scambi commerciali, del consumatore e della sicurezza dei lavoratori; F. De Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in Dir. amm., n. 1/2017, pp. 163 ss., per il quale la legislazione sulla c.d. blue economy, orientata al riutilizzo dei residui e degli scarti come fonti produttive, richiama la necessità di una gestione integrale della catena produttiva tramite modelli organizzativi nuovi; la stessa legislazione «evidenzia che occorre creare “valore dalla biodiversità locale e dalla circolarità”: partire da ciò che si ha, valorizzarlo (rifiuti biologici, terreni agricoli, aree industriali abbandonate) invece di cercare ciò che non si ha o che non c’è. Occorre passare ad un’economia sostenibile “a chilometri zero” e ciò si ottiene spostandosi dall’utilizzo delle risorse non-rinnovabili a quelle rinnovabili in loco e evitando il sovrasfruttamento delle risorse rinnovabili (tassi di raccolta non superiori ai tassi di rigenerazione naturale)».
  22. La tutela ambientale investe soprattutto il diritto urbanistico: ne sono prova le recenti legislazioni regionali in materia di uso e governo del territorio volte alla c.d. rigenerazione urbana e alla riduzione drastica del consumo di suolo, le quali si prefiggono di incarnare il principio dello sviluppo sostenibile – anche urbano – e un miglioramento delle condizioni di vita del tessuto sociale ivi insediato. V. anche R. Rota, Principi e istituti ecogiuridici per il governo “rigenerativo” del territorio. Verso un green new deal, in Aa.Vv., Scritti in onore di Eugenio Picozza, Napoli, 2019, spec. p. 1478: «Il territorio e la città sono visti, infatti, come sistemi complessi in continuo mutamento, costituiti da sistemi sociali e sistemi ecologici strettamente interdipendenti e inseparabili, soggetti a cicli di continuo cambiamento e adattamento che li rendono dinamici per definizione. Secondo questo approccio la resilienza diventa uno degli strumenti per garantire la sostenibilità dell’ecosistema urbano nel lungo periodo».
  23. Di sinergia tra interessi apparentemente conflittuali – nello specifico, tutela dell’ambiente e alimentazione – parla G. Rossi, L’evoluzione del diritto dell’ambiente, in RQDA, n. 2/2015, p. 2 ss.
  24. I quali possono anche trarre benefici dalla sostenibilità, per esempio sotto il profilo finanziario. Sono allo studio iniziative di collaborazione pubblico-private per garantire un nuovo sviluppo del welfare sociale: v. in proposito C. Mignone, Investimento a impatto sociale: etica, tecnica e rischio finanziario, in Rass. dir. civ., n. 3/2016, pp. 924 ss.
  25. S. Castiglione, L. Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto. La questione animale, Milano, 2012.
  26. Ne ha dato dimostrazione una recente pronuncia della Corte costituzionale, sent. 16 luglio 2019, n. 179, per la quale «il consumo di suolo rappresenta una delle variabili più gravi del problema della pressione antropica sulle risorse naturali». Ne parla, da ultimo, sostenendo l’approccio biocentrico, P.L. Portaluri, Spunti su diritto di ricorso e interessi superindividuali: quid noctis, custos?, in Aa.Vv., Scritti in onore di Eugenio Picozza, Napoli, 2019, pp. 1243 ss.
  27. Loi n. 2016-1087 pour la réconquête de la biodiversité de la nature et des paysages: ne parla M. Monteduro, op. ult. cit.
  28. Da ultimo, la strategia ONU sulla sostenibilità, consolidata nell’Agenda 2030 sullo Sviluppo sostenibile, in https://unric.org/it/wp-content/uploads/sites/3/2019/11/Agenda-2030-Onu-italia.pdf.

Clara Napolitano

Associate Professor of Administrative Law in the Department of Legal Sciences of the University of Salento